domenica 29 settembre 2013

Miguel - Salvatore Mereu



un film (del 1999) quasi sconosciuto, e però eccezionale.
figlio diretto di "Scarabea" (qui), per qualche alchimia strana, "Miguel" è un film sfuggito al regista, come "Arcipelaghi", di Giovanni Columbu (qui), il film è più importante di quanto pensasse il regista quando lo girava.
difficile da trovare, ma gli sforzi verranno ripagati - Ismaele

Ps: ho come l'idea che sarebbe piaciuto molto a quella grande testa pensante di Michelangelo Pira (che ci manca, cavolo che ci manca uno così)





…i due elementi portanti del film e che ne garantiscono la riuscita: la capacità dei pastori di mostrarsi fuori dagli stereotipi e il finale in cui gli stessi prendono possesso del mezzo di comunicazione filmica, la cinepresa, e quindi prendono in mano la propria immagine. La favola di Mereu, come ogni favola, non sfugge alla moltiplicazione delle chiavi di lettura. La metafora cannibale per esempio è intimamente legata, concettualmente, alla sostituzione registica. Mereu si è lasciato prendere la mano, fortunatamente, da questi formidabili attori che presentando se stessi sono ri-usciti dalla loro maschera fossile con l’irriverenza tipica dell’autoironia. Il tono grottesco, deformante, serve ad accentuare linee di senso che non appartengono alla banalizzazione del messaggio. Mangiare Miguel non è segno di un rifiuto dell’alterità quanto semmai un prendersi carico direttamente, senza intermediari, della propria immagine e del proprio essere. “Miguel” si impone del resto proprio per la sua natura profondamente cinematografica, anche quando il cinema-cinema sconfina in echi kusturichiani, come allude la colonna sonora, che rinuncia alla riproposizione di un canto a tenore a favore di una musica significativamente nomade…

Vende scarpe per vacche e capre ai pastori della Barbagia promettendo che faranno più latte. Una storia stralunata, nella quale rimbalzano certi echi di Citti, ma anche certe uscite strampalate del primo Herzog. Mereu ci prova con la favola umoristico-grottesca, ma si perde nel naturalismo di facce pasoliniane e in un ritmo slabbrato, fino all’approdo metacinematografico che aggiunge inutile carne al fuoco. Spunti carini qua e là, ma l’impressione è di una vena surreale che non sta proprio nelle corde del suo autore.

sabato 28 settembre 2013

FriendSheep - Jaime Maestro

Salt of this sea (Milh Hadha al-Bahr) - Annemarie Jacir

un film sorprendente, con due protagonisti bravissimi, Suheir Hammad (Soraya), è il suo unico film, finora, e Saleh Bakri, qui alle prime armi, che ha fatto una manciata di film, e però è ormai un attore di quelli che non si dimenticano (da poco protagonista di “Salvo”, ed era in quel piccolo grande capolavoro che è “La banda”, uno di quei film che il dio del cinema ogni tanto ci regala, a noi umili e fortunati spettatori).
la storia è sempre quella del rientro nella casa e nella patria (vi ricordate di Ulisse?) in un film che mostra tutte le difficoltà di un popolo imprigionato, e però non si piange addosso, Annemarie Jacir non solo fa un film politico, ma dentro c’è una rapina degna del genio di Woody Allen, una fuga da nouvelle vague, e la visione del mare, che non ha i tornelli e le sbarre dei check point israeliani, è quella della libertà e dello stupore (un po’ come quella dei bambini di Mereu in” Ballo a tre passi”)
cercatelo, davvero un grande film - Ismaele

Ps: se dico sempre che Saleh è figlio di Mohammad Bakri è solo per ricordare il padre, grandissimo attore e regista coraggioso come pochi (qui è il protagonista di un film sul ritorno, sconosciuto ai più, di Costa Gavras)





Voici un film palestinien qui risque de diviser. Parce qu'au delà des visions d'une maintenant usuelle absurdité, à l'image de l'éprouvante scène de questionnement et de fouilles humiliante qui ouvre le film, le personnage principal ose explorer des des recoins de fierté blessée et demander réparation des souffrances subies et des biens spoliés. D'emblée, le scénario du « Sel de la mer » affiche la volonté d'un retour au source, d'une exploration nostalgique d'un pays rêvé, raconté au travers de jolies évocations d'un grand père décédé, parcourant les rues de Jaffa, jusqu'à la mer. Puis, en documentaire réaliste, le récit aligne les signes d'occupation, montrant des contrôles de nuit durant lesquels l'homme qui l'accompagne se retrouve nu, ou disséquant la manière dont l'Etat israélien décide de qui est palestinien ou non, délivrant uniquement des visas touristiques à des descendants pourtant légitimes…

… Annemarie Jacir ha filmado una historia que conmueve por las emociones encontradas que suscitan los deseos opuestos de Soraya, nacida y criada en Brooklyn, que ansía que le reconozcan como palestina y quiere recuperar para su presente el pasado que le robaron a su familia, y Emad, el palestino al que no le conceden el visado para poder irse a Canadá, y que desea sentirse libre para alejarse de la confrontación política y bélica que ha llenado de sangre la región desde hace más de medio siglo. No necesita mostrar ni una sola imagen de bombardeos para transmitir la gravedad de la existencia en la zona, con controles por doquier y situaciones tan humillantes como la que vive Soraya para pasar la aduana. Solo quienes estén ideológicamente cegatos podrán acusar de maniqueísmo a Jacir.
Por el contrario, en sus imágenes se mezclan un hiperrealismo tan veraz como cualquier documental filmado al hilo del conflicto árabe-judío, con un surrealismo que hubiera hecho las delicias del mismísimo Buñuel. Así, con ese tono de disparate naif (en un lugar donde abundan las armas, los policías palestinos tienen que ir desarmados) se comprende que la pareja robe en un banco y la mujer le pida al cajero que le cuente exactamente la cantidad de dólares del atraco. Para lograr la calidez que transmiten las secuencias, tan esencial es la potente planificación cámara en mano (sin los molestos vaivenes de quienes se creen que están reinventando el cine) como las vivencias que aportan sus protagonistas: Suheir Hammad, una poetisa que nació en un campo de refugiados en Jordania y desde los cinco años vive en Brooklyn, y Saleh Bacri, un actor palestino que nació en la zona norte de Israel, al que no le está permitido entrar en Ramala. Es, pues, La sal de este mar un film que atrapa con su autenticidad emocional, que sobrevuela por las imperfecciones del relato.

