giovedì 30 settembre 2021

Il matrimonio di Rosa (La boda de Rosa) - Icíar Bollaín

“Il tempo cambia molte cose nella vita, il senso, le amicizie, le opinioni, che voglia di cambiare che c’è in me!” dice Franco Battiato, e a 45 anni Rosa dice basta a tutto quello che la fa soffocare e decide che è arrivato il momento di cambiare tutto quello che la allontana da se stessa, vuole riprendere in mano la sua vita, senza più essere al servizio di tutti, meno che di se stessa.

il film è tutto qui (sembra poco, ma non lo è) e Rosa deve comunicare la sua decisione a tutti quelli a cui vuole bene, che non capiscono niente, ma proprio niente, all'inizio.

Icíar Bollaín è davvero brava, sa fare anche commedie, che fanno ridere e pensare, mica solo film drammatici.

buona visione - Ismaele

 

 

… La commedia ha una strutturazione lineare, non presenta particolari virtuosismi di montaggio o di trama, sembra invece un flusso abbastanza metodico di volontà personali e reazioni attive nella vita di tutti i giorni. La componente emotiva è preponderante per comprendere il disagio che Rosa affronta, e di riflesso tutta la sua famiglia. Quest’ultima, infatti, è caratterizzata da comportamenti individualisti, ognuno pensa alle proprie problematiche, ignorando quelle degli altri e non prestando attenzione a quello che dicono. La mancanza di comunicazione è una componente ricorrente, che si manifesta attraverso il continuo parlare sopra agli altri senza fargli terminare il discorso iniziato. Si crea così un turbine di incomprensione che permea tutta la narrazione fino al finale…

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Attraverso uno spunto surreale il film riesce a dire molto, tra le righe, della frenesia della vita moderna e di quanto sia difficile stare a contatto con noi stessi, renderci conto delle nostre sofferenze e reagire, nonostante il rischio di non essere capiti. A questo si intreccia poi la questione della memoria e del rapporto con la tradizione sollevata dalla scelta della protagonista di tornare a vivere in una cittadina di provincia dove avviare la sua attività di sarta indipendente è senz’altro più faticoso; eppure la difficoltà sembra poca cosa davanti al calore del negozio, che appare, non a caso, un luogo pacifico e accogliente, inondato dalle luci che filtrano attraverso le finestre, al contrario del buio laboratorio di produzione dove abbiamo conosciuto Rosa, addormentata esausta sulla propria macchina di cucire. Uno spazio che diventa emblema della possibilità di Rosa di abbracciare un nuovo stile di vita…

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I melodrammi portano in superfice i conflitti e le strutture della psiche, un’esteriorizzazione che avviene attraverso situazioni estreme al fine di generare una retorica etica su cui il dramma si basa. Al centro de Il matrimonio di Rosa vi è infatti un nemico che la protagonista deve affrontare, ma a differenza di quanto possiamo inizialmente presumere questo nemico è lei. La sua vita a disposizione degli altri l’ha resa infelice per molto tempo, il grande amore che prova per chi la circonda la sta dilaniando perché non ne rimane nulla per lei.

Icíar Bollaín racconta una storia di amore e indipendenza a partire dalla riscrittura di una cerimonia che nel corso dei secoli ha sempre sancito per la donna il prestarsi a servizio di un altro. Rosa distrugge tutto e decide di mettere in scena il suo desiderio, lo domanda e reclama, l’unico giuramento che pronuncia è per lei e lei soltanto…

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…La idea central es la defensa de la libertad individual, la emancipación femenina de una mujer de mediana edad, la idea de perseguir los sueños propios.

Las interpretaciones son todas bastante correctas, especialmente las de Candela Peña, Sergi López y Nathalie Poza,… pero los personajes, quizás lastrados por el guión, no generan la empatía necesaria, les falta profundidad. Algunos cambian su comportamiento y carácter en pro del mensaje final de la película
Le faltan diálogos más brillantes, humor más enloquecido o tensión dramática, conflictos… y una resolución de historia de más credibilidad, no tan forzada.

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Podemos decir que La boda de Rosa es un filme de luminosa costa mediterránea que eleva nuestro espíritu. Bien escrito y rodado, con la profesionalidad y rigor a que nos tiene acostumbrados su directora, Icíar Bollaín, cuenta con la interpretación más que convincente de Candela Peña. Se inscribe dentro de la comedia dramática, pero como esta fórmula resulta muy general, habría que hablar de comedia vitalista, esperanzada; sin engañosos falsos optimismos ni asomo de manual de autoayuda. Con el realismo de quien considera que los seres humanos somos tan torpes como dignos (y necesitados) de cariño. Una estupenda película para el regreso a las salas, pues ya se sabe que la comedia gratifica más escuchando las risas del público.

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La boda de Rosa es un canto a la necesidad de romper con aquello que opaca una voz propia y la reflexión vital hacia lo que es uno mismo. A través de un guion personal y con una introspección sencilla, pero certera, Icíar Bollaín mete al espectador a una historia costumbrista con un mensaje muy claro. Candela Peña está excelente y demuestra ser un todoterreno como actriz. Sin embargo, falta mayor potencia en la artesanía de la imagen, donde se extraña una personalidad íntima y con un cuidado por el detalle que aquí no llega a efectuarse. Una ceremonia sobre la búsqueda de la identidad necesaria, que triunfa en su ejecución, pero no en el envoltorio.

