sabato 31 ottobre 2015

Birth - Io sono Sean - Jonathan Glazer

film apparentemente folle, un ragazzino di 10 anni che afferma di essere il marito defunto di Anna (Nicole Kidman).
alcuni indizi la fanno vacillare, e quel ragazzino diventa una presenza fastidiosa per tutti, meno che per lei.
le cose non sono come credi siano, tutti pensano a un imbroglio, a qualche trucco, nessuno capisce perché, Anna pena di intuire qualcosa, sapere e capire è troppo.
non trascuratelo, se vi capita a portata di mano, non è perfetto, anzi, ma ha un suo fascino - Ismaele




"Birth" is a dark, brooding film, with lots of kettledrums and ominous violins in Alexandre Desplat's score. Harris Savides' cinematography avoids surprises and gimmicks and uses the same kind of level gaze that Sean employs. Echoes of "Rosemary's Baby" are inevitable, given the similarity of the apartment locations and Kidman's haircut, so similar to Mia Farrow's. But "Birth" is less sensational and more ominous, and also more intriguing because instead of going for quick thrills, it explores what might really happen if a 10-year-old turned up and said what Sean says. Because it is about adults who act like adults, who are skeptical and wary, it's all the creepier, especially since Cameron Bright is so effective as the uninflected and non-cute Sean. Like M. Night Shyamalan's best work, "Birth" works less with action than with implication.

Assolutamente stupefacente per la prima ora, sciaguratamente didascalico negli ultimi quaranta minuti. Jonathan Glazer indovina la distanza dalla materia rappresentata girando con uno stile di scarnificata, disossata eleganza. Sospesi piani sequenza, impietrite figure intere, ostinati e sgretolanti primi piani scandiscono una vicenda in cui la tensione è una creazione puramente mentale. Ovvio che agli spettatori in cerca di "altri" sensazionalismi tutto ciò sembrerà fastidiosamente - e soprattutto inspiegabilmente - inconcludente. I minuti scivolano con angosciosa improduttività sulla levigata e compressa inquietudine della famiglia iperborghese di Anna (Kidman, prodigiosa), prima scalfita e poi disintegrata dall'ossessionante tenacia di Sean (un credibilissimo Cameron Bright). Fin qui una pellicola dislocante, trattenuta, raffinatissima…

parlare di tensione morale per paccottiglia come questa mi pare esagerato...l'idea di base è ridicola(penso che se uno viene a dirti che è la reincarnazione di un tuo caro morto non viene accolto come viene accolto nel film ma gli vengono sparate subito due bombe in faccia),l'unico che si comporta normalmente è il fidanzato di lei(si parteggia per lui quando insegue il sedicente reincarnato per picchiarlo per poi quasi vomitare quando lo sculaccia)e il sottofondo torbido che si vuole inserire(la storia adulterina di sean)accentua solo la sensazione d'amaro in bocca.....l'uso insistito di primi piani secondo me serve per mascherare la pochezza di fondo...

Dopo la festa di fidanzamento di Anna, arriva nella sua casa un ragazzino che sostiene di essere Sean, il marito morto dieci anni prima. Nonostante il rifiuto di tutta la famiglia, la donna inizia a credere nel bambino, convinta dai ricordi del nuovo Sean e dalla speranza di ricreare l'antico rapporto, mai dimenticato.
Nonostante la confezione raffinata di Glazer e l'interesse che il film suscita nella prima mezzora, Birth delude per la sceneggiatura superficiale e prevedibile, e, spiace dirlo, per la stucchevole espressività di Nicole Kidman che, dalla Macchia Umana in poi, sembra aver perso l'intuito nella scelta dei copioni.

…I film con un forte concetto metafisico sono sempre molto rischiosi, poiché la possibilità di confezionare una sorta di incudine, seppur ben decorato, che grava sullo spettatore è molto forte. Purtroppo, soprattutto per noi, Glazer si è dimostrato un fabbro sopraffino e non certo nel legarci alla poltrona con le sue catene narrative, quanto nel creare degli insostenibili ceppi narrativi che hanno reso questa pellicola, afflitta anche da una fotografia con sottoesposizione cronica irreversibile, un vero martirio

Birth (scritto dal regista con Jean Claude Carrière – già co-sceneggiatore di Buñuel – e Milo Addica) è un film imperfetto, con una conclusione non del tutto convincente, ma con una sfoggio di grandi interpreti e visivamente caratterizzato da preziose atmosfere, elementi più che sufficienti a renderlo un’opera non liquidabile con un semplice fischio.

venerdì 30 ottobre 2015

Viva la sposa - Ascanio Celestini

distribuzione straordinaria, questa settimana addirittura 4 (quattro) sale, qualcuno dirà che è sempre meglio che due sale (spero per non piangere).
i film di Ascanio Celestini, come il suo teatro, sono storie di piccoli lillipuziani contro giganti, a volte indefinibili, come il Potere, la Storia, il Caso, la (S)Fortuna.
i lillipuziani cercano di vivere, o anche solo di sopravvivere, faticosamente, sbagliando, a volte, resistendo.
Zygmunt Bauman li chiamerebbe scarti umani, i dimenticati o trascurati dalla Storia.
non è un film perfetto, ma è un film aspro, spigoloso, vivo.
prodotto (anche) dai fratelli Dardenne, una garanzia, no?
guardatelo, se ve lo fanno guardare - Ismaele






…L’obiettivo primario di Celestini è analizzare l’incoerenza e le paure dell’animo umano, costituite nel film dai numerosi tentativi dei protagonisti di cercare il prossimo, ma al contempo di respingerlo, ossessionati da un timore tanto invisibile quanto potente. Tale concetto è incarnato alla perfezione da Nicola, il quale afferma più volte di voler smettere di bere, ma anche da Sofia, che sogna di trasferirsi in Spagna oppure da il Concellino, che aspira a costruirsi una vita normale e una carriera lavorativa.
In Viva la sposa l’essere umano è contraddistinto dal “voglio, ma non posso”, colto così nella sua totale contraddittorietà, in una marea di buoni propositi che alla fine non riuscirà a mantenere.
Ciascuno dei personaggi vaga alla ricerca di un posto dove stare al sicuro, di un’ancora di salvataggio a cui aggrapparsi per non annaspare nelle sabbie mobili che secerne la vita quotidiana, sia che si tratti di un quartiere degradato sia di uno squallido e sudicio bar di periferia.
Viva la sposa dunque vi accompagnerà dolcemente mano nella mano nella poliedricità emotiva della società italiana. Se volete compiere questo viaggio non esitate a farlo.