…Le film se déroule très simplement dans un style libre et révolté, à travers les décors meurtris d’une Palestine asphyxiée. Le courage exemplaire de l’héroïne, sa force inébranlable, sa foi et son rejet de l’injustice balisent un parcours ou tout est difficile mais ou le refus d’enterrer ses rêves contraste très durement avec la réalité imposée aux personnages. Le Sel de la mer est un film d’écorchée vive, un film quasi militant, en tout cas passionné mais sans haine aucune. Le discours est simple, peut-être parfois trop didactique, mais humaniste, et un réel motif d’espoir.
Présenté à Cannes dans la section Un Certain Regard, Le Sel de la mer s’est avéré être une formidable découverte, un film à la fois courageux et nécessaire. En prime, une révélation sublime, Suheir Hammad, à la fois belle et vibrante d’émotions diverses.

…Written and directed by Palestinian filmmaker (and founding member of the Palestinian Filmmakers’ Collective) Annemarie Jacir, Salt of this Sea is a poetic meditation on the trials and tribulations of modern day Palestinians. Jacir intelligently highlights the sheer ridiculousness of the Israeli occupation; a situation in which Palestinians are treated as refugees and criminals within the borders of their ancestral homeland solely because of their ancestry.
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mercoledì 25 settembre 2013

Rush - Ron Howard

scritto da Peter Morgan ("Il maledetto United", "Frost/Nixon", "L'ultimo re di Scozia", tra gli altri) è la storia di una rivalità, ma anche di una relazione fra due campioni.
la prima parte del film è meno brillante, serve a gettare le basi per una seconda parte splendida, nella quale gli eroi si sfidano e si combattono sino all'ultimo punto e all'ultima curva, e allo stesso tempo in un qualche modo si rispettano e sono complementari.
in realtà sono due eroi omerici, di quell'Iliade che per Simone Weil è il poema della forza.
Daniel Brühl (Niki Lauda) è sempre più bravo, se c'è lui sai che sarà un bel film (da "Goodbye Lenin" in poi), non delude mai, non interpreta, lui è il personaggio, come solo i grandi attori sanno fare.
bravi anche tutti gli altri, Chris Hemsworth (James Hunt), Alexandra Maria Lara (Marlene, la moglie di Lauda), Olivia Wilde (la moglie di Hunt), c’è anche Pierfrancesco Favino (Clay Regazzoni), diretti da Ron Howard, niente punte di genio, forse prevedibile, ma solido.
un film che conquista tutti, soprattutto chi a quei tempi era ragazzo capisce finalmente quella storia di incoscienza e coraggio di rischiare tutto, di eroismo e di coraggio di non rischiare tutto.
da non perdere - Ismaele


...lasciatecelo dire, se per il pubblico neutro e per gli appassionati in erba di automobilismo (quelli che nel 1976 non erano nemmeno stati concepiti) Rush è 'solo' un gran bel film, per noi che siamo nati e cresciuti la Formula Uno di quegli anni, quella Formula Uno artigianale, pericolosa, eroica, epica... rivedere le immagini finali dei veri protagonisti, con i loro volti che dicono tutto senza parlare, ci provoca uno sconvolgimento nel cuore e nella testa. E' commozione pura, che non si può spiegare e che vale più di mille recensioni.

Rush riesce a vincere anche contro il proprio regista, tirando fuori da esso il meglio. Se il titolo fa riferimento esplicito a Hunt, al concetto stesso di brivido, di foga e fame nel vivere e quindi nel correre (e il film in molti punti, locandina inclusa, sembra la sua storia non quella di Lauda), da un altro punto di vista quel secchione che si contrappone al quarterback, quel topo sfortunato e antipaticissimo per cui nessuno nel film tifa, ha una malinconia e contemporaneamente una forza umana talmente innegabili (e qui entra in ballo Bruhl, il suo temperamento il suo modo di essere antipatico senza esserlo davvero) da riportarlo sotto i riflettori anche contro la volontà del film.
Un dialogone finale tirerà le somme di tutto e chiarirà intenti e volontà dell'opera, rileggendo (un po' fuori tempo massimo) tutta la storia. Ma anche senza quello il ritmo e la potenza fisica di Rush, il suo nutrirsi di veleno in bocca, sangue nei polmoni e forza di uomini fermi in un abitacolo, urla e dolore ha un grande senso.
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lunedì 23 settembre 2013

A Simple Plan (Soldi sporchi) - Sam Raimi

prima di tutto una prova straordinaria di Billy Bob Thornton, d'altri tempi.
la storia è quella di una discesa nell'abisso dell'avidità, che danna chi ci cade.
ricorda "Fargo", verissimo, ma anche "Nick e Gino" (un film bellissimo e introvabile, il cui il fratello ritardato era Tom Hulce, in un'interpretazione immensa come quella di Jacob).
la sceneggiatura è perfetta, resti intrappolato senza pietà.
il sogno americano viene demolito e basta pochissimo, appena qualche banconota.
a Mark Twain questo film sarebbe piaciuto molto, secondo me ha collaborato alla scrittura del film, era lì con Sam Raimi.
insomma, se non si è capito, questo film è un capolavoro - Ismaele
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…Siamo dalle parti di Fargo (la falsa true story dei Coen) con il quale Soldi Sporchi condivide l'algido registro visivo e la logica narrativa fondata su un nesso di causa\effetto implacabilmente corrotto, ma dal quale si distacca per uno stile più rigoroso e asciutto, meno divagatorio e teorico.
Apologo sull'avidità, il film si snoda perfetto e implacabile, mettendo in luce complesse implicazioni etiche (amicizia e rapporti fraterni in corto circuito, sensi di colpa, ipocrisie ancestrali), tratteggiando con accenti autenticamente umani i caratteri, svolgendosi la narrazione con toni di appropriata e asciutta violenza…

…Thornton and Fonda have big scenes that, in other hands, might have led to grandstanding. They perform them so directly and simply that we are moved almost to tears--we identify with their feelings even while shuddering at their deeds.
Thornton's character, Jacob, has watched as Hank went to college and achieved what passes for success. At a crucial moment, when his brotherhood is appealed to, he looks at his friend Lou and his brother Hank and says, "We don't have one thing in common, me and him, except maybe our last name." He has another heartbreaking scene, as they talk about women. Hank remembers the name of a girl Jacob dated years ago, in high school. Jacob revealed that the girl's friends bet her $100 she wouldn't go steady with him for a month. As for Fonda, her best moment is a speech about facing a lifetime of struggling to make ends meet.
The characters are rich, full and plausible…

domenica 22 settembre 2013

Tre camere a Manhattan – Marcel Carné

curiosamente nel titolo c’è Manhattan, come in“Deux hommes dans Manhattan”, di JP Melville, di qualche anno prima, trasferta a New York.

il film di Carné (a differenza del film di Melville) non è indimenticabile, come non lo è, per i miei gusti, il romanzo di Simenon da cui è tratto il film.

senza infamia e senza lode - Ismaele




Il bianco e nero esalta le notti di Manhattan, il girovagare dei due esseri soli ed angosciati, il loro senso di estraneità alla vita della metropoli americana. I dialoghi sono però piuttosti scontati, Ronet è bello ed impassibile, il finale prevedibile.