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La película cuenta con un gran guion, escrito por la propia directora en colaboración con Alicia Luna, en donde se nota que no ha participado Paul Laverty, el marido de Bollaín y el guionista habitual de los anteriores trabajos de la cineasta madrileña, ya que la propuesta tiene mucha frescura, es alegre al mismo tiempo que cuenta cosas duras, y se ve con una sonrisa, a diferencia de la mayoría de textos escritos por el guionista habitual de Ken Loach. Ese es uno de los puntos fuertes de la película, y el responsable de que la película mantenga el interés desde el prólogo inicial, en donde vemos a Rosa corriendo en una carrera popular por las calles de Valencia (lo que en realidad es un sueño o más bien una pesadilla), hasta ese gran desenlace, y que desarrolla bastante bien las historias personales de Rosa y de los personajes secundarios (salvo alguna excepción como la de Antonio, el padre de esa mujer de 45 años protagonista).

El otro punto fuerte de la película son sus interpretaciones, en donde destaca por encima del resto Candela Peña, que vuelve a demostrar su calidad como actriz dramática y cómica, en una actuación muy completa por la que podría lograr una nueva candidatura a los premios Goya. La actriz española 3 veces ganadora del cabezón, una de ellas como principal y dos como actriz de reparto, saca adelante de manera más que notable un personaje complejo y con muchos matíces como el de esa mujer que no puede más con su situación actual, y que es valiente para tomar una decisión como la de dejar atrás su pasado para iniciar una nueva vida…

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lunedì 27 settembre 2021

Supernova - Harry Macqueen

due persone che si amano da molti anni fanno in viaggio, per rivedere i luoghi e le persone conosciute da quando si sono innamorati, senza sapere che è l’ultimo viaggio, una delle due persone non lo sa ancora.

chi sta morendo piano piano, perdendo progressivamente il controllo di se stesso, ha deciso che non vuole essere preda della malattia, ma scegliere quando dire basta.

non è una scelta facile, ma nessuno può farlo per te.

Sam e Tusker sono al momento della verità, accettarla non è mai facile.

un film di attori (bravissimi), senza parole di troppo, senza troppi discorsi e proclami, un film sulla decisione della scelta finale.


buona visione - Ismaele 


 

 

 

 

 

Supernova è una delicata e malinconica poesiaun racconto di vita che attraversa terre fisiche e umane in modo da capire bene l’intimità alla base del rapporto dei protagonisti ma senza rompere quell’alchimia. Macqueen sceglie la via della grazia e della semplicità, non corre mai per narrare questa storia, resta sempre un passo indietro lasciando a Tusker e a Sam la dignità dei sentimenti. Tutto ciò si costruisce sugli schemi e con l’impostazione del road movie; uno dei punti forti della storia è la tensione struggente che si legge nei piccoli gesti, negli sguardi disperati, nei silenzi assordanti dei due, di chi non è pronto a lasciare andare e di chi vuole ancora avere il controllo sulla propria vita. Supernova è un film solido, commuovente e recitato magnificamente, non si ha mai la sensazione, la supponenza di poter giudicare, esprimere un giudizio, non si invade il cerchio d’amore, di stima che lega i due, ci si tiene a distanza pur partecipi.

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…A dare spessore alla pellicola contribuiscono una bella fotografia, che – pur senza particolari guizzi – ci immerge a pieno nella calma della campagna inglese e nel calore intimo degli ambienti familiari, e la prova attoriale dei due protagonisti. Firth e Tucci disegnano alla perfezione la complicità e la tenerezza di un amore di lunga data, ma è in particolare Tucci che colpisce per la sua interpretazione di una fierezza dolorosa e commovente.

In Supernova non ci sono pillole, ospedali o medici, non c’è pietismo o commiserazione, e il racconto della malattia diventa quasi un pretesto per portarci dentro alle dinamiche più vere e dure della vita e dell’amore. La pellicola è a tutti gli effetti un road movie che percorre un breve tratto della vita di una coppia qualsiasi. Un tratto così breve che il film a un certo punto viene quasi troncato, accompagnandoci ai titoli di coda con le ultime note di un piano, e lasciandoci – volutamente –  un senso di vuoto e incompiutezza.

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Grossomodo ogni dialogo inizia con la constatazione dello stato di salute di Tusker/Tucci, che sta peggio di ieri e meglio di domani. Il giorno dopo, con le variazioni del caso, si replica il medesimo canovaccio. A un certo punto, inevitabilmente si parla anche della “morte dignitosa”, ma nemmeno questo rappresenta in fondo il vero climax drammatico di Supernova. L’autore non vuole d’altronde climax né lacrime e così finisce per confondere l’equilibrio emotivo del film con una sostanziale piattezza. Non resta che ammirare i due attori, ma allo stesso tempo si prova l’insopprimibile desiderio di ascoltarli pronunciare altro, magari un testo di Pinter o un qualsiasi brano di Thomas Bernhard. Tucci e Firth recitano come se lo stessero facendo, ma sfortunatamente non è cosi.

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lunedì 20 settembre 2021

My dear enemy (Meotjin haru) - Yoon-ki Lee

Byung-woon e Hee-soo sono i due protagonisti del film, con un'alchimia perfetta.