…A fare da bussola e da chiave di lettura è la battuta pronunciata da Nicola/Ascanio in apertura e che ribalta il finale del Pinocchio collodiano. L’essere umano è buffo, meglio il burattino. Perché l’essere umano celestiniano è fragile e contraddittorio. Cerca il prossimo ma al contempo lo teme. Fa propositi che poi non mantiene e cerca di sopravvivere ai margini del luogo dove la finzione si fa arte (Cinecittà). Anche vivendo al limite della legalità o addirittura superandolo cercando una bellezza che è negata sia dagli esterni che dagli interni, siano essi un’abitazione/ricovero degradata o un bar di periferia ultimo approdo di chi vorrebbe raggiungere un porto sicuro. Magari con in mano una bottiglia di vino con un fiocco rosso.

Tutto da buttare quindi? Non proprio. Piace, ad esempio, la scelta di Celestini di prediligere geografie urbane inusuali, inquadrando con affettuosi movimenti di macchina quell’affascinante mix di degrado periferico e arte di strada che è oggi il Quadraro. Ma è un po’ poco per salvare il film dalla bocciatura. Stupisce semmai, alla luce della risibilità del risultato finale, l’intervento in fase di produzione di un nome altisonante come quello dei fratelli Dardenne. Stupisce invece molto meno che Viva la sposa approdi a Venezia in una delle sezioni collaterali (Giornate degli Autori) anziché essere presentato in Concorso, a differenza di quanto accaduto cinque anni fa al ben più riuscito La pecora nera.

…Siamo sempre nel mondo dei Centri Sociali romani, dei quartieri post-pasoliniani, dei baretti, delle cene da mamma la domenica, delle mignotte e dei pappa, della tristezza di non saper uscire per sempre dal proprio mondo, ma almeno Ascanio Celestini racconta un mondo che conosce alla perfezione con amore e dolore senza inventarsi un altro mestiere o altre storie lontane da lui.
Credo che il bollino produttivo dei Dardenne abbia dato al film un maggior vigore realistico e gli abbia tolto quel po’ di teatralità da Centro Sociale che in un film non funziona benissimo. Probabilmente gli ha anche dato un suono perfetto che la gran parte dei film italiani non hanno. Il resto lo hanno fatto gli attori e questo quartiere meraviglioso che sullo schermo sembra qualcosa di completamente nuovo

lunedì 26 ottobre 2015

Da evitare assolutamente (a proposito di uno spettacolo teatrale)

La imaginación del futuro - La Re-sentida

Quando in una bilancia con due piatti si toglie peso a un piatto, l’altro sale.
Se nel confronto Allende – Pinochet si descrive Allende come un idiota, se si dice che è sua la colpa del golpe e del terrore e della dittatura terribile dei militari, per non aver ceduto ai militari e agli Stati Uniti, e che la rivoluzione è un sogno borghese, è chiaro che si stanno tessendo le lodi di Pinochet e dei suoi.
Chissà se fra i finanziatori di questa opera di revisionismo ci sono gli eredi di Pinochet, che hanno depredato il Cile (qui), o magari i familiari e amici di Allende, esiliati e uccisi, come il ministro Orlando Letelier, ammazzato a Washington nel 1966, a 44 anni (qui).
Se c’è un caso in cui si deve essere manichei è questo, senza se e senza ma.
Quello che fanno questi giovanotti, in italiano si chiama revisionismo, che poi siano sfacciati e dissacranti (quiperché dicono che papa Francesco è un pedofilo, che Thatcher si allargava l’ano, perché l’attrice si toglie il reggiseno e vuol fare un pompino, a me non ha fatto ridere e non farà ridere.
C’è chi parla bene di questo spettacolo (vedi qui qui o qui), bontà loro.
Io sto con Les Inrockuptibles, che dicono che questo spettacolo è da evitare assolutamente (“A éviter de toute urgence”, qui).

In giro per il mondo molti dicono che questo spettacolo è una vergogna(qui e qui, per esempio, con parole chiare e inequivocabili, senza compromessi).
Anche l’Associació Allende a Tarragona (leggi qui) denuncia lo schifo dello spettacolo.

Siccome siamo d’accordo con Che Guevara (la cui immagine gli attori strappano tanto allegramente durante lo spettacolo, è finzione, lo sappiamo tutti) che diceva "O siamo capaci di sconfiggere le opinioni contrarie con la discussione, o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le opinioni con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell'intelligenza", lasciamoli pure esprimere i giovanotti: noi sappiamo che questo spettacolo “es una mierda”, una merda schifosa, venata di un fascismo soft, tanto è finzione.
Leggo che le scuole portano gli alunni e vai di standing ovation, è uno spettacolo cool, un giorno di vacanza, tanto con la storia arrivano alla prima guerra mondiale e il Cile è così lontano.
Mala tempora currunt.

Dice John Berger (sembrano parole scritte per quest’occasione):
La memoria implica un atto di redenzione. Ciò che è ricordato è salvato dall’annullamento. Ciò che è dimenticato è stato rinnegato. Se tutti gli eventi sono visti istantaneamente da un occhio soprannaturale, al di fuori del tempo, la distinzione fra ricordare e dimenticare si trasforma in un giudizio, in un atto di giustizia, grazie al quale il riconoscimento equivale a essere ricordato e la condanna a essere dimenticato.

