martedì 6 marzo 2018

Pál Adrienn - Ágnes Kocsis

mi vengono in mente altri due film con il protagonista decisamente sovrappeso Virgin Mointain e Gigante*.
anche Piroska, la protagonista di questo film ungherese ha qualche chilo di troppo, ma non se ne preoccupa.
lavora in un posto dove la gente muore tutti i giorni, e mangia, altro non fa.
fino a che riappare il nome di Pál Adrienn, e Piroska si ricorda della migliore amica, forse l'unica, che ha mai avuto (se ricorda bene) .
la cerca, senza successo, e tutto va avanti come sempre, mangiare e morire, col sottofondo della musica lirica e dei trenini del marito.
ci sarà un film ungherese divertente, ma non è questo.
non succedono molte cose, la cinepresa non molla mai Piroska, e comunque ne succedono tante in Piroska.
mutatis mutandis la vita di Pironka assomiglia a quella di Charly, il protagonista di Fiori per Algernon, di Daniel Keyes. e I due mondi di Charly, di Ralph Nelson, vita noiosa, poi succede qualcosa, ma alla fine si torna all'encefalogramma abbastanza piatto.
se uno non si spaventa per la morte e può seguire un film che non è a cento all'ora allora merita - Ismaele




Gigante - Adrián Biniez
un film sull'innamoramento, con Jara che alla fine riesce a parlare con Julia, ma noi non sentiremo mai cosa si diranno.
un film che racconta anche quei moderni campi di lavoro che sono ipermercati e centri commerciali.
non è un film epico o avventuroso, è piuttosto dimesso, come lo è Jara, e Julia, gente umile che lavora per sopravvivere, di quelli che il cinema ci fa vedere di rado.
merita.



L'ascensore si apre e la sagoma enorme dell'infermiera obesa trascina fuori lungo il corridoio illuminato da una fredda luce verdognola la barella su cui è disteso il cadavere di un paziente appena morto, al termine del corridoio percorso con indolenza pesante c'è la sala settoria dove la barella viene parcheggiata in attesa di infilare il corpo senza vita in un frigorifero.
Questa scena, ripetuta in maniera quasi ossessiva, costituisce il livido refrain del film, il simulacro di una vita grigia e desolata quale quella che vive la giovane Piroska, infermiera obesa che lavora in un reparto per malati terminali, dove l'unica attesa è quella del monitor che decreti la fine di una vita e dove ogni atto è compiuto in funzione di quel momento, con la giusta mestizia…

È un interessante film sulla memoria e sul pre-giudizio (quello che ognuno di noi ha applicato ai compagni di un tempo e che si fa fatica ad accettare di veder modificato). Ma è anche un'agghiacciante rilevazione sul trapasso negli ospedali. I luoghi in cui abbiamo rinchiuso (per allontanarlo dalla nostra vista) il temibile mistero del morire.

…Piroska sembra vivere in un mondo tutto suo, è talmente alienata dallo schifo che è costretta a vedere tutti i giorni che ormai sembra essersi abituata a tutto, il suo viso è una maschera dalla quale non trapela mai neanche un barlume di emozione, è sempre fredda e totalmente distaccata da tutto quello che le succede intorno, è l'emblema della solitudine e della rassegnazione nei confronti della vita.
Poi un giorno però avviene qualcosa: nel suo reparto giunge una vecchietta con un nome familiare, Pal Adrienn, proprio come la sua migliore amica di infanzia , una bambina con la quale aveva un rapporto unico e irripetibile ma che per qualche ragione che lei stessa fatica a ricordare non sente e non vede da oltre 20 anni.
Qualcosa sembra essersi smosso nell'animo di Piroska , finalmente in mezzo a tutto quel grigiore riaffiora il ricordo dell'unico periodo felice e spensierato della sua vita, il ricordo di quella bambina tanto dolce e amichevole che lei reputa l'unica amica vera che abbia mai avuto…


Film dall’aria afflitta ma sotterraneamente tesissimo, disegnato egualmente tra dialoghi e movimenti di macchina, tali da non ricorrere mai al campo e controcampo, come ai primi piani. Fino a quel sommovimento impercettibile dell’incontro tra Piroska e il figlio della paziente Pal Adrienn moribonda. “Come fai a sopportare tutto questo?”, chiede lui. “Bisogna abituarsi”, risponde lei. Ricordandoci che nessuno, in due ore e quindici di film, di fronte ad un ingozzarsi continuo di cioccolata, croccanti cereali, panini, torte, fa apprezzamenti sull’evidente grassezza della ragazza. Un alone di misteriosità che risiede più nello sguardo di chi riprende, piuttosto di chi sta in campo, inquadrato fronte macchina.

Il film ricorda inesorabilmente, per certi versi, Gigante, di Adrian Biniez, acclamato e premiato al Festival di Berlino del 2009. Soprattutto per l’incedere della protagonista, per alcune trovate visive e narrative. Anche l’infermiera, come il gigante di Montevideo, è alla ricerca di qualcuno, quasi in un pedinamento perenne. Le linee del cuore sul monitor sono onde di forzata resistenza, come quella piatta della vita che la protagonista difende giorno per giorno. La regista pare voglia auspicare una vera simbiosi tra le sinuose tracce aggrappate al prossimo respiro e la scarna, quanto fredda ambientazione. Non c’è un sussulto, una deriva narrativa, solo un lento e dolente ricordo che sale e scuote impercettibilmente lo sguardo. Sono isole sparse le sequenze che si susseguono e non c’è spazio neanche per sdrammatizzare, divertire, sfumare i suoni e le speranze. Niente di trascendentale, neanche di innovativo, l’incedere è tipico del cinema europeo dell’est, con estenuanti reiterazioni e scorporazioni che alla fine però convincono, se non altro per la capacità della regista di tenere tutto insieme con caparbia e ossessiva coerenza.  

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