Hee-soo vuole indietro i soldi che Byung-woon deve restituire, e Byung-woon cerca di onorare il suo debito.

la macchina da presa è tutta per loro e la loro corsa contro il tempo, un anno prima stavano insieme, ma poi si erano lasciati.

in queste ore alla ricerca di soldi i due riacquisiscono una certa intimità, si raccontano le cose, si sorridono, giocano un po', scherzano, noi vorremmo che si rimettessero insieme, ma sarà impossibile, lui è insopportabile e bravissimo, di parola e anche inaffidabile, ma come fai a non fare il tifo per loro due?

solo se hai un cuore, naturalmente.

propria una bella visione, non perdetevelo - Ismaele



 

Quello che a tutt’oggi è l’ultimo film del regista coreano è solamente in apparenza una sintesi o un volo leggero sulla superficie del suo cinema. Con esiti e con uno sguardo sicuramente diverso c’è una suggestione sottile che lega l’ultimo, bellissimo film di James Gray (Two Lovers) a My Dear Enemy; ed è probabilmente una tensione nera, o come ha preferito definire David Bordwell, semplicemente Hitchcockiana, nel modo in cui il corpo del melodramma subisce una re-visione a partire dagli oggetti, dalla dis-funzionalità dello spazio, dai tempi della sophisticated comedy che eccedono il meccanismo per essere inabissati nella forza distruttiva della durata. Che il cinema di Lee-yoon-ki sia un progressivo attraversamento dello spazio, inteso come arricchimento anche traumatico dell’esperienza, è chiaro in tutto il suo cinema, dove il peregrinare non è mai l’indicazione di un percorso autoritario e le forme di uno scrutare sfuggente ed ellittico (non solo Bressoniano) sono epifanie della visione aperte e possibili ; per rimanere all’interno di suggestioni im-pertinenti e legate ad un’idea normativa del racconto, il sistema causale nel cinema di Lee-Yoon-ki lo si coglie fuori e addirittura ci sorprende alle spalle della macchina da presa. Le vite degli altri, nel cinema di Lee-yoon-ki, restano un mistero invaso dalla presenza di segni ed oggetti mai ridondanti, uno sguardo che è leggero ma allo stesso tempo duro, tagliente e tagliato da un cinema che continua anche dopo i titoli di coda…

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A parte la lunga sequenza che apre il film, Lee generalmente si accontenta di evitare i ghirigori stilistici e di mettere al centro del film le interpretazioni degli attori - sebbene il ritmo irregolare del montaggio aiuti ad accrescere un senso di tensione tra i due protagonisti. Questa tensione, alimentata dal risentimento rabbioso di Hee-soo e dal senso di colpa di Byung-woon funziona più o meno come la vera storia del film, perchè si trasforma lentamente nel corso della giornata. La mente di Hee-soo è tirata contemporaneamente in più direzioni, data la disperazione delle circostanze in cui si trova, I ricordi dolorosi e positivi della loro relazione e l'intimità riluttante che si sviluppa tra loro nel corso della giornata, mentre lei apprende su Byung-woon cose che ignorava. Ovviamente, Jeon Do-yeon non ha bisogno di articolare in parola nulla di tutto ciò, si vede tutto sul suo viso.
In un certo senso però il film tradisce una preferenza per Byung-woon, perchè dà all'attore Ha Jung-woo un'eccezionale opportunità per mettere in mostra tutto il suo fascino. Nella sua breve ma intensissima carriera Ha ha mostrato una gamma interpretativa molto ampia, ma vederlo in questo film è un vero piacere, e non si può non esserne sedotti. Una grande recitazione, una regia sicura anche con una trama così semplice (ad essere scortesi, si direbbe "esile"), questo film di due ore inchioda alla poltrona.

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domenica 19 settembre 2021

Marcovaldo (dal libro di Italo Calvino) - Giuseppe Bennati

siamo negli anni del boom economico, in una città del nord che si è riempita di manodopera arrivata dalle regioni del sud e non solo.

si trovano a fare i lavoratori precari in imprese che diventano sempre più ricche grazie allo sfruttamento degli operai.

nasce il consumismo, naturalmente a rate, come una nuova schiavitù.

il romanzo di Calvino mostra i miti di allora (non troppo diversi da quelli d'oggi), e in Marcovaldo la continuità temporale dei secoli passati, senza troppi scossoni, si rompe e appare la modernità, che ha prodotto l'oggi (possiamo dire purtroppo?).

Nanni Loy è perfetto nella sua parte (ma tutti sono bravissimi) di un uomo dei nuovi tempi a cui è impossibile spogliarsi dei vecchi abiti.

un gioiellino da non perdere, promesso - Ismaele


ps: Il frigorifero, di Mario Monicelli, ha, mutatis mutandis, molto in comune con Marcovaldo


 

 

QUI il primo episodio (su Raiplay ci sono i primi tre, i sei episodi completi si trovano comunque su youtube)

 

 


Come evidenziano i titoli di testa dello sceneggiato, il Marcovaldo trasmesso dal Secondo canale Rai tra il primo maggio e il 5 giugno 1970 è una riduzione televisiva dell’omonima raccolta di novelle pubblicata da Italo Calvino sette anni prima. Del testo originale, l’adattamento curato da Manlio Scarpelli, Sandro Continenza e dallo stesso regista Giuseppe Bennati conserva la rappresentazione in sei puntate in bianco e nero di alcuni episodi che vedono protagonista la numerosa e sempre unita famiglia di Marcovaldo, un manovale di un’imprecisata città industriale del nord Italia, che nello sceneggiato diventa Torino.

Da un libretto di poco più di cento pagine, è nata una sceneggiatura di milleduecento, che Calvino dice di aver letto tutta d’un fiato.

La versione televisiva di Marcovaldo è stata girata nei teatri di posa della città, ritenuti, all’epoca, i più grandi d’Europa.

Le musiche dello sceneggiato sono state composte da Sergio Liberovici ed eseguite dalla Traditional Jazz Studio Praha e da Silva e i Circus 2000; la sigla è cantata da Nino Ferrer e da Silvana Aliotta (Circus 2000).

Nel 1970, l’originale calviniano era già talmente popolare da essere adottato come libro di testo nelle scuole; Nanni Loy, interprete dello strampalato protagonista, inoltre, da quasi dieci anni era un volto molto familiare agli italiani.