Per chi pensa che Salvador Allende non sia stato un deficiente, ma uno dei grandi del Novecento, ecco un intervista a S.A. di Roberto Rossellini (qui), e due grandi film di Patricio Guzman (qui e qui).

I revisionisti si astengano e si guardino e riguardino La imaginación del futuro, magari al teatrino di CasaPound.

La morte rouge (Soliloquio) - Víctor Erice




…It’s a gorgeous, intriguing short, weaving together memories and history and thoughtful observations about the power of cinema, the collective experience, the childhood terrors and traumas and imaginations.  Told mostly in still photos and eloquent tableaus, black and white except for the bookends, with lovely music by Arvo Pärt.  It makes me wish once again that there was more Erice to discover, only a handful of shorts remain.  Perhaps we may get another feature out of him yet.

La Morte Rouge parte, come El sol del membrillo, dal “qui e ora” della città placida emormorante e da un elemento topico, il mare, intorno a cui ruota l'andare/venire dei concetti (anzi, per dirla ancora con Deleuze, dei pensieri-immagine) – costruzioni cubiche sul litorale di San Sebastian dove un tempo sorgeva il Gran Kursaal, imponente casinò della belle epoque, in seguito ridotto a sala cinematografica – per poi regredire, protendersi sul sé virtuale, su quella stessa infanzia mormorata dal mare. 
Roy William Neill «inventò un luogo, La Morte Rouge, che apparteneva a un paese che sulle mappe non compare, chiamato cinema». È il paese (in)cantato al centro del primo film dell’infanzia di Victor Erice, The Scarlett Claw (L’Artiglio scarlatto, 1944), scenario inesistente, sebbene collocato da Neill nel Quebec, fatto della stessa fibra germinante, eroticamente tattile, del Frankenstein di Whale e dello Spirito dell’alveare, nonché di quelFlor en la sombra inventato da Erice nel Sur: un paese-cinema che è realtà intensiva e fonde attualità e finzione in una complessiva storia naturale (ancora Deleuze).

La Morte Rouge affonda progressivamente nella fitta trama, nel saturo intervallo di ombre sul muro, anamorfosi proprie della potenzialità dell’immagine-infanzia, sovrimpressione specifica, in(di)visibile del vasto visibile: artigli, sagome del postino Potts e di treni semoventi,la sombra stanziale come esausta alla luce di cera, o profilo di fronde fuori dalla finestra che inquietavano Ana e Isabel e poi il sogno di Lopez; relique, orologi, accordati al suono del pianoforte (come l'orologio da tasca del padre, nello Spirito dell'alveare, che misurava il tempo, emanando la sua musica stereotipata), prima del riaffiorare del mare.

«Si può dire che solo il mare rimane, il resto è diverso o si è cancellato con il tempo, come le orme di passi sulla sabbia». Lo spirito delle cose consiste nell'energia intrinseca alle cose stesse che le forma e le dissolve, impulso (costante) alla granulosa, perpetua presentificazione. Come lo spirito dell’alveare e quello del membrillo, solo il tramestio del mare, la sua tattile liquidità, resiste a ciò che il tempo cancella e rinnova, immagini-mondo legate inscindibimente alla fermentazione (delle melecotogne), al dissiparsi di ciò che si fa presente, agli esseri disperatamente protesi sulla propria (s)comparsa.

domenica 25 ottobre 2015

Suburra – Stefano Sollima

premesso che non si è mai visto un parlamentare della Repubblica Italiana andare con una prostituta in un albergo e che poi, addirittura, la giovane stia male per storie di droga (vedi qui), e che è una bestemmia dire che la Santa Madre Chiesa possa essere implicata in speculazioni immobiliari (qui o qui), lasciando da parte la follia di un papa che si dimette o che organizzazioni criminali possano controllare o ricattare esponenti politici, o interi partiti politici, ecco, fatta la tara di tutte queste ipotesi strampalate, Suburra è un ottimo film.
si legge qua e là che ci sono imprecisioni, esagerazioni, forzature, ma questo è solo un film da due ore, mica un saggio storico-antropologico-politico.
qualcuno potrà temere che sia un affresco di un mondo ormai consegnato alla storia, si rassicuri, è in ottima salute, passato presente e futuro vanno a braccetto.
tutti gli attori sono eccezionali, bravo Stefano Sollima che li dirige.
la fine, Viola che si allontana dopo aver fatto il suo dovere, un po’ Nikita, sotto una pioggia senza fine, è bellissima.
non perdetevelo, se vi piace il cinema - Ismaele





…Non so se Suburra sarà una nuova pietra di paragone per il cinema di genere italiano: solo il tempo ce lo dirà .
Ma noir di questo stampo ne abbiamo veramente ben pochi nella storia del nostro cinema.
Chapeau!

Cinema con la C che più maiuscola non si può.
E io che delle colonne sonore non parlo mai non posso tacere stavolta perchè siamo su livelli vertiginosi.
Molti, già lo vedo, storceranno la bocca su questa sceneggiatura a episodi e incastri che invece, secondo me, in due ore lega tutto che meglio non si può…

