lunedì 26 ottobre 2015

La morte rouge (Soliloquio) - Víctor Erice




…It’s a gorgeous, intriguing short, weaving together memories and history and thoughtful observations about the power of cinema, the collective experience, the childhood terrors and traumas and imaginations.  Told mostly in still photos and eloquent tableaus, black and white except for the bookends, with lovely music by Arvo Pärt.  It makes me wish once again that there was more Erice to discover, only a handful of shorts remain.  Perhaps we may get another feature out of him yet.

La Morte Rouge parte, come El sol del membrillo, dal “qui e ora” della città placida emormorante e da un elemento topico, il mare, intorno a cui ruota l'andare/venire dei concetti (anzi, per dirla ancora con Deleuze, dei pensieri-immagine) – costruzioni cubiche sul litorale di San Sebastian dove un tempo sorgeva il Gran Kursaal, imponente casinò della belle epoque, in seguito ridotto a sala cinematografica – per poi regredire, protendersi sul sé virtuale, su quella stessa infanzia mormorata dal mare. 
Roy William Neill «inventò un luogo, La Morte Rouge, che apparteneva a un paese che sulle mappe non compare, chiamato cinema». È il paese (in)cantato al centro del primo film dell’infanzia di Victor Erice, The Scarlett Claw (L’Artiglio scarlatto, 1944), scenario inesistente, sebbene collocato da Neill nel Quebec, fatto della stessa fibra germinante, eroticamente tattile, del Frankenstein di Whale e dello Spirito dell’alveare, nonché di quelFlor en la sombra inventato da Erice nel Sur: un paese-cinema che è realtà intensiva e fonde attualità e finzione in una complessiva storia naturale (ancora Deleuze).

La Morte Rouge affonda progressivamente nella fitta trama, nel saturo intervallo di ombre sul muro, anamorfosi proprie della potenzialità dell’immagine-infanzia, sovrimpressione specifica, in(di)visibile del vasto visibile: artigli, sagome del postino Potts e di treni semoventi,la sombra stanziale come esausta alla luce di cera, o profilo di fronde fuori dalla finestra che inquietavano Ana e Isabel e poi il sogno di Lopez; relique, orologi, accordati al suono del pianoforte (come l'orologio da tasca del padre, nello Spirito dell'alveare, che misurava il tempo, emanando la sua musica stereotipata), prima del riaffiorare del mare.

«Si può dire che solo il mare rimane, il resto è diverso o si è cancellato con il tempo, come le orme di passi sulla sabbia». Lo spirito delle cose consiste nell'energia intrinseca alle cose stesse che le forma e le dissolve, impulso (costante) alla granulosa, perpetua presentificazione. Come lo spirito dell’alveare e quello del membrillo, solo il tramestio del mare, la sua tattile liquidità, resiste a ciò che il tempo cancella e rinnova, immagini-mondo legate inscindibimente alla fermentazione (delle melecotogne), al dissiparsi di ciò che si fa presente, agli esseri disperatamente protesi sulla propria (s)comparsa.

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