Francesca Sammarco

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I funghi, i reumatismi, i detersivi, il coniglio velenoso, la fermata sbagliata, Luna e Gnac, Babbo Natale, la neve… Certo non è come leggere Calvino, però Bennati ha fatto un buon lavoro intensificandone la vocazione anticonsumistica ed antimetropolitana ed affidando a Loy – magrissimo, stralunato, candido e dinoccolato - l’umile travet proto-Fantozzi Marcovaldo. Valore aggiunto l’ampliamento di personaggi secondari come la moglie Domitilla (Perego) e il caporeparto amico-rivale Viligelmo (Foà). La città è Torino, nel romanzo mai nominata ma assai intuibile.

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sabato 18 settembre 2021

Founder - John Lee Hancock

un film sul sogno americano, scusate, sull'incubo americano.

due fratelli, di cognome McDonald, hanno un ristorante ben gestito, con cibo di qualità, a prezzi bassi.

Ray Kroc li imbroglia, a più riprese, il fatto che sia un'idea di successo planetario non toglie il peccato originale.

il film è ben fatto, Michael Keaton è bravissimo, il suo personaggio disposto a passare sopra tutti e tutto, per il suo sogno personale, è un incubo per tutti gli altri.

una metafora del capitalismo senza prigionieri, istruttivo - Ismaele


 

 

 

 

 

Questo per stare alla pura e semplice costruzione del personaggio, che è furbo, ambizioso, insistente, caparbio, preveggente, intuitivo. Ray Kroc ha un solo dono: sa anticipare le mosse di avversari e colleghi. Tutto quello che fa, lo fa trasformando la forza o la disperazione degli altri in guadagno per sé stesso, anche quando deve divorziare dalla moglie che da tempo non lo ama più. Kroc è un animale sociale che interpreta in chiave prettamente utilitaristica la selezione naturale della specie. E lo fa con il sorriso da venditore sempre pronto, con la parlantina dell’imbonitore che aggredisce i propri clienti alla stessa maniera in cui, nella prima scena del film, aggredisce gli spettatori: guardandoli dritti negli occhi…

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Ci sono film che valgono più di decine di saggi per spiegare come 'funziona' una società che consente di depredare 'legalmente' delle persone permettendo a chi compie l'operazione di arricchirsi a dismisura grazie all'intuito e al fiuto per gli affari di cui è dotata. Documentari e film spesso negativi sull'impero dell'hamburger cotto e mangiato ne sono stati prodotti diversi e alcuni hanno anche ottenuto un'audience di un certo rilievo. Nessuno aveva però ancora delineato con l'acutezza di sguardo di John Lee Hancock (un regista esperto in biopic) il percorso seguito dal suo fondatore. È quello che accade ora e il lancio che recita "Il genio che ha fondato l'impero del fast food" ha un'ambiguità che va letta nel profondo. Perché sicuramente Crok ha avuto la genialità di comprendere come la catena di montaggio nella preparazione degli hamburger e la qualità delle materie prime impiegate dai due fratelli avessero tutte le caratteristiche per imporsi, almeno inizialmente, su scala nazionale. Alla definizione di 'genio' si potrebbe però aggiungere la specifica "del Male" perché Crok non solo, grazie ad un escamotage che spostò il tiro dalla vendita di hamburger alla proprietà immobiliare delle numerose filiali progressivamente aperte, poté recidere i legami contrattuali con i due fratelli ma si impadronì del logo nonché del loro stesso cognome…

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resta significativo che nel trattare questo capitolo della storia americana il film di Hancock giunga esplicitamente non alla critica di un controverso sistema alimentare, bensì all’elogio della perseveranza che ha animato l’American dreamer Ray Kroc. In questa soluzione politically correct sta, a mio avviso, un elemento moralistico tipico del cinema USA, una sorta di apologia del mito dell’uomo che si fa da sé che è anche nostalgia dell’America degli anni ’50. Eppure nella rappresentazione data dal film non v’è (volutamente?) traccia alcuna del lato oscuro di quegli anni dominati dai postumi della Guerra di Corea e dallo spettro del Maccartismo. Tutto ciò esprime molto bene, in ultima analisi, l’idealizzazione passatista che sembra caratteristica degli USA di Donald Trump.

Attenzione, con ciò non voglio dire che il film sia politicamente schierato: semplicemente penso che, al di là delle intenzioni dei creatori del film, The Founder rifletta alcune coordinate storico-sociali tipiche del nostro tempo. E il fatto che tali coordinate inconsce non vengano consciamente problematizzate resta probabilmente il più grande limite del film.

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The Founder è un film dalle molteplici chiavi di lettura. Da un lato può essere visto come una straordinaria storia di successo; dall’altra di cosa possa comportare, dal punto di vista degli affetti, delle relazioni con le altre persone e anche sull’intera società, un exploit imprenditoriale.
La figura di Ray Kroc, magistralmente interpretata da Michael Keaton, rappresenta nello stesso tempo la forza, ma anche la debolezza, del sogno americano: il successo individuale porta con sé a cascata inevitabili conseguenze su altre persone. Si celebra l’impresa e l’uomo che è a capo di tutto ma si dimentica chi, per realizzare un sogno altrui, ha rinunciato ai propri.

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Prodotto senza infamia e senza lode (che però senza Michael Keaton avrebbe avuto grosse difficoltà), The Founder non mostra, volutamente, il momento in cui il cibo ha preso una direzione differente dalla qualità. Piuttosto esibisce e premia chi ha creduto nel marchio, ha avuto un’illuminazione e ha fatto diventare un piccolo fast-food un punto di ritrovo sparso per tutti gli Stati Uniti, una sorta di “nuova chiesa americana”.