Suburra è girato da Sergio Sollima con una maestria e una consapevolezza stilistica altissime, con un’impronta profondamente nostra, frutto della storia del nostro cinema, e insieme allineato ai più avanzati e sofisticati linguaggi dell’action e del noir made in Usa. Peccato che tanta meravigliosa abilità di messinscena sia al servizio di un racconto di insopportabili schematismo e rozzezza, nonostante che per la sceneggiatura si siano messi all’opera nomi di fama e mestiere consolidati, lo storico duo di tanto nostro cinema (e tv) Stefano Rulli-Sandro Petraglia, più Carlo Bonini (da un suo libro inchiesta era tratto il precedente film di Sollima ACAB ) e Giancarlo De Cataldo, sì, l’autore di Romanzo criminale, il libro-matrice da cui tutto poi si è generato, il film di Michele Placido e la successiva Sky-serie. Più che un plot, un racconto didascalico e a tesi da vecchio cinema militante e di impegno civile, intriso di un sotto-brechtismo un po’ Mahagonny un po’ Arturo Ui con parecchi villain al lavoro, teso a dimostrare che oggi Roma Capitale è proprietà privata di una cosca dove poteri criminali, politici ed ecclesiastici si intrecciano
…Talmente bello e potente,Suburra, nella sua messinscena, nelle sue accensioni visionarie, da farci dimenticare le troppe semplificazioni del plot, e anche farci venire un qualche sospetto di manierismo. Questo, che verrà celebrato da molta critica come film assai contenutistico di denuncia, è invece pura forma, il più stilisticamente consapevole e radicale che il cinema italiano ci abbia dato di recente, altro che Sorrentino. Se i caratteri non sono tutti così riusciti (il migliore è il Samurai di un formidabile Claudio Amendola che lavora tutto in sottrazione inventandosi un boss che ti fa paura solo a guardarlo, i meno risolti sono il politico di Favino e il piccolo faccendiere di Elio Germano), gli ambienti in cui i personaggi sono collocati e si muovono tolgono il fiato, per come sanno restituire e suggerire un mondo, uno stare al mondo, un’antropologia…
…Al netto del suo ideologismo, Suburra è magnifico, lurido e buio, un’oscurità che è anche dell’anima e che ricorda nei momenti più alti L’infernale Quinlan di Orson Welles. Però l’ideologismo c’è, si fa sentire eccome limitando la grandezza del film, e non bastano a cancellarlo un profondo senso del cinema e una visione potente. Certo ci si aspettava con Suburra la rifondazione del nostro cinema popolare e di genere, un nuovo inizio, l’invenzione di un nuovo paradigma filmico per la nostra industria dell’entertainment, temo che l’obiettivo sia stato solo parzialmente raggiunto.

Mentre Caligari ripercorreva le borgate di pasoliniana memoria con una naturalezza che ricordava il primo Scorsese, Sollima guarda a modelli più giovani e spregiudicati: ci sono gli ammiccamenti e la fascinazione per il racconto circolare tipici del cinema di Paul Thomas Anderson; e c'è anche la ricerca di un'estetica della violenza, stilizzata quanto più possibile, sulla scia di alcuni modelli contemporanei (pensiamo soprattutto al cinema di Nicolas W. Refn). E poi c'è Roma, sotto un diluvio continuo, prossima a una probabile alluvione (che avvenne sul serio proprio in quell'autunno 2011). Se il libro di Bonini e De Cataldo era stato profetico, prima che esplodesse l'inchiesta di Mafia Capitale, il film arriva dopo i fatti di cronaca e li cavalca: la città diventa una protagonista inseparabile dal destino dei protagonisti e Sollima calca un po' la mano su questo elemento "fortunosamente" venuto ad arricchire il già abbondante materiale su cui era impegnato. Ma le (poche) cadute di stile sono tutte perdonate in questo affresco ultramoderno e iperattivo di un'umanità disperata e totalmente dominata dagli istinti: politici corrotti, mezzi uomini vigliacchi e umiliati, donne fatali tossiche e facili da comprare, gangster saggi e compassati e giovani criminali sanguigni e pronti a usare il coltello per dirimere qualsiasi controversia. Per chi ama il cinema di genere, per chi ama il cinema, vedere "Suburra" è come salire su una giostra lanciata a velocità smodata, con tanto di tappeto musicale avvolgente (affidato alle sonorità degli M83).

Non basterebbe una recensione, poi, per parlare degli interpreti, per applaudirne la bravura, dato che tutti sono davvero in grande forma. Per non fare torto a nessuno dei divi già citati, ce la caviamo con una parola finale per Alessandro Borghi e il suo Numero 8, il boss di Ostia romantico e spietato: siamo di fronte a un ex caratterista, pronto a diventare una stella di prima grandezza. Nei suoi occhi rivediamo qualcosa che ci ricorda Gian Maria Volonté.

venerdì 23 ottobre 2015

The lobster – Yorgos Lanthimos

il film è girato in Irlanda, Colin Farrell è bravissimo, gli altri attori anche,  la fotografia pure, Yorgos Lanthimos è bravo, il cane fa la sua figura, e però...
a me è sembrato un copia-incolla di tanto cinema già visto, la caccia in bei film di fantascienza, un po' I figli degli uomini, di Alfonso Cuarón, un po' Non lasciarmi, una scrittura un po' ripetitiva, a tratti annoia anche.
poi forse è un capolavoro e non me ne sono accorto, ma era travestito bene da film profondo, denso, un film di lonely hearts, ma non mi ha preso molto, preferisco questi (qui), di cuori solitari.
il tempo, che è signore, ci dirà se è un capolavoro, o un film sopravvalutato, ho una mia idea (si capisce?).
citando il mio critico cinematografico preferito, il film arranca.
molto stile (anche troppo?), troppo pesante, senza leggerezza.
buona visione, se lo danno in un cinema vicino a casa vostra, poi mi direte - Ismaele





in fondo poco importa la differenza tra la coppia e la singletudine, l’amore e il non amore, la verità e la menzogna o, e questo pare essere ad un certo punto l’obiettivo del film, se sia più facile fingere di avere sentimenti o fingere di non averne. Gli interrogativi sono ponderosi e gli ingredienti ammiccanti, ma la seduzione non va mai in porto e lo humour non può da solo fare da collante. Viene da pensare allora che, sebbene possa sembrare alla perenne ricerca di un confine su cui muoversi o dal quale innescare dialettiche e ragionamenti, in realtà Lanthimos prediliga il gioco del silenzio, la stasi, bella da contemplare, ma in fin dei conti sterile, inane, proprio come una dissertazione sulle mezze stagioni.