Marcel Carné ,who was once one of the finest directors France had ever had ("les enfants du paradis",to name but one)was having a bad time during the sixties.He was ceaselessly criticized by the new wave.Instead of filming in his own and brilliant way,he tried to ape his persecutors."Les tricheurs" was his first attempt in that direction and it wasn't bad.But "trois chambres à Manhattan " hit rock bottom.A vague Simenon adapted screenplay ,a dirty cinematography,two prestigious actors and he might think the job was done.But he tried so hard to sound like the big boys of the new wave pack that he became some kind of caricature of it.Maurice Ronet tried here to do a second "feu follet" (Louis Malle) and his relationship with Girardot was so uninteresting that weren't it for the actors one would give up after fifteen minutes.Most of the time,it's an endless dialogue between the two leads who get the lion's share on the screen.Genevieve Page,for instance ,is hardly given five minutes in the prologue. The same goes for Roland Lesaffre's implausible pilot.
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sabato 21 settembre 2013

The Broken Circle Breakdown - Felix Van Groeningen

grande cinema, Felix Van Groeningen è davvero un grande regista, è giovane, i suoi film sono bellissimi, gran belle storie, grandi attori, film profondi, sa divertire, sa muoverti dentro le corde, mai noioso, insomma peggio per chi si perde questo piccolo grande film - Ismaele





Non c'è niente da fare, il Cinema migliore, oggi, in Europa, quello più originale, arriva da una paese fondamentalmente insulso come il Belgio. Questo è un melodramma di grande intensità, reso ancora più potente e implacabile da una colonna sonora incredibile, d'antiche ballate appalachiane, suonate e cantate direttamente dai due bravissimi protagonisti, che funzionano da stacco e contrappunto alla vita di Didier e Elise. Ne esce un film originalissimo, commovente ma mai pietistico o patetico, in cui il blues diventa ineluttabile come una bella canzone di Townes Van Zandt. Grandissima sorpresa. Premio del pubblico a Berlino 2013, con una standing ovation meritatissima.

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Il trailer presenta molto bene le atmosfere “vive” del film di Felix Van Groeningen, senza tuttavia rivelare nulla circa la trama. E se il regista ha così deciso che lo spettatore debba approcciarvisi, io non intendo ostacolarlo. Mi limiterò a riportare le intenzioni confessate dall’attore/scrittore belga, ovvero quelle di “raccontare la storia più triste che si possa raccontare”. E lo fa in maniera assolutamente realistica, ovvero senza melodrammi nè struggenti violini, bensì con un perfetto 50% di allegria irrefrenabile e con un country potentissimo. La vita – e qui cito invece le parole della bravissima Veerle Baetens, cantante e attrice che ha descritto similmente il suo personaggio – “è bianca e nera, non solo una delle due”. Vi sono tanti momenti belli quanti quelli tristi nella storia di tutti. E il cerchio rotto a cui il titolo si riferisce potrebbe essere proprio quello della vita: nascita, sviluppo, innamoramento, riproduzione, morte. Basta che solo una di queste fasi non vada per il verso giusto, e tutto si frantuma. Anche la narrazione, che sin dall'inizio alterna arbitrariamente senza uno schema rintracciabile, episodi precedenti e successivi al tragico evento incastonato al centro del film. Eppure sia il montaggio che la narrazione (quella cronologica) continueranno con maestria a proporci momenti di straordinaria meraviglia e gioia. Il tema che emerge con particolare vigore è il confronto tra scienza e religione, due modi di affrontare la vita che porterà i due protagonisti a non essere d’accordo neanche sul fatto di non essere d’accordo. E il finale è così grandiosamente, psicologicamente e moralmente contradditorio rispetto a tutto ciò che era stato costruito durante il film, che non si sarebbe potuto trovare niente di più “vero”. E ascolterete country a tutto volume per le settimane a seguire.
Fortunatamente, la colonna sonora è già reperibile su youtube. Mi sento di suggerirvi questa, forse la più ritmicamente variegata che riflette bene tutti i mood presenti nel film:http://www.youtube.com/watch?v=wTQi-xdD6CI.
Lottate per far uscire questo film nei cinema di tutto il mondo!

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le casting parfait, ainsi que l’énergie et la fougue que dégage ce métrage, suffisent pour nous faire oublier cette légère overdose musicale. D’une beauté vive, "Alabama Monroe" prend aux tripes, celui-ci évoquant des thèmes face auxquels il est difficile de rester insensible. Si la réflexion sur la religion et la foi est quelque peu maladroite, la manière dont est traité le déclin de ce couple face aux différentes péripéties finit par nous emporter. Les différentes phases qu’ils traversent, chacun survivant comme il le peut, sont montrées avec une incroyable justesse, sans aucun faux-semblant. Il serait donc bien dommage de ne pas se laisser embarquer par cette expérience en raison de quelques maladresses…

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.. Une ode à la vie, en quelque sorte. Pour autant, Félix Van Groeningen ne cherche jamais à édulcorer la réalité. La maladie de Maybelle est montrée de façon concrète (fatigue chronique, traitements à répétition, perte de cheveux…) ; l’impuissance de Didier et Elise, qui finit par mettre en danger leur couple, jamais passée sous silence. Souvent éprouvant, toujours émouvant, Alabama Monroe est de ces films qui continuent à vous habiter bien après les avoir découverts…

Parfait dans sa première partie, le film patine peut-être un peu pour trouver sa conclusion, mais l’ensemble reste parfaitement maîtrisé et la sincérité des acteurs est une réussite presque troublante. Alabama Monroe n’est pas un projet autobiographique pourtant, mais un récit de fonction extrêmement bien écrit. On ressort un peu soufflé après ce long-métrage intense, mais on ne regrette en aucun cas de l’avoir vu : à ne pas rater!
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mercoledì 18 settembre 2013

L’arbitro – Paolo Zucca

un esordio davvero maturo, non sarà perfetto, ma non importa.
ci ho visto una storia di due mondi diversi, lontani, quello ricco e corrotto, che comanda, di morti viventi, quello umile, ruvido, difficile, ma vivo, chissà, una metafora.
ma quello che mi è piaciuta di più è la storia dei poveri, calda, eroica, dell’eroismo dei poveri, è realismo magico applicato, se non sapessi che è la Sardegna, potrebbe essere, senza nessuna forzatura, la storia di due villaggi vicino a Macondo, o sulle Ande peruviane di Scorza o nel profondo Messico.
c’è tanto dentro, in una sceneggiatura con tempi che non annoiano mai.
e il personaggio di Accorsi (che ha onorato il cinema in “Capitani d’aprile”, film epico), unico legame fra i due modi, è quello di uno inadatto dappertutto, ma solo in terza categoria riesce a sorridere, alla fine.
una lode speciale per Benito Urgu, che interpreta Prospero l’allenatore cieco e Jacopo Cullin, che interpreta Matzutzi, alla fine c’è una bellissima citazione di Amarcord.
guardatelo e godetene tutti, nessuno resterà deluso, anzi - Ismaele