The Founder è un prodotto che mette in guardia lo spettatore senza calcare la mano e che si accompagna delicatamente con una sceneggiatura lineare e priva di scossoni. Insomma The Founder è un classico di genere che pesa l’ambizione e la follia di un uomo con tanti (troppi) poteri decisionali, poco controllo e un forte sentimento di rivalsa.

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venerdì 17 settembre 2021

Tokio sonata - Kiyoshi Kurosawa

una famiglia nella tempesta perfetta, la crisi economica lascia senza lavoro il pater familias, il figlio grande parte a fare la guerra, pensando a una missione di pace, il figlio piccolo ha un sogno nascosto, la moglie e madre è impotente davanti agli eventi.

un dramma nel dramma costringe tutti a guardare la realtà in faccia e a essere indulgenti, con difficoltà, certo, ma anche il padre, sopratutto il padre, che intanto pulisce i cessi di un centro commerciale, fa un bagno di realtà e di umiltà senza pari.

un film grandissimo, cercatelo e godetene tutti - Ismaele


 

 

Kiyoshi Kurosawa è regista che in passato si era messo in evidenza soprattutto nel campo dell'horror. Qui si cimenta invece col terrore reale, tangibile della società e delle paure che vivono in noi. E riesce a dipingere un ritratto talmente accurato della middle-class giapponese odierna che se non fosse supportato da un copione decente “Tokyo Sonata” risulterebbe comunque un buon film, quanto meno da un punto di vista strettamente sociologico. Ma il buon copione c'è. Ne vien fuori un'eccellente opera che insegna senza annoiare. Presentato a Cannes 2008, vinse il premio della giuria. Fortemente consigliato.

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Kurosawa osserva la famiglia con amore, forse, con comprensione, magari, ma con ben poca compassione, privilegiando la camera fissa per denudarne le fragilità: a volte il tavolo da pranzo, unica occasione di (finta) riconciliazione, è addirittura inquadrato dall'esterno, mediato da un vetro e da riflessi che dicono più di mille parole su quel che avverrà di lì a breve. Straordinaria la prova attoriale di Teruyuki Kagawa, calato perfettamente nel ruolo fantozziano del protagonista, incapace di liberarsi persino nel momento di massima ira, quando, seppur armato di bastone e con intento distruttivo, non rinuncia a sistemarsi goffamente il borsello, residuo di una divisa che per lungo tempo ha significato "classe media" e un determinato inquadramento sociale. Prima che lo tsunami della crisi rimettesse tutto in discussione, giocando con i destini di piccoli uomini indifesi come lui.

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…questo film non è la storia di un personaggio ma di una famiglia: la moglie anche lei vittima di alienazione dall'essere casalinga cerca di tenere unita la famiglia con il figlio grande che vuole partire per fare il militare di professione in America(contro il parere dei genitori) e l'altro figlio più piccolo che vuole studiare pianoforte anche lui contro il volere del padre.Se nella prima parte letteralmente incastonata in scenari urbani degradati, insistiti piani sequenza in campo lungo per seguire il protagonista, interni familiari carichi di silenzi e di significati, la seconda parte proprio perchè sente l'urgenza di raccontare gli altri componenti della famiglia perde di compattezza soprattutto nel racconto delle vicende della donna che viene rapita da un disperato venuto a rapinare casa per pochi spiccioli(che non trova).La sua fuga per un attimo le fa prendere consapevolezza del vuoto che la sta attanagliando ma anche della volontà ferrea di non perdere quello che ha ottenuto. E' venuto il tempo di ufficializzare la nuova situazione: dopo varie vicissitudini(e per narrarle il film assume un ritmo che non aveva prima con tanti avvenimenti compressi in pochi minuti)la famiglia si ritrova a tavola come per voler consumare un rituale. Ognuno con il suo ruolo nuovo ormai noto anche agli altri componenti della famiglia. Dopo l'apparente implosione, la restaurazione di un nuovo ordine, un nuovo modo di relazionarsi non più improntato al grigiore. Esemplare anche il modo in cui Kurosawa sceglie di terminare: quasi a simboleggiare l'uscita di scena da una rappresentazione teatrale dei personaggi principali. Forse tutto quello che abbiamo visto in due ore abbondanti non è stato reale ma solo una rappresentazione. Forse quello che ci vuole consegnare il film è un messaggio di ottimismo, di speranza nei nuovi virgulti che possano trarre dalle secche la vetusta società nipponica incagliata in rituali millenari assolutamente obsoleti. E questo è già uno scarto in positivo rispetto ai finali di Kyua e Kairo(Pulse) che terminavano con un apocalisse incombente. Certo quelli erano horror ma lo sguardo su una società apparentemente cinica come quella nipponica era lo stesso. Ma, indipendentemente dal genere credo che il pensiero di Kurosawa sul Giappone di oggi sia stato costantemente affermato in ogni suo film. Chissà dopo una carriera trentennale, a 55 anni compiuti anche lui sta cercando di guardare quello che lo circonda con più comprensione....

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 …A sonata is a classical form in which two musical ideas are intercut. In the beginning, they are introduced. In the following sections, they are developed in passages revealing the secrets or potentials of both. The conclusion does not resolve them; instead, we return to look at them, knowing what we know now. The "themes" in this movie are the father and his family. At the end, they feel the same tensions as at the beginning, but the facade has been destroyed, and they will have to proceed unprotected.