Maitrisant totalement son approche esthétique, Yorgos Lanthimos confirme son acuité à un cadrage parfait au coeur duquel l’absurde s’impose comme une réalité tangible. Outre l’emploi d’un renfort musical dosé avec soin et d’une voix-over qui révèle l’intelligence du scénario, il se risque avec succès à quelques effets de ralenti qui transcendent l’émotion des scènes. Grand imagier, il magnifie son casting qui ne cesse de nous surprendre transformant physiquement Colin Farrell, offrant à Léa Seydoux une perversion sensationnelle et sublimant une nouvelle fois le talent d’Ariane Labed et d’Angeliki Papoulia.

…Nel cinema di Lanthimos si annida incontrovertibilmente un eccesso di programmaticità che può, a tratti, infastidire. Tuttavia il suo essere urticante al limite del nichilismo rappresenta una merce rarissima, di questi tempi in cui regna l’omologazione più assoluta. Ed è proprio questo assunto, in fondo, che The Lobster combatte con le affilate armi dell’ironia e del gusto per l’iperbole. Teniamocelo stretto.

martedì 20 ottobre 2015

Beati i perseguitati a causa della giustizia perché di essi è il Regno dei Cieli – Gigio Brunello



Capita, a volte, di vedere uno spettacolo che non ti lascia più. L'ultima volta mi è capitato qualche giorno fa, un opera d’arte di burattini, scritta da Gigio Brunello, e questa volta in baracca c’era Alberto De Bastiani, che ha sostituito Gigio Brunello, infortunato.
Due pazzi, Gesù e Pinocchio sono in due celle adiacenti, e si parlano.
Entrambi sono creduloni, uno crede di essere figlio di Dio, l’altro crede alle fate, entrambi sono in galera per storie di soldi, entrambi non vedono l’ora di uscire, intanto diventano amici, si danno appuntamento in un’osteria sul lago Tiberiade, dove si mangia benissimo.
Forse non si rivedranno più, ma le parole che si scambiano in cella, quegli sguardi (i burattini hanno sguardi), non possono non arrivare alla testa e al cuore, a chi non succede occorre una visita specialistica seria, se è ancora vivo.
Questo spettacolo capiterà vicino a casa vostra, forse, un giorno, non fatevelo sfuggire per nulla al mondo (E speriamo esista il dvd).
Di sicuro chi l’ha scritto è un pazzo, racconta la storia di due pazzi, è recitato da un pazzo, viene organizzato da una compagnia di pazzi all'interno di un festival desolatamente deserto (il perché del vuoto è un altro discorso, riguarda lo spirito del tempo).
Gesù diceva di non dare le perle ai porci, quei pazzi lì, burattini, artisti e organizzatori, non lo ascoltano.
Dice Carlo Dossi: “I pazzi aprono le vie che poi percorrono i savi” - Ismaele




Baracca e burattini si prestano, con coraggiosa irriverenza, a diventare lo scenario inedito di un colloquio tra il burattino più famoso del mondo e il Figlio dell'Uomo, intorno a una delle più toccanti beatitudini del Vangelo, quella che rende omaggio ai perseguitati a causa della giustizia. Gesù è Pinocchio ci sorprendono per quante cose hanno da dirsi, non si fermerebbero più, parlano, parlano, dietro le sbarre, attraverso i muri.
da qui


ecco Gesù e Pinocchio prima di andare in prigione:



sabato 17 ottobre 2015

The martian (Il sopravvissuto) – Ridley Scott

sceneggiatura del bravissimo Drew Goddard (già regista di un film grandissimo, qui), il film è girato in Giordania.
cose folli, come i teloni di plastica, non inficiano la bellezza del film, il botanico Mark Watney è un Robinson senza Venerdì.
poi è un'americanata, ben fatta, attori bravissimi, gli statiunitensi sono un popolo unito, multietnico, loro colonizzano, come negli western, e meno male che non c'è nessun marziano da sterminare.
e tutto è bene quel che finisce bene, solidarietà, ottimismo e forza di volontà vincono su tutto.
poi ti chiedi quanti sforzi si fanno per salvare un uomo, e come è facile dannarne milioni, e distruggere il mondo.
fatta la tara di questi aspetti ideologici, il film è pieno di trovate, momenti in cui si ride, e il potente di turno (qui la Nasa) viene ridicolizzato da qualcuno che non conta niente, ma poi fa andare avanti il mondo, la burocrazia ha rituali e tempi che non risolvono niente, ma coprono con un tappeto di parole e non verità, quindi menzogne, la realtà.
e poi appare qualcuno che usa la fantasia e risolve i problemi, come il bambino, mutatis mutandis, che scopre che l'imperatore è nudo.
il mondo cambia, i russi non vengono nominati, i cinesi sono i nemici/amici, avversari/alleati dello spazio, e Matt Demon costa sempre un sacco di soldi al contribuente statunitense (meno male per loro che se li stampano da soli, i dollari).
si perde nel deserto, si perde in guerra, si perde nello spazio, e non è la prima volta, non perdetelo di vista - Ismaele






The Martian è una figata senza sosta. Onore a Scott, al suo team di effetti speciali e al talentoso direttore della fotografia Dariusz Wolski, che hanno girato in Giordania per simulare il Pianeta Rosso. Bella anche l’idea di costringere l’annoiato Watney ad affidarsi solo a una compilation di disco music lasciata dal suo comandante. Alcune cose sono davvero indimenticabili. Dopo quasi due anni in solitudine (pensate a Castaway o al più recente Gravity) con qualche imprecazione per sfogare la propria frustrazione, Watney rischia di perdere le speranze. Fortunatamente Damon, un buon attore dal magnetismo che trovate solo nelle vere star, vi terrà incollato al film. Sarete sempre al suo fianco.