Uno strano e spiazzante oggetto cinematografico. Due storie parallele di calcio – una del pallone ricco e maggiore, l’altra di quello acciaccato e periferico – che finiranno con l’incrociarsi. Toni da farsaccia che ricordano il mitologico L’allenatore nel pallone con Lino Banfi, e però messinscena rigorosamente alto-autoriale, con un bianco e nero panoramico come nei grandi film anni Sessanta, e con molti, molti debiti verso Ciprì e Maresco (e anche Pietro Germi). Tentativo audace e spericolato di mescolare davvero l’alto e il basso. Ma l’operazione non riesce, impossibile unire commediaccia anni Settanta e rigore alla Dreyer, qualcosa non funziona, non quaglia. Ma L’arbitro resta un film differente, da rispettare…

…al di là dei nomi più o meno roboanti di un cast comunque molto azzeccato L'arbitro è un'opera notevole soprattutto per le scelte registiche del talentuoso Paolo Zucca, che riesce a realizzare una commedia italiana elegante e con un elevatissimo tasso artistico, come si vede davvero assai di rado.
Il registro comico riesce nell'impresa miracolosa di restare sempre elevato, senza scadere nel trash o nell'infimo, bensì svariando tra stile burlesco, grottesco ed epico.
Burlesco per la scelta del soggetto generale: la rivalità tra due squadre di calcio di infimo livello della terza categoria sarda. Si racconta il sentimento di una comunità intera che trova nelle piccole gioie di una domenica di pallone la ricerca di sensazioni genuine, dandogli a tal punto importanza da dedicare ad esse comizi improvvisati in piazza e discussioni accese anche durante i funerali…

Uno dei film d’esordio più memorabili degli ultimi anni, soprattutto per quel che riguarda l’Italia. Paolo Zucca, già vincitore del David di Donatello per il miglior cortometraggio (l’omonimo “L’arbitro”, di cui questo film è lo sviluppo), irrompe sulla scena cinematografica nazionale con una commedia grottesca, ma al tempo stesso raffinata, elegante, girata con uno straordinario gusto per le immagini (e con l’eccellente fotografia in bianco e nero firmata da Patrizio Patrizi). Un film sì leggero, a tratti comico, ma anche epico, solenne. Si potrebbe parlare di una sorta di parabola del gioco del calcio, dalle ambizioni di un arbitro internazionale (Stefano Accorsi) fino alla sgangherata rivalità di due squadre della terza categoria sarda, il livello calcistico più infimo in Italia. In realtà Zucca racconta sogni e desideri di uomini diversi tra loro, la passione di un piccolo paese di provincia, il bisogno di riscattare una vita d’umiliazioni attraverso il senso dello sport, la gioia del pallone, il bisogno di qualcosa a cui attaccarsi per uscire dalla bassezza della vita di provincia. E infine racconta, inevitabilmente, l’amore…

Nel complesso insomma il film è convincente e se pur non supera il tradizionale limite del cinema italiano, la scrittura rigorosa, fa ben sperare per una prossima produzione più focalizzata sulla storia da raccontare e meno prona agli elementi decorativi e agli imperativi di "valorizzazione del territorio" che stanno imponendo le co-produzioni delle varie Film Commission e che scadono spesso in quei fastidiosi "effetti cartolina". 
Piacevolmente imperfetto.
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lunedì 16 settembre 2013

Revolución - Martin Rosete (da un racconto di Slawomir Mrozek)

Che Strano Chiamarsi Federico - Ettore Scola

più che un omaggio è un atto d'amore, e un film di grande bellezza.
chi non va al cinema a vedere questo film dovrà portare la giustificazione, senza imbrogliare.
come diceva Vulvia (Corrado Guzzanti): sapevatelo! - Ismaele



…Il film è un susseguirsi di fiction e immagini di repertorio, alternando bianco e nero e colore, sempre sospeso tra poesia e racconto. Certo lo stile di Scola (e soprattutto i suoi tempi filmici) sono un po' desueti, e in certi parti la narrazione assomiglia più a un buon sceneggiato televisivo piuttosto che a un film, ma Che strano chiamarsi Federico ha il merito di riportarci indietro nel tempo all'età d'oro del cinema italiano, e di far conoscere quell'epopea ai giovani spettatori (che speriamo trovino il tempo, la voglia e gli stimoli per andare a vederlo). Un'epoca forse irripetibile, inimmaginabile ai tempi nostri, di cui queste immagini e questo film contribuiscono a tenere vivo il ricordo. E che anche solo per questo merita la visione.

Non c'è abbandono al nostalgismo di epoche dorate perdute, se pur facile approdo per tutti e sovrappiù per chi ha vissuto la floridezza di un vivaio culturale come il Marc'Aurelio, di cui Scola dà una fervida riproduzione su schermo, né si tratta di un articolato e furbastro tentativo autoreferenziale, semmai un intimo omaggio - lo spettatore può sentirsi come l'usurpatore di una confessione privata -  dall'ambivalenza autobiografica, fruita in terza persona. L'idea di utilizzare lo Studio 5 di Cinecittà, dove Fellini aveva la sua "seconda casa" e una folla commossa nel 1993 l'aveva salutato per l'ultima volta, e ancora la trovata di farlo parlare attraverso la sua voce, i suoi personaggi e le suggestioni della sua poetica che ammanta ogni cosa, finanche il finale; tutto concorre a fare di quei 90 minuti trascorsi in sala, non un film, ma il lungo abbraccio di due amici al ritrovarsi alla fine di un viaggio. E regala a Fellini l'uscita di scena che - probabilmente - avrebbe sempre voluto.

Il film di Ettore Scola dedicato al ricordo dell’amico Federico Fellini funziona come il racconto di un nonno fatto al nipote seduto sulle proprie gambe. Una rievocazione alla quale si perdonano lentezze e lacune, che ci commuove per l’uso della prima persona, per il trasporto e la tenerezza con la quale torna alla propria gioventù e agli anni passati, ma che ci inchioda alla poltrona se il nostro vissuto è distante troppe decadi dai fatti che scorrono, come sogni, sullo schermo…
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domenica 15 settembre 2013

Enter the Void - Gaspar Noé

premetto che l'ho visto in tre volte, tutto insieme era troppo(!)
dentro c'è molto, ricorda qualcosa del "Tree of life" di Malick, i bambini e i genitori,  per esempio, coincidenza che come in "Holy motors" il protagonista si chiami Oscar (ma il film di Carax è tutta un'altra cosa),  ci sono questi occidentali a Tokyo, anche in "Lost in translation" Tokyo è lo sfondo, qualcuno dice che è un capolavoro, altri che ci sono 140 minuti (su 150) di troppo.
c'è il libro tibetano dei morti, c'è  una vita dopo la morte, tanta disperazione, nessuno è felice mai, se non nella meccanica degli amplessi.
se questo film fosse nel Voyager saremo sicuri che nessuna civiltà aliena verrebbe sulla Terra.
è un film da vedere, ma se mi chiedessero se mi è piaciuto non saprei come rispondere, troppo estremo, o forse sono troppo vecchio per estetiche post troppe cose - Ismaele





Ho sempre considerato Gaspar Noé un fuoriclasse e ciò è stato immancabilmente confermato dall'accoglienza negativa che hanno ricevuto i suoi film dalla critica togata. I critici servono soprattutto a quello...se schiantano un film fuori dai canoni, stai pur certo che è imperdibile (Aristakisjan docet), pensate che anni fa leggevo la Bignardi su Repubblica per andare a vedere i film che lei criticava aspramente, ben certo di imbattermi sicuramente in capolavori...e questo Enter the Void è indubbiamente un cristallino capolavoro...