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…Lo que media entre los dos primeros planos de Tokyo Sonata, ya comentados, y aquel que cierra la película —la salida de los personajes de la sala de conciertos—, es el tránsito entre la intuición vaga de otro mundo, y el desvanecimiento de Megumi, Ryūhei y Kenji en este. No resulta baladí que la música, es decir, la expresión artística, sea la que abra las puertas a esta fuga —sentimental, existencial— de padres e hijo hacia un territorio que se resiste a ser delineado por nuestra psique. El papel que juega el Claro de luna de Claude Debussy en Tokyo Sonata revela que estamos ante una de las producciones más rotundamente metacreativas de Kurosawa: ¿no es acaso el arte el único medio susceptible de abrir, siquiera por un instante, la rendija que nos permite vislumbrar ignotos grados metafísicos del ser por los que sentimos, tan a menudo, esa extraña añoranza que suscita lo no vivido? Al final del filme, la familia ya pertenece a una realidad que no es la que habitamos, y hacia esta nos giramos, desconcertados y conmovidos, como los asistentes al concierto.

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Passare dall’horror a sfondo sociale di tutti i suoi film precedenti al terrore soffocante che risiede all'interno di una famiglia del ceto medio su cui si abbatte il dramma della disoccupazione è cosa che a Kurosawa Kiyoshi riesce magnificamente.

Tutti gli stilemi del suo cinema sono rispettati, le ellissi e la suspense, campi larghi e lenti movimenti di camera, lo sguardo diretto sul lato nascosto delle cose, là dove incombono la tragedia, l’enigma e l’incomprensibile coperti da paradigmi di ordine e regolarità.

Il brusco capovolgimento di scena che dal quadretto rassicurante di una vita tranquilla si trasforma in un vortice che risucchia tutti trascinando sul fondo appartiene a quell’orrore del quotidiano che non appare, non ha bisogno che la temperatura emotiva dello spettatore si alzi, circospetto e insinuante come una serpe toglie dal basso ogni sorta di radicamento al terreno sicuro del reale.

Quello che appare, allora, è uno scenario apocalittico dove tutto continua a scorrere nei binari consueti, come quei treni che passano e ripassano con i loro finestrini ciechi.

Siamo a Ozu, il primo passo di ogni cineasta giapponese che si rispetti.

E la prima scena di Tokyo sonata è in perfetto stile Ozu.

Un vento leggero muove la tenda, entra un po’ di pioggia a bagnare il pavimento,  la madre    corre ad asciugare con passo leggero e la macchina è posta “ad altezza di tatami”.

L’interno dell’appartamento della famiglia Sasaki è sobrio, gli spazi cubici, i pasti silenziosi e le ciotoline variegate, marito e figli alla fine ringraziano educatamente la madre per la cena.

Fuori c’è Tokyo, sempre lei, la città per antonomasia, quella dei salary men e della yakuza, delle madri di famiglia silenziose e docili e dei figli che scalpitano in cerca d’altro. La Tokyo che è un pezzo importante dell’immaginario giapponese, città tentacolare e straniante, dove si dà un pasto caldo in spazi adibiti a gente in giacca e cravatta rimasta senza lavoro, dove svettano i grattacieli delle compagnie internazionali d’affari e da un momento all’altro ti ritrovi a svuotare la tua scrivania e mettere tutto dentro una scatola di cartone.

Come negli USA, e film del genere ne abbiamo visti tanti.

Il Giappone sconfitto del dopoguerra ha metabolizzato ferite che sono diventate tumori.

C’è in Tokyo Sonata una lettura politica che non va sottovalutata.

Il primogenito che decide di arruolarsi con l’esercito americano, contravvenendo, complice il governo che lo lascia fare insieme ad altri, alla Costituzione che vieta al Giappone di entrare in guerra.

Ma gli Americani non vanno ad uccidere! risponde il ragazzo alla madre perplessa.

No, gli Americani portano la pace nel mondo!...

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mercoledì 15 settembre 2021

Qui rido io - Mario Martone

Toni Servillo è da leone d'oro e da oscar insieme, di una bravura olimpica, al servizio di un grande film di Mario Martone.

quella che nel film chiamano famiglia allargata è praticamente un harem, Eduardo Scarpetta è un trombeur de femmes, che sanno convivere le une con le altre, solo che ci sono figli e figliastri.

Eduardo Scarpetta è un mostro di bravura, scrive e fa teatro popolare, amato da molti, meno da Peppino de Filippo, con tutte le ragioni del mondo, e anche più.

Eduardo de Filippo è invece devoto al padre/zio e succhia la capacità di scrivere teatro, e di stare sul palcoscenico.

la sceneggiatura è perfetta (come gli attori) e D'Annunzio è un imbroglione, e molto antipatico, per non dire stronzo, lo vediamo in una scena che fa pisciare dalle risate.

Eduardo Scarpetta è un po' Chaplin, un po' Totò, sempre sopra le righe, umiltà zero, cantore dell'anima popolare napoletana, peccato per noi che cinema e televisione non si siano incrociati con lui, e per noi Eduardo Scarpetta sarà per sempre Toni Servillo, il dio del cinema lo protegga.

non perdetevi questo gran film, non ve ne pentirete - Ismaele



 

 

Si vola alto, in Qui rido io. Ma lo si fa senza snobismo, senza spocchia. Con un gusto e un piacere del racconto che respira libero in ogni scena. E con una gioia di fare cinema sul teatro, e nel teatro e per il teatro, che fa bene agli occhi e al cuore. Sino a un finale di grande cinema, che è bene non rivelare, ma che rivendica al cinema la capacità di giocare con le maschere e con i miti, e di rendere eterno ciò che a teatro è inevitabilmente effimero e precario, esattamente come nella vita.