…la lunghezza (2 ore e 21 minuti) e le lungaggini, la stessa scelta - teoricamente suicida - di dar luogo a una interminabile “prova d’attore” del legnosissimo Matt Damon, sono altrettanti perfetti correlativi – stilistici e oggettivi – del tema centrale della pellicola, ovverosia la totale flessibilizzazione della forza lavoro, con particolare attenzione alla realtà del lavoro straordinario.
Non solo questo problema è espressamente sottolineato (“Ci costerà una fortuna in straordinari!” esclamano alla NASA, non appena si accorgono di aver dimenticato Matt Damon su Marte); non solo l’unico personaggio davvero “geniale” del film, il nerd interpretato da Donald Glover, è costantemente a pezzi per l’assoluta mancanza di riposo (nella prima scena in cui appare non fa altro che cascare a terra per il sonno, e più avanti lo si vede letteralmente “attaccato” al computer d’ordinanza); ma addirittura gli altri 5 astronauti – e i loro cari sulla Terra! – non battono ciglio di fronte alla prospettiva di restare nello spazio per mesi e mesi più del dovuto, pur di assecondare il piano propagandistico e rischiosissimo portato avanti da Sean Bean (che in quanto neolib “prestato” al governo alla fine non ha  problemi a dimettersi dalla NASA, di contro al direttore che è un burocrate “puro”, con il volto prudente e perdente di Jeff Daniels); e la stessa modalità con cui Bean istiga l’ammutinamento della ciurma dell’Ares 3, ovvero un messaggio segreto inviato hackerando la casella di posta elettronica della moglie di uno degli astronauti, segnala l’abbattimento del confine tra ambito e orario lavorativo e dimensione privata.
Ed è proprio in base allo slogan “Lavorare di Più/Ma Non Lavorare Tutti” (vedi le folle di sfaccendati che seguono passo passo le vicende dell’ Ares 3 dai maxischermi di New York, Londra e Pechino) che va inquadrato lo stesso tema della colonizzazione dello spazio, per come lo affronta The Martian. Non si tratta tanto di arare un suolo vergine e da fertilizzare, in cerca di un’alternativa alla Terra oramai invivibile: “Su questo pianeta non cresce un cazzo” chiarisce subito il botanico Damon a proposito di Marte. Qui si tratta piuttosto di accumulare nuovi rapporti di classe; la precondizione per ritrovare la profittabilità perduta è una rinnovata espropriazione dei lavoratori, ovvero l’azzeramento dei diritti acquisiti per rendere flessibile la prestazione d’opera: espropriazione che, con un “effetto fionda” (altro correlativo messo in bocca a Donald Glover, ma che - rispetto a quello immaginato dall’astrofisico del film - funziona in senso di marcia inverso: da Marte verso la Terra) parte dall’assoluta disponibilità lavorativa dei coloni (Matt Damon, stakanovista del capitalismo suo malgrado, all’inizio del film si trova di fronte alla prospettiva di dover prolungare di quattro anni la missione rispetto al contratto di ingaggio) e arriva fino alla NASA, mobilitandone 24x7 il personale caffeina-dipendente…

la riuscitissima esplorazione delle energie che innervano la personalità del carattere cui (è proprio il caso di dirlo) Matt Damon presta non solo il suo versatile talento, bensì la carne stessa in tutta la sua cruda fisicità. Si tratta di un uomo dalla spiccata propensione a non soggiacere ad alcuna avversità gli si presenti.
Le sue armi migliori sono i nervi saldi, la laurea in botanica, la capacità di ironizzare caparbiamente sullo sventuratissimo reale che lo circonda e lo penetra nel profondo, il desiderio irriducibile di tornare a casa a riabbracciare l’umanità.
E tutto questo emerge con tangibile consistenza grazie alla maiuscola performance dell’attore Premio Oscar, alla sceneggiatura intelligente e stimolante, senz’alcuna ricaduta in eccessivi tecnicismi o stucchevolezze, alla regia che fonde sapientemente momenti di puro terrore, divertimento, arcano spettacolo, senza mai tradire la centralità tutta umana della vicenda, senza concedere vesti pacchianamente eroiche ad alcun personaggio…

Divertente, meno pachidermico del romanzo da cui è tratto e bello dall’inizio alla fine nonostante i 140 minuti di durata, Sopravvissuto – The Martian è tra le cose migliori fatte da Ridley Scott negli ultimi 15 anni e il merito va anche allo script di Andrew Goddard, abile nel dribblare derive rischiose (patriottismo, pipponi scientifici) e nel consegnarci un nuovo Robinson Crusoe con un mix di leggerezza, avventura, dramma e thrilling impensabile dopo lo script imbarazzante di World War Z. E alla fine, anche se non ci sono i piani sequenza di Gravity e i totem filosofici e cosmici di Interstellar sono lontani anni luce, anche questa fantascienza ha una sua profonda (e godibilissima) dignità…

la tecnologia viene infatti messa da parte per un più coriaceo umanesimo, mentre a salvare la situazione, come nei classici del genere (uno su tutti: Jurassic Park), è l’outsider, giovane, apparentemente sprovveduto e intento a fare calcoli notturni con i polpastrelli ancora intrisi di cheese burger o altro junk food di ordinanza. Se però il deus ex machina appare piuttosto accessorio e tutto sommato sostituibile con qualsiasi altra figura attanziale a disposizione della fantasia dello sceneggiatore, è proprio il discorso sul corpo, sull’uomo e la sua coltura delle patate a rivelarsi qui particolarmente interessante. Non solo per risolvere la faccenda è dunque necessaria una progressiva spoliazione tecnologica della navicella, che deve perdere reattori, alettoni, strumenti di comando, fino a ridursi, di fatto, nel solo corpo umano lanciato nello spazio, ma l’individuo nel film di Scott è di fatto un superuomo armato di poteri fitologici: la nuova frontiera del pioniere del vecchio west.
Nulla di nuovo, certo. Ma dopo tutto, mettendo da parte le spiegazioni scientifiche che qui non ci competono, in fondo se diamo retta all’etimologia il film di Scott funziona proprio come un ri-generatore di isotopi (iso – topos = stesso posto) preleva elementi preesistenti, li cambia un po’ di valore e li posiziona per bene. Magari non è arte e non salva la vita a nessuno, ma con i calcoli giusti può sempre funzionare.