…Non si fa mancare nulla, continuando ad insistere su accostamenti ridicoli (lui che si fa la mamma di un amico, gli bacia il seno e come per magia ritorna bambino mentre succhia il latte dal seno materno...), per poi andare sulle montagne russe (tanto per far venire un altro po' il mal di mare...). Nel frattempo il corpo è pronto per essere cremato: l'anima torna un attimo a “casa” giusto in tempo per vedere la propria “ex-casa” andare in fiamme e continuare il proprio viaggio all'interno dell'urna cineraria. La confusione prende il sopravvento, e quello che per un'ora sarebbe stato un materiale potenzialmente anche interessante, diventa totalmente insopportabile nella sua durata sproporzionata. Troppe, inutili, reiterate, fastidiose le storie eccessive che vanno avanti anche parallelamente, soprattutto quelle familiari. L'ennesima incursione folle Noé, la riserva verso la fine. La sua anima/soggettiva entra persino all'interno di un feto. Qui si rompe il giocattolo, avviene quella frattura che separa nettamente lo spettatore dalla materia filmata. Rimane solo un cinema lancinante, che non respira, se non per boccate innaturali, e un florilegio di tecnica e di soldi sprecati che raramente ci era capitato di vedere.


il film di Noé è un perfetto esempio di cinema postmoderno, almeno nei termini in cui viene inteso da Laurent Jullier, il quale attribuisce alla postmodernità filmica proprio i connotati di immersività e plurisensorialità.  Per Jullier il cinema postmoderno non produce senso, ma sensazioni. Mette l’accento sul piacere fisico delle forme e dei colori invece di porlo sul piacere intellettuale della conoscenza. Dunque, alla fine quello che sembra domandare Enter the void non è tanto di essere compreso quanto sentito. Del resto non si potrebbe fare altrimenti perché, come scrive Canova «quanto più le dita acquistano la capacità di osservare, tanto più la vista la perde, e abdica al suo ruolo di conoscenza e valutazione. Il visibile cede al tattile» (Canova 2004, p.47).

la domanda di fondo resta ed è assillante: qual è l’essenza di un film puramente controverso come “Enter The Void”? In altri termini, cosa rappresenta il “vuoto” per Gaspar Noè? Che sia un viaggio di sola andata verso un inferno evolutosi in un trip di effetti visivi digitali e computerizzati? O è forse un limbo tra la vita e la morte in cui il corpo fluttua alla ricerca di un voyeurismo innato? O ancora coincide con una predisposizione nichilista dell’uomo che, assuefatto dalla droga, lo porta a demolire famiglia e valori, oltre alla propria vita? Se “Enter The Void” è un film che va vissuto come un’esperienza sensoriale straordinaria, è al contempo facile denotarne la sua sterile efficacia in ambito di scrittura. Gli archetipi si avviluppano in un’accozzaglia di messaggi mistici sull’aldilà (il libro tibetano dei morti, il tema della reincarnazione), in una sorta di inno alla sensorialità prodotta dall’uso degli stupefacenti, in un complesso edipico che è la causa di latenti incesti fraterni, in un’ostentazione del proibito che sfida pornografia e gore. L’eccesso dell’eccesso rischia di sfiorare addirittura il ridicolo quando il regista cade nel tranello del citazionismo (l’epilogo allude chiaramente all’odissea spaziale di Kubrick, lo spettacolo cromatico sembra essere una visione alternativa, deforme e sventurata a quella evocata nell’albero della vita di Malick). Il tutto racchiuso in una durata (anch’essa all’insegna dell’eccesso) che supera i 150 minuti…

I tre locali che compaiono nel film, Il “The Void”, il “Sex Money Power” e il “Love Hotel”, altro non sono che i tre paradigmi di una trinità (droga denaro e sesso) che si è sostituita a quella religiosa (ecco la scelta di uno sguardo “divino e immanente” della ripresa) e sono tre non-luoghi in cui si materializza la fuga dell’uomo contemporaneo da una vita troppo carica di responsabilità e di bisogni per poter essere sopportata senza il ricorso all’uso della droga. Il Love Hotel, teatro della lunga sequenza acida e stroboscopica infarcita di riferimenti huxleyani e di richiami hard, è uno spazio ctonio in cui il sesso si materializza nella sua forma più immaginifica, cioè come una visione infernale/celestiale e fantascientifica, in cui i genitali pulsano di luce colorata e gli amplessi orgiastici appaiono percorsi da squarci allucinatori e psichedelici. La sequenza, che altro non è che una sorta di ampliamento del videoclip hard Protege-Moi girato da Noé nel 2003 per il gruppo rock dei Placebo, mostra gli esseri umani intenti nella consumazione di una sessualità compulsiva e asettica, pornografica perché svuotata di ogni emozione, e rappresenta il termine del viaggio prima della morte e (ri)nascita. L’ “albergo dell’amore” viene dopo il “go go club del denaro” e il “vuoto della droga”, e i tre locali, altro non sono che la rappresentazione della catena con cui l’individuo è legato al dolore dell’esistenza…

Quello di Noé è un film singolare quanto autoindulgente, trasfigurato all’eccesso, che mostra per più di due ore e mezza la strenua volontà di mettere in scena ciò che normalmente non si può vedere. Il risultato, però, porta più all’evidenza dell’idea che all’effettiva riuscita della stessa, e la provocazione è così ostentata da raggiungere spesso il ridicolo. Gaspar Noé filma qualcosa di non preesistente nel mondo cinematografico, ma il sospetto è che la lacuna fosse dovuta non a mancanza di coraggio o di inventiva, quanto alla scarsa necessità di questa vacua sperimentazione.