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Come dice Benedetto Croce all’attonito Scarpetta, quando gli annuncia che lo difenderà dalle accuse di D’Annunzio in tribunale, “Ma come, voi che ridete di tutto non sapete ridere sul tempo che passa?”. Alla fine il cuore del film è questo. Centrato sulla figura unica di questo capocomico arrogante, padre-padrone, pronto a rubare la scena a figli e figliastri fino all’ultimo istante, anche a costo di umiliarli, “Qui rido io” ci ricorda che lo spettacolo è ancora l’arma migliore per combattere l’angoscia del tempo e della morte. Che poi lo faccia prendendo a prestito le forme e i codici del teatro per trasformarli in cinema, non fa che accrescerne la grandezza. Altro che “semplice biopic”, come abbiamo sentito dire in giro.

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La Napoli di Scarpetta è per Martone l'emblema di un'Italia più vasta, il repertorio di tutte le emozioni del mondo e la lente attraverso cui analizzare a fondo il rapporto tra il singolo e la società, tra genitori e figli. La parola canta e le canzoni declamano dentro uno spettacolo che celebra Napoli, il suo splendore e le sue miserie, la sua umanità irriducibile e barocca. Per una tale impresa serviva un attore-mostro, una risata enorme, rabelesiana. Toni Servillo vive da sempre nel mondo di Scarpetta e di De Filippo, è lo specchio di quel mondo, una città aperta. Come Napoli è un teatro en plein air, dove corpo e lingua vanno insieme. Dietro al trucco interpreta un predatore sessuale che possiede e disprezza le donne, un avventuriero prima che un padre e un marito. Sul palcoscenico è 'Felice', un personaggio contenitore fuori dal tempo, perché Scarpetta non concettualizzava, era un pittore di emozioni non un architetto di riflessioni.

Martone osserva il quadro d'epoca, raccoglie le prove e le lascia interagire, dando 'na voce al segreto di Eduardo De Filippo, che viveva la sua nascita come una vergogna, e alla rassegnazione muta delle donne, perennemente ingravidate, che troveranno domani la forza di Filumena Marturano. La 'prostituta' che sovverte i codici borghesi e forma una famiglia dove il principio di paternità legittima perde il suo significato.

A ossessionare lo Scarpetta di Martone è il desiderio di essere riconosciuto, la volontà che "Il figlio di Iorio", parodia della tragedia pastorale di D'Annunzio difesa in tribunale da Benedetto Croce, perito di parte, venisse 'riconosciuta'. Disattesa resta la frustrazione legittima dei figli illegittimi, invitati a partecipare soltanto a un apprendistato artistico e professionale.

Frammentato e intimo, eccessivo e ludico, il film tradisce più una sconfitta che una conquista, ribadendo una relazione padre-figlio esclusivamente scenica. Qui rido io è la storia tragicomica di un capocomico-patriarca e di una compagnia di figli-nipoti, che a turno ripetono la parte: "Scarpetta m'è pate a me".

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lunedì 13 settembre 2021

La Educación Prohibida - German Doin

un documentario che parla di scuola, nei paesi di lingua spagnola.

il film è abbastanza a tesi, dove tutto è bianco o nero.

interessante, ma a volte ripetitivo.

buona visione - Ismaele

 

 

Una sola palabra me basta para decirlo, La educación prohibida es nefasta. Su crítica pretendidamente naturalista distorsiona tanto las cosas que si uno cree que hay modificar las estructuras escolares, luego de las dos horas veinte se vuelve el más ferviente defensor de la escuela tradicional. El documental fomenta el conservadurismo. Su inveterada forma de presentar las entrevistas no es más que una invitación al rechazo. Abruma el poco compromiso con la forma, lo que redunda en un escasísimo compromiso con el contenido. No es que se puedan separar. Si quienes estuvieron a cargo de La educación prohibida hubieran reflexionado acerca de la forma, el contenido hubiese sido literalmente diferente, provocando otras reacciones, por lo menos en el caso de quien escribe.

Sería posible por qué no definir al documental como patético: pathos, pasión, apasionado. Lo que no implica que genere en el espectador ningún sentimiento, o mejor dicho, el sentimiento que se pretende generar. Yo no concuerdo, pero dicen que para muestra vale un botón: ya en el epílogo de La educación prohibida, uno de los docentes entrevistados a lo largo de las más de dos horas, aparece emocionado, casi llorando, patético de verdad, y profiere una frase que es de antología: lo único que importa es amar a los niños. Mi carcajada fue incontenible. No era alegría sino más bien sorpresa, descubría en ese momento que La educación prohibida no era un documental, era una película cómica.

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“Tutto il mondo parla di pace ma chi educa alla pace? La scuola educa alla competizione e la competizione è il primo passo verso qualsiasi guerra”. Una considerazione che non può lasciare indifferenti quella che fa Pablo Lipnizky, insegnante colombiano presso una scuola montessoriana. Si parla di solidarietà, comunità, uguaglianza, cooperazione, libertà, felicità, si rendono protagonisti valori umani profondi, ma il sistema scolastico attuale promuove esattamente i valori opposti: la competizione, l’individualismo, la discriminazione, il condizionamento, la violenza emotiva, il materialismo…

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domenica 12 settembre 2021

Il gioco del destino e della fantasia - Ryusuke Hamaguchi

se uno non capisse subito che si tratta di un film giapponese (di Ryusuke Hamaguchi, non Tamagotchi) penserebbe di essere capitato dentro un film francese, magari di Éric Rohmer.

i tre episodi sono completamente slegati fra loro, autonomi, in comune hanno il caso, l'equivoco, le coincidenze, una qualche forma di amore o di affetto.

nel primo episodio un tombeur de femmes non sapeva una cosa, una sfortunata coincidenza, nel secondo un errore di scrittura provoca un danno enorme, una trappola che non lo era più, e poi tutto si complica, e nel terzo due donne si incontrano, e ognuna vede nell'altra quella che avrebbe voluto vedere, e nella finzione riescono a dirsi quello che avrebbero voluto, alla persona sbagliata, ma non importa, è come se fosse la persona giusta.