Ersatz (Surogat) - Dusan Vukotic

lunedì 12 ottobre 2015

La vita è facile ad occhi chiusi (Vivir es fácil con los ojos cerrados) – David Trueba

arriva finalmente al cinema, solo in una ventina di sale, per non disturbare troppo.
è un film del 2013, aveva vinto diversi premi Goya nel 2014, ne avevo letto bene, e siccome pensavo che non l’avrebbero mai portato da noi, l’ho visto qualche mese fa, in spagnolo. avevo scritto che è
“uno di quei film che non sembrano chissà che, ma le apparenze ingannano.
siamo negli anni '60, Antonio (uno straordinario Javier Cámara) è un professore d'inglese, e insegna la lingua con le canzoni dei Beatles, e quando i Beatles arrivano in Spagna a girare delle scene di un film, come fa Antonio a non andare a parlare con John Lennon?
il viaggio in 850 (il modello dell'auto, non il numero dei viaggiatori)  si arricchisce di due ragazzini, in fuga, autostoppisti, Belén e Juanjo.
se avete imparato l'inglese con le canzoni dei Beatles e a casa avevate una 850 questo è un film imprescindibile, altrimenti è solo un gran bel film, cercatelo (meglio in spagnolo, se non lo capite esistono i sottotitoli), non potrà non piacervi” (qui).
sono andato a vederlo al cinema, e confermo parola per parola quello che avevo già scritto, aggiungo che la musica è di Pat Metheny e Charlie Haden.
è uno di qui film che ti fanno uscire dal cinema col sorriso, ogni tanto non fa male, no?
cercatelo e godetene tutti - Ismaele



Arrivando sulla linea di confine, nel bel mezzo del deserto, il rocambolesco faccia a faccia tra il protagonista e le guardie a difesa del set ci catapulta nella simpatica parentesi di un western movie improvvisato e latente.  È qui che incontriamo lo sguardo del regista, scacciando la patina opaca all’orizzonte: eroi anonimi che combattono contro mulini immobili, il volto della povertà e dell’ignoranza, il desiderio di invertire la rotta percorrendo dapprima brevi tracciati; raggiungere il cambiamento partendo dal basso. Dalla desolante bellezza del sud andaluso. Un liberatorio “Help” riecheggia sulla via del ritorno riempendo il vuoto lasciato dal frettoloso addio dei personaggi che da soli hanno trasportato il peso della libertà dei padri e dei loro figli.

A interpretare l'insegnante d'inglese fan dei Beatles, oggi ottantenne, è il solito impeccabile Javier Cámara, volto pefetto per un film in equilibrio tra la favola e la rievocazione storica, tra la reazione orgogliosa e una ottimistica e ingenua fiducia nel prossimo. Solo alcune delle anime di questo anomalo Road Movie, di un viaggio che porta su strade poco battute. Tra i campi di fragole di Almeria per esempio, provincia andalusa famosa per essersi prestata come set di tanti film, anche western, anche italiani.

Qui si svolge l'apice della vicenda, ed emerge la carica didattica della storia, ma è durante il lungo viaggio del protagonista, e dei suoi due improvvisati compagni, che si costruisce il rapporto tra loro, e con noi. E che prende corpo la capacità del film di attrarre il pubblico. Cámara domina la scena dall'inizio alla fine, ma le figure che Trueba gli mette accanto, arricchendo la storia vera originale, diventano l'occasione per parlare di una parte poco felice della storia nazionale…

Certi film fanno dei giri incredibili per tornare al punto di partenza. La vita è facile ad occhi chiusi sembra un film italiano degli anni ’90, cinema quasi da Salvatores con un po’ del dolceamaro intellettuale della prima Fandango, invece è spagnolo. Uscito dal nostro paese, scritto e realizzato in Spagna, ci arriva con una cartellonistica che sembra gridare cinema italiano…

…Il film prende la can­zone di Len­non e ce la rigira sotto forma di domanda silen­ziosa: era dav­vero facile vivere a occhi chiusi sotto la dit­ta­tura fran­chi­sta? Era l’unico modo? Oppure, come dice David Trueba «i veri eroi sociali sono sem­pre per­sone comuni capaci di supe­rare aspet­ta­tivi e limiti», come accade al goffo e occhia­luto pro­fes­sore nel finale del film? E se Fran­ci­sco Franco, pic­colo di sta­tura, fosse l’energumeno bru­tale che, vigliacco come un fasci­sta, bul­leg­gia Jua­njo, l’inerme ado­le­scente capellone?
Il film apre con Help e chiude con Stra­w­berry Fields Forever, «le uni­che can­zoni sin­cere che ho scritto», dice Len­non a Wen­ner. Par­lano di soli­tu­dine, di biso­gno di aiuto, dell’essere diverso, o un pazzo o un genio. Il prof è entu­sia­sta, tenero e imbra­nato come un fan ado­le­scente, e quando lo bec­cano con una foto ero­tica nella borsa, si giu­sti­fica con la stessa rispo­sta dell’allievo a cui l’ha seque­strata. Non ha figli né fidan­zata: come Len­non, «non c’è nes­suno sul suo albero». Non è un genio, ma è inte­gro e gene­roso. Forse cre­sce pro­prio dopo aver incon­trato il suo idolo, a cui asso­mi­glia anche per gli occhiali che Len­non ha ini­ziato a por­tare sul set del film di Lester, nella Terra delle Fra­gole…