Enter the void attraversa in maniera sublime gli abissi della coscienza, colpisce con immagini crude e un andamento narrativo che s’impenna fino allo scontro agghiacciante tra ricordi; un’orgia di immagini, non solo per l’esplicita presenza del sesso, ma per la fusione, per la sospensione di ogni forma e di ogni distanza; un film dove i lati oscuri dell’esistenza restano intrappolati in un vortice senza fine che custodisce l’eterno ritorno della morte e della possibile reincarnazione dove, al di là di ogni sostanza stupefacente, la distorsione percettiva comincia già col mistero della nascita.

debo decir que hay un video musical realizado a fines de los noventa por el director sueco Jonas Akerlund para la agrupación británica Prodigy llamado Smack My Bitch Up, de fácil localización en You Tube o Dailymotion, pero con las restricciones de acceso oportunas al caso, en el cual se representa una noche de excesos por las calles y clubes de Londres, filmada desde la subjetiva de un fiestero descontrolado, con desdoblamiento de identidad y todo. El video dura apenas cuatro minutos y medio.


sabato 14 settembre 2013

Le radici junghiane del cinema italiano d'Autore - Amedeo Caruso

Intervista a Vittorio De Seta, il regista dell'Ombra

L’avventurosa storia del Cinema Italiano d’Autore percorre itinerari che non sempre passano per le autostrade intitolate a Fellini o Antonioni, o superstrade a tre corsie denominate Visconti e Bertolucci. Esistono sentieri, (gli americani le chiamano strade blu), che conducono il viaggiatore verso panorami inusitati e bellezze nascoste che soltanto chi vuole imparare a viaggiare può conoscere. Per questo motivo da anni ormai davo la caccia a un film introvabile e importantissimo, secondo me, dal titolo “Un uomo a metà” di Vittorio De Seta. Pur possedendone la sceneggiatura sapevo che il film era abbastanza diverso dallo script e pertanto ero curiosissimo di vederlo. Qualche anno fa avevo chiesto anche l'aiuto a quel nuovo e caro amico che è il regista Fabio Carpi, poiché egli ha collaborato alla sceneggiatura del medesimo. Sebbene Carpi sia stato generosissimo e disponibile con i suoi film, non aveva una copia della pellicola in questione e neppure notizie di De Seta da molto tempo. Ero riuscito ad appurare soltanto che viveva da qualche parte in Calabria e nessuno sapeva di più, né telefono né indirizzo. La ragione per la quale ero cosi ansioso di vedere il film e conoscere il regista era dovuta al fatto che, conversando con il mio amico e maestro Aldo Carotenuto, anni orsono ero venuto a conoscenza che De Seta conosceva bene il maestro di Carotenuto, di Fellini e di tanti altri intellettuali e psicologi e medici e scrittori che orbitavano nel mondo artistico e psicoanalitico della Capitale negli anni '50-'60. Carotenuto nel suo libro Jung e la cultura italiana riporta una amabile conversazione con Fellini durante la quale viene citato un amico e collega di Federico, il regista De Seta, per merito del quale l'artista riminese è entrato in contatto con Ernst Bernhard, il medico ebreo allievo di Jung che era fuggito in Italia ai tempi della persecuzione nazista…

giovedì 12 settembre 2013

I clowns – Federico Fellini

un documentario (così viene classificato) di Fellini è sempre un film di Fellini.
qui c'è la pietas e il divertimento, il racconto di un mondo che muore e il piacere delle cose semplici, il riso e il pianto.
imperdibile - Ismaele




…Fellini's playful but slightly melancholy work shows a way in the world has changed; clowns are still around, but they are overshadowed to the point we might not even realize it. Fellini longs for the aging clowns to be replaced by glorious new ones so future generations can have wondrous experiences similar to the ones he recreates, but if nothing else he's done the world the best service he could, preserving for all eternity some of the masters who keep us from becoming too serious.

A great deal of energy has been expended trying to label The Clowns as a "minor" Fellini movie, and the distinction was important at the time, since Fellini had elevated himself to the status of the world's most celebrated and admired filmmaker. (His last name began to appear at the front of his film titles.) But now that that has all blown over, The Clowns can be seen and enjoyed for what it is. It's a simple, sweet tribute to something that Fellini loved and felt didn't get enough attention…

Whether read as universal or personal (or both), The Clowns’ marriage of yin and yang is all the more impressive for embracing a pathos largely out of fashion amidst the heavily political, deconstructionist, and antispectacle art cinema of the late Sixties/early Seventies. This is where The Clowns fails for some: where La Strada and other earlier successes develop pathos from dramatic situations and fully rounded characters, The Clowns slips into sentimentality by turning to an unearned, last-second pathos that cancels out the film’s previous pluralistic and unresolved approaches toward its subject. Here it isn’t very hard to disagree. Fellini may not be working with three-dimensional characters or a conventionally structured narrative in The Clowns, but nonetheless understands his subject as a source and symbol of a pathos, one that can provide the proper counterweight to art cinema’s tendency toward purely intellectual concerns and methods. Perhaps that’s what makes The Clowns so powerful: it not only longs for but also enacts an amalgamation of low comedy and high experimentation, personal essay and documentary-like journalism that in a perfect world would be both popular and challenging, fun and thought-provoking. The Clowns is not only nostalgic for a lost world, but also excitedly proposes a utopian art.

'I clowns' (1970), una producción televisiva (programada el día de Navidad, y estrenada en los cines al día siguiente), es otro rutilante derroche de ingenio y agudeza,en donde ficción y documento, poesía, prosa y ensayo, se entreveran de un modo sorprendente, como si las múltiples capas de lo 'real' se conjugan con los múltiples ángulos de 'la mirada'. El escenario queda manifiesto en las primeras secuencias, el 'entre'. Un afuera que es una carpa de circo, evidenciada como maqueta, que se erige en un amanecer, frente a la ventana de un niño, del 'yo', que no es otro que la representación del propio Fellini (cuya voz conduce la narración). Una representación en una pista de circo, tétrica, sombría, como sombras turbias, da paso a la primera equparación (paralelismo) con la realidad, en el espacio de la evocación, pues Fellini apunta la comparación entre aquellos payasos de la pista y una serie de personajes que conoció en la realidad cotidiana, seres de la misma estirpe, grotescos. Es el espacio de la evocación, y es el espacio de la imaginación: esa forma de encuadrar la realidad, de (re)componerla (de disponer las figuras en el encuadre), esos rostros tan singulares que sólo parecen habitar la pantalla felliniana; unos pasajes que parecen anuncio de la inminente 'Amarcord' (1973).
da qui

martedì 10 settembre 2013

11 Settembre 1973 - Ken Loach

Keby som mal pusku (If I Had a Gun) - Stefan Uher

la guerra vista con gli occhi dei bambini, fra tedeschi e partigiani, con tutta la crudeltà del caso.
non ti annoi un attimo, merita, merita- Ismaele




…Tout d’abord, le réalisateur évoque une fois de plus la Seconde Guerre mondiale – thème obsédant pour qui connaît sa filmographie – et règle ses comptes avec un peuple slovaque qui a pactisé avec le fascisme par antisémitisme primaire (le dialogue des gamins qui se font l’écho de ce qu’ils entendent à la maison sur les juifs est assez parlant). Uher dénonce donc la duplicité de nombre de ses concitoyens, capables de servir le régime fasciste, tout en aidant de temps à autre les partisans qui résistent. Enfin, le réalisateur profite de cette chronique douce-amère sur la transformation d’un gamin en jeune homme pour se livrer à quelques belles prouesses techniques. Il utilise ainsi un nombre conséquent de plans-séquences avec multiples changements d’axe, tout en ayant à gérer de nombreuses actions en même temps.
Cette réalisation très fluide est pour beaucoup dans le plaisir pris par le spectateur devant ce spectacle riche de sens. Le noir et blanc très contrasté qui a été réalisé par quatre chefs opérateurs différents fait de Si j’avais un fusil (1971) une œuvre picturale magnifique qui enchante la rétine. Une occasion supplémentaire de redécouvrir ce cinéaste majeur.