piccolo grande film, non perdetevelo, al cinema, in una ventina di sale - Ismaele



 

 

 

 

Tre storie di rivelazioni e coincidenze nel Giappone d'oggi. Nella prima, una ragazza si rende conto che la sua amica ha incontrato e si sta invaghendo del suo ex-fidanzato, e deve decidere come comportarsi. Nella seconda, uno studente vuole vendicarsi di un professore che lo ha bocciato, e persuade una studentessa a incastrarlo con un tentativo di seduzione dagli esiti imprevisti. Nella terza, due donne si riconoscono reciprocamente per strada come due importanti figure del rispettivo passato, ma un pomeriggio insieme farà venire alla luce una realtà un po' diversa…

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Magia, Porta spalancata e Ancora una volta - questi i titoli dei tre 'mediometraggi' che compongono il film - agiscono sullo spettatore mentre il destino intessuto da Hamaguchi agisce sui personaggi, in un film verbale che fa un uso incredibile del piano d'ascolto e sublima la potenza del dialogo scritto e recitato, senza però dimenticare l'importanza fondamentale delle immagini.

Il film, che è arrivato in Italia all'inizio dell'estate in concorso al Far East Festival di Udine, adesso è disponibile nei cinema grazie a Tucker Film e ribadisce il talento di uno degli autori più impressionanti e originali del cinema internazionale: del resto pochi al mondo sono in grado di lavorare così bene con le parole e con gli attori come Hamaguchi, in precedenza già autore di film potentissimi come Happy Hour (un dramma di cinque ore - ! - sulla vita sentimentale di quattro protagoniste) e Asako I-II, tormentato dramma sentimentale su una ragazza che dopo aver perso l'amore della sua vita si invaghisce di un suo sosia. Senza dimenticare la sceneggiatura di Wife of a Spy, nuovo acclamato thriller di Kiyoshi Kurosawa firmata proprio da Hamaguchi…

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Come suggerito dal titolo, sono il destino e la fantasia i concetti-chiave intorno ai quali ruotano i tre racconti e i personaggi che animano Wheel of fortune and fantasy. Tre episodi, o forse sarebbe meglio dire tre variazioni, tre movimenti della medesima sinfonia su schermo, tre passi a due nel medesimo eterno ballo dell’esistenza, che mettono in scena altrettante donne alle prese con le differenti manifestazioni della casualità della vita, nello sviluppo e nel modificarsi di rapporti umani che, come tutti i rapporti umani, non possono prescindere dall’inventiva e dall’immaginazione. È il caso ciò che regola gli incontri, che fa passare proprio in quel momento di fronte a quel bar, che fa salire proprio su quell’autobus, che fa incrociare proprio su quella scala mobile, che fa sbagliare il destinatario di una mail o che interrompe un ritrovato idillio per recuperare il computer in ufficio, ed è la fantasia ciò che comanda le scelte con cui approdare all’uno o all’altro finale, con cui sedurre o scoprirsi sedotti, con cui tentare di forzare la mano, con cui definitivamente svelarsi o ancora impersonare i sentimenti di chissà chi con il nobile scopo di rendere, almeno per un attimo, qualcun altro felice. Eppure, fra le mille coincidenze che puntellano il film di Ryûsuke Hamaguchi, non è in alcun modo fortuito che a fare da filo conduttore della mini-trilogia ci siano le note romantiche del Kinderszenen e del Waldszenen, opere 15 e 82 di Schumann di cui è forse massima interprete mondiale la pianista Kei Itoh. Una donna che, nell’emblematica iniquità di una società nipponica in cui ancora oggi sposarsi vuole dire prendere il cognome del marito rinunciando per sempre a quello da nubile, ha saputo emergere fino ad arrivare al successo e alla vetta, vincendo quella sistemica repressione sessista per cui le brillanti protagoniste ancora correggono bozze mentre i più mediocri fra i loro compagni di studi diventeranno editori senza aver quasi mai letto un libro…

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…Le donne di Hamaguchi non hanno vita facile – il regista tratteggia in maniera decisa la situazione femminile in un Paese in cui le pari opportunità sono un traguardo ancora lontano, nel quale spesso alle donne, proprio come nel film, è preclusa la possibilità di aspirare a posizioni lavorative di livello pari a quello dei colleghi maschi -, ma si adattano con coraggio alla discontinuità e alla realtà sempre più relativa. Tra dialoghi rohmeriani e rovesciamenti improvvisi, lo spettatore non può non essere catturato dai colpi di scena, ma anche da uno stile minimale - che rimanda ai grandi maestri del cinema classico, a Ozu, a Naruse -, finendo per cedere al fascino di quel «qualcosa di meno rassicurante» che si insinua nelle pieghe del film, così come della vita. La ricerca dell’equilibrio, nel gioco delle rappresentazioni e dei sentimenti che mutano e si trasformano, lascia il lieve frastornamento da galleria degli specchi, ma è senz’altro coinvolgente. 

Così come risulta intrigante il sesso raccontato, che esordisce lieve nei dialoghi del primo episodio per poi erompere, con intensità e ironia, nel secondo. Il lungo insistito segmento di lettura erotica della ragazza che tenta di sedurre il bizzarro docente, nella stanza con la porta sempre aperta (dal titolo dell’episodio), è una perfetta composizione di elementi, a partire dalla suadente voce della donna, alle espressioni sorprese dell’uomo, al movimento di chiusura della porta (lei) e di riapertura (lui), all’interazione con il corridoio al di fuori del piccolo studio, nel quale transitano altre persone e in cui a tratti si sposta la macchina da presa, con un’alternanza esterno/interno quanto mai evocativa.

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