la colonna sonora di La vita è facile ad occhi chiusi ci sbalordisce, perché è insolita, diversa dai principali generi di musica per film ai quali siamo abituati. La composizione è stata affidata all’incredibile chitarrista jazz Pat Metheny, che ha ricevuto il Premio Goya 2014 per la Miglior colonna sonora (ma La vita è facile ad occhi chiusi se ne è portati a casa altri cinque): un riconoscimento, quindi, della scelta di abbandonare la strada principale per percorrere un sentiero meno battuto. Perché, in effetti, la musica di La vita è facile ad occhi chiusi non ci stupisce solo per la quasi totale assenza dei Beatles, ma per la sua semplicità ed esiguità: il film è accompagnato infatti solamente dalla chitarra acustica di Pat Metheny, che ha composto le musiche originali insieme al famoso contrabbassista jazzCharlie Haden (scomparso nell’estate del 2014)…

domenica 11 ottobre 2015

Libertà per Erri de Luca, l’appello del cinema mondiale

Mathieu Almaric, Jacques Audiard, Agnès Jaoui, Wim Wenders, Francesca Comencini: sono solo alcuni dei personaggi del cinema che chiedono il ritiro della denuncia contro lo scrittore, nel caso Torino-Lione.
Le autorità francesi e italiane hanno progettato di collegare Torino a Lione attraverso le Alpi per accorciare a 45 minuti, il collegamento tra le due città. Il costo è attualmente stimato in 28 miliardi di euro. Il progetto vede lo scavo di un tunnel di 45 km, ma l’opposizione nelle valli di montagna è grande, soprattutto in Val di Susa. Questi scontri hanno ritardato di diversi anni l’inizio dei lavori.
Ma veniamo a noi. Lo scrittore Erri De Luca ha aggiunto la sua voce a quei movimenti. “La linea ad alta velocità va sabotato”, ha detto al telefono a un giornalista italiano dell’Huffington Post. Dopo queste parole la società franco-italiana pubblica, con sede a Chambéry, presieduta da un ufficiale francese di alto livello, ha presentato una denuncia contro di lui alla corte di Torino, per “incitamento a commettere uno o più reati”.
Arriviamo a oggi. Il pubblico ministero ha chiesto il 21 settembre, otto mesi di carcere contro Erri De Luca. Il verdetto sarà consegnato lunedì 19 ottobre. Chi potrebbe pensare dopo l’attacco contro Charlie Hebdo, che in un’Europa in cui i leader hanno manifestato per la libertà di espressione, avremmo sperimentare nuove procedure di controllo della sintassi della nostra bella lingua? Come immaginare che gli scrittori possono essere portati a una parola di polizia? Chiediamo il ritiro della denuncia di società pubblica con sede a Chambéry. Quando si interroga sul destino di Erri De Luca il Presidente della Repubblica, questo alla Fiera del Libro il 21 marzo scorso ha detto che gli autori “non dovrebbero essere perseguiti per i loro testi”.
Ecco le firme

I 65 firmatari: Mathieu Amalric, regista (Francia), Claudio Amendola, attore (Italia), Valerio Aprea, attore (Italia), Ariane Ascaris, attrice (Francia) , Jacques Audiard, regista (Francia), Bertuccelli, regista (Francia) , Bertrand Bonello, regista, scrittore (Francia) , Catherine Breillat , romanziere, regista, scrittore (Francia), Stéphane Brizé, regista (Francia) , Daniel Buren , scultore (Francia) , Dominique Cabrera, direttore (Francia) , Thomas Cailley , regista (Francia) , Caleo Clara Green, direttore del Festival del Cinema Italiano a Londra (Gran Bretagna), Laurent Cantet , regista (Francia) , Malik Chibane, regista (Francia) Francesca Comencini, regista, scrittore (Italia), Catherine Corsini, regista, scrittore, attrice (Francia), Constantin Costa-Gavras, regista (Francia), Isa Danieli, attrice (Italia), Claire Denis, regista (Francia), Dante Desarthe , attore, regista, produttore (Francia), Arnaud Desplechin, regista (Francia), Jérôme Diamant-Berger, regista, produttore (Francia),  Joel Farges, regista, sceneggiatore, produttore (Francia ) Pascale Ferran, direttore (Francia), Alessandro Gassman, attore, scrittore, regista (Italia), Fabrizio Gifuni, attore (Italia), Fabienne Godet, regista, scrittore (Francia), Robert Guédiguian, regista (Francia), Christophe Honoré , regista, scrittore (Francia), Gilles Jacob (Francia), Joel Farges, regista (Francia), Agnès Jaoui, attrice, regista (Francia), Jacques Kébadian, regista (Francia), Jean-Marie Larrieu, regista, scrittore (Francia ), Jean-Louis Leconte, regista, scrittore (Francia), Thomas Lilti, regista, scrittore (Francia), Olivier Lorelle, sceneggiatore (Francia), Valerio Mastrandrea, attore (Italia), Delphine Morel, produttore (Francia), Angelo Orlando , attore (Italia), Charles Najman, regista (Francia) Nicolas Namur, produttore, regista (Francia), Vladimir Perisic, regista (Francia, Serbia), Thierry de Peretti, attore, regista (Francia), Nicolas Philibert, direttore ( Francia), Jérôme Prieur, scrittore, regista (Francia), Domenico Procacci, produttore (Italia), Olga Prud’homme Farges, regista, produttore (Francia), Marco Risi, regista (Italia), Brigitte Roüan, attrice, regista (Francia ), Pierre Salvadori, regista, sceneggiatore, attore (Francia), Marc Sandberg, produttore (Francia), Jean-Pierre Sauné. produttore, regista (Francia) Céline Sciamma, sceneggiatore, regista (Francia), Agnès Soral, attrice, autrice (Francia), Philippe Torreton, attore (Francia), Bernard Tavernier, regista (Francia), Daniele Vicari, regista, sceneggiatore (Italia), Wim Wenders, regista, (Germania), Massimo Wertmuller, attore, regista (Italia) Emmanuelle Zelez, editore, attrice (Francia), Christian Zerbib, regista, sceneggiatore, produttore (Francia), Rebecca Zlotowski, sceneggiatore, regista (Francia).