Keby Som Mal Pusku (1972) aka If I Had a Gun is an anti-war themed film exploring the impact of war on children. The action takes place in a small Slovenian village where, despite the ongoing conflict (WWII), children play soldiers, dream of adventures and get into mischief.
Vlado (Marián Bernát), a 12-year-old boy, dreams of owning a real rifle – a rifle that would bring him the respect of his peers and instill fear in the occupying German forces. He is disappointed when the partisans recruit his best friend Victor (who can now have as many guns as he wants), while he has to remain in the village.
One day Vlado’s uncle gives him a rifle.  He has to keep it hidden as the Nazi brigades have explicitly forbidden, under the threat of severe punishment,  any villager to possess a weapon that helps the partisans in any way. The boy is excited and daydreams of how he can become a liberator of his Fatherland – until one day a Nazi patrol sees him in the woods and, under accusations of being a traitor, Vlado faces cruel death from a firing squad of German soldiers…

lunedì 9 settembre 2013

Brodeuses (Le ricamatrici) - Éléonore Faucher

due bravissime attrici, una giovane (Claire/Lola Naymark) e l'altra un mostro sacro (Madame Melikian/Ariane Ascaride) incrociano le loro due solitudini e riescono a credere in qualcosa, nel futuro.
un film di quelli che ti conquistano, da (ri)cercare, sarà una bella sorpresa - Ismaele



Film d’esordio, premiato alla Settimana della critica di Cannes 2004, è la storia di un doppio apprendistato e di uno scambio. In casa Melikian Claire impara un mestiere e le sue sfumature, ma anche a entrare in rapporto col mondo, ad accettare la vita. Salva la sua maestra da un tentativo di suicidio dopo la morte recente dell’unico figlio maschio e in cambio impara da lei ad amare il bambino che le cresce nel ventre. La riuscita di questo film tattile all’insegna di una semplicità concisa e meticolosa nasce anche dalle 2 interpreti che fanno pensare a un accostamento di colori: il rosso dei capelli di L. Naymark, con la sua selvatica e maliziosa energia, si sposa con la sagoma funerea di A. Ascaride. Se mai esiste una scrittura femminile nel cinema, Le ricamatrici ne è un esempio…

Eléonore Faucher sait décidément ce qu'elle fait. Chaque plan, chaque lumière, chaque seconde devient une petite merveille pour les yeux et pour le cœur. On déborde de joie en voyant Claire s'envoler au vent des chansons de Louise Attaque, on partage son angoisse face à cette grossesse non-désirée. La toute jeune Lola Naymark montre à la perfection que le métier d'actrice est décidément fait pour certains.

alcuni critici hanno definito "Le ricamatrici" un film post kieslowskiano. Questa somiglianza salta all’occhio osservando lo stile (l’importanza degli oggetti simbolici, le corrispondenze, i colori ed i riflessi) ed i contenuti (il delicato racconto dei vissuti, i temi sociali affrontati senza retorica). Ci sono poi dei parallelismi più profondi tra la storia di Claire in "Le ricamatrici" e di Anka in "Onora il padre e la madre"…

Con il suo primo lungometraggio, premiato alla Semaine de la Critique di Cannes 2004, Eléonore Faucher mostra che è possibile fare un film di sentimenti senza finirne preda. L’ennesima storia di edulcorata sorellanza si tramuta, nelle mani della regista, nel telaio di una messinscena di ghiacciato e vivido splendore: in un paesaggio livido, in magico equilibrio fra il peso della realtà e l’astrazione del sogno, un pugno di personaggi affronta in muto e febbrile isolamento l’elaborazione di un lutto (diversi lutti, a dire il vero, ma intimamente connessi: la gravidanza di Claire è frutto di un incidente al pari della morte del figlio della signora Mélikian, morte di cui si sente responsabile il giovane Guillaume, non indifferente allo schivo fascino di Claire)…

The imagery of a scarved Claire working alongside Madame Melikian conjures up Vermeer and Lola Naymark, making her debut in a leading role, would have made an apt pupil for the Dutch master. She gives an extraordinary performance and will undoubtedly have French talent scouts knocking at her door. Alongside French veteran Ariane Ascaride, the unorthodox relationship comes alive and will provide a treat for anyone longing for a look at the quieter, yet infinitely interesting, side of life.

Infancia clandestina - Benjamín Ávila

sono ormai numerosi i film ambientati nel periodo della dittatura argentina della seconda metà degli anni '70, tutti necessari.
alcuni, come questo, raccontano con lo sguardo di un bambino l'enormità del dramma che si viveva.
Juan/Ernesto è il protagonista, ha come "consigliere" lo zio Beto (bravissimo), che assomiglia molto a Frank Zappa (una coincidenza, ma bella). 
le scene violente sono a fumetti, una scelta perfetta.
se arriva nella vostra città, non fatevelo scappare, non ve ne pentirete - Ismaele




...Una parte della storia dell’Argentina viene restituita attraverso gli occhi di un bambino, fin troppo maturo per la sua giovane età ma allo stesso tempo ancora troppo giovane per poter capire le implicazioni delle azioni sue o degli altri. Così, riesce ad accettare di buon grado la prospettiva di cambiare completamente identità, diventando per tutti Ernesto; si stupisce quando i suoi nuovi compagni di classe gli intonano una canzone di “buon compleanno” in un giorno che a lui non dice nulla ma che fa fede al suo nuovo documento; riesce a far rientrare nella sua vita diversa la normalità di una festa.  La sua è semplicemente una vita diversa. Anche il giovane amore con Maria, la sorella di un suo amichetto, viene vissuta con la goffezza di un ragazzino e la risolutezza di un adulto, riuscendo allo stesso tempo a commuovere e a far sorridere. Ruolo non da protagonista ma sicuramente predominante è quello di zio Beto, magistralmente interpretato da Ernesto Alterio. L'uomo, infatti, sembra essere una sorta di alter ego di Juan: mentre il piccolo affronta la vita con gli occhi da adulto, zio Beto riesce a lanciarsi nella mischia con l’innocenza di un bambino, cogliendo il senso più profondo della capacità di disfrutar (che non ha una traduzione univoca in italiano, ma si avvicina al concetto di “godere di ogni momento”). E per concludere, quando la violenza potrebbe ferire gli occhi, le immagini si trasformano in una sequenza di disegni, come se quelle scene non fossero state vissute ma facessero parte di una storia a fumetti. Questo film ha tutte le carte in regola per poter fare strada.

Infanzia Clandestina pone domande complesse e non dà risposte, se non nell'insegnamento fondamentale che il magnetico zio Beto, anche lui guerrigliero, tramanda al nipote Juan, esortandolo a non tradire mai se stesso, qualunque cosa decida di fare nella vita.
Al valore di tematiche così importanti si aggiungono meriti squisitamente cinematografici: un cast sempre all'altezza del difficile compito, una sceneggiatura ben scritta - che sa far ridere e piangere subito dopo, senza mai appesantire, anche nelle situazioni più drammatiche - e una regia sicura, non invadente, ma capace di soluzioni peculiari, come l'uso del disegno animato nelle sequenze più violente, quelle che la mente di un bambino non può concepire, persino quando i suoi occhi ne diventano testimoni innocenti.

…Quello che davvero convince di questo film è però la complessità di relazioni e temi che riesce a fare affiorare senza mai sbattertela in faccia con discorsi esplicativi e pomposi, senza mai cercare facili scappatoie e soluzioni semplicistiche. Con estrema delicatezza e naturalezza, attraverso scene costruite in modo semplice e diretto e fotografate con maestria da Ivan Gierasinchuk, seguiamo la storia di un bambino costretto a crescere prima del tempo, e le scelte sofferte e consapevoli di genitori che, vivendo nella clandestinità, portano con sé anche i figli nella lotta per i propri ideali. Una complessità che non vuole cercare prese di posizione, ma rispecchia semplicemente l'affacciarsi del protagonista all'età adulta.
Infancia Clandestina è stato per me la sorpresa di questo Festival di Cannes e, due anni dopo Il segreto nei suoi occhi, una nuova conferma del valore del cinema argentino oggi.
Il film è stato seguito in sala da dieci minuti di standing ovation. Se bastasse questo a garantirgli una distribuzione in Italia... 

Il primo lungometraggio a soggetto di Benjamin Avila, figlio di una desaparecida,parla del retroterra umano dell’ideologia militante, della necessità di essere uomini, prima che soldati. Questa è la parte più difficile della missione, ma è parte integrante dell’obbligo a non avere paura. L’anima non si può mutilare per il timore di finire in carcere, o, peggio, uccisi a sangue freddo. Il martirio, prima che sacrificio di sé, è testimonianza, concreta, esemplare e coraggiosa, di una realtà che sfida le logiche del tempo, però è certamente possibile. È in questo senso che l’innocente semplicità coltivata da Juan diventa grande: un bambino riesce ad essere se stesso, fino in fondo, senza riserve, fuggendo quando dovrebbe restare, fermandosi quando le circostanze imporrebbero di correre via per mettersi in salvo. L’eroismo è una questione di sincerità e coerenza, di fiducia incondizionata nel domani, che sdrammatizza la pericolosità dell’avversario, sottraendogli autorevolezza fino a farlo sentire impotente, sotto la facciata della sua ostentata arroganza. Questa è una storia come tante; è continuamente insidiata dallo spettro della morte violenta, che però non ne intacca la tensione emotiva fatta di piccoli sobbalzi del cuore. I proclami ideologici e le condanne politiche possono urlare, dentro le teste e nelle piazze, ma, nell’universo segreto della nostra interiorità, siamo tutti i silenziosi sovrani di un regno che, senza brame di potere né ambizioni di conquista, vive intensamente la sua umile pace.

…Fantásticamente presentado, prácticamente espontáneo de puro meticuloso en su puesta en escena, lleno de ecos de las voces de aquellos que se fueron para no volver, este drama desarrollado en torno a garajes, falsos cumpleaños y reuniones familiares de rostros vendados encuentra en Teo Gutiérrez Moreno un sorprendente enganche universal, tal es el equilibrio entre sobriedad y emoción que respira la interpretación del muchacho en el que supone su primer trabajo cinematográfico. “Infancia clandestina” debe degustarse despacio, con consciencia y un poso de amargura. Como un recuerdo del pasado que no se debe olvidar. Como rememorar a nuestro tío favorito aconsejándonos acerca del misterio de la mujer, comparada imposiblemente con el disfrute de un sencillo maní con chocolate.

Teo Gutiérrez Moreno, comme l’ensemble du casting, est formidable dans le rôle du jeune garçon, arrivant à rendre complexe son amour partagé entre une vie réelle et une autre imaginaire. Mais celui qui emporte encore plus notre adhésion, c’est Ernesto Alterio qui joue l’oncle Beto. Avec force humour, humanisme et romantisme, il est ce modèle pour l’enfant mais aussi pour le spectateur, qui sera immortalisé dans une scène tournée en film d’animation, un parti pris intéressant, réussi et finalement logique pour un film dont l’histoire est vue (ou imaginée) au travers des yeux d’un enfant !
Si le sujet sent le déjà vu – et au bout du compte ennuie un peu – force est de constater que Avila a souhaité ajouter de l’audace dans la mise en scène, le rythme et le montage, plutôt bien maîtrisés. « Enfance clandestine » rappelle aussi l’existence du militantisme des années 1970 en Argentine et au-delà, l’importance de se battre pour ses idées. Avec « No » de Pablo Larraín, également présenté à la Quinzaine des réalisateurs de Cannes 2012, le film de Benjamin Avila est le deuxième porte-étendard d'un cinéma latino qui se porte très bien !

…Et tous ces problèmes, auxquels sera confronté le jeune garçon, seront comblés par un peu de beauté. Benjamin Avila a choisi de ne pas faire que dans la tristesse ou l’horreur facile. Il ne s’agit pas ici de démontrer. Mais d’émouvoir. Et cette émotion passera par l’horreur, mais également par la beauté. Car au milieu de tout ce carnage (à cause de la politique), le jeune garçon va tomber amoureux. Et là, Benjamin Avila nous offre des scènes splendides où lyrisme et amour se mélangent. Cela sonne comme une échappée dont tout le monde aurait voulu en ces temps de tourmente…
Enfance Clandestine est un film entre récit initiatique et fresque historique. Entre la pression familiale et la guerre, nous avons ici un jeune garçon qui subit. Il subit les choix et règles des adultes, alors qu’il n’a rien demandé. Il veut juste vivre sa vie, et être heureux. De là apparaît deux contrastes : un côté d’horreur avec la guerre, et un côté beauté avec le jeu de l’enfance. A travers une réalisation ludique et inspirée, Benjamin Avila nous sert un pan de l’Histoire de l’Argentine sous le prisme de l’enfance. Un film fascinant doté de suspense et d’émotions.
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