giovedì 26 aprile 2012

Filantropica - Nae Caranfil

una sorpresa bellissima, un grande regista, in una storia con una sceneggiatura con incastri perfetti, a metà strada fra la commedia italiana di Monicelli, "La casa dei giochi" di D. Mamet e "Nueve reinas" di Bielinski, sul tema eterno di come fregare il prossimo, spesso non riuscendoci, almeno i pesci piccoli.
si raccontano le difficoltà economiche, e non solo, di un paese che crea grande cinema.
a me è piaciuto davvero molto (e a breve vedrò altro di Nae, sicuro) - Ismaele


Insidious bittersweet comedy by writer-director Nae Caranfil is boffo in Bucharest, has earned exclusively positive notices in Gaul and belongs on fest slates and discerning arthouse screens far and wide. The central character's blackly comic trajectory will hit a nerve wherever the accepted virtues of hard work and intellectual pursuits have been supplanted by the allure of easy money and flashy consumption.

Pic takes a basic idea and runs with it at a high level that any number of Hollywood scripters might envy. Pushing 40, Ovidiu (Mircea Diaconu), who teaches classic lit at a high school for the well-to-do, draws such a meager salary he still lives with his parents, a retired couple struggling to get by on their pensions…
da qui

…Premiato in patria e all’estero, ottenendo un grande successo di pubblico e critica, Filantropica dimostra quanto sia vitale il cinema rumeno, salito alla ribalta negli ultimi anni grazie alle opere di autori come Corneliu Porumboiu (A Est di Bucarest) e Cristian Mungiu (4 mesi, 3 settimane e 2 giorni), e che già nel 2002 mostrava quanto avesse da dire con questa commedia di Nae Caranfil, intelligente e arguta nella scrittura e piena di idee e ritmo in fase di regia. Con ironia e cinismo, il regista romeno, mette in scena una satira sulle contraddizioni di un paese che rincorre la modernizzazione, lasciando il suo popolo barcamenarsi con i mezzi che l’astuzia e l’arte d’arrangiarsi mettono a disposizione. I personaggi che costellano l’universo di Filantropica hanno molto in comune con quelli della migliore tradizione della commedia italiana, quasi a ricordarci che in fondo i due paesi hanno identità e storie che li accomunano.
da qui

Mediante humor absurdo, más allá de un simple relato costumbrista entristecido, Caranfil traza una comedia agridulce carente de subrayados morales y lecciones a priori, que se eleva como una metáfora críptica sobre la situación rumana actual, de la que se distancia -como narrador omnisciente-, para que sea el espectador, destinatario de la realidad, quien juzgue sobre la mendacidad como prospero negocio organizado, a caballo entre el postsocialismo de Ceaucescu que expira, y la globalización como dogma neoliberal, que lo sustituye malevolamente.


lunedì 23 aprile 2012

Sweet Movie - Dusan Makavejev


Un film strano, di quella specie estrema e geniale, alla Pasolini Jacopetti e Ferreri, per dirne tre. Problemi con la censura, naturalmente, due storie parallele critiche verso il capitalismo e il comunismo, da scontentare molti, per molte cose.
Impressionante il filmato dell’eccidio di Katyn, in un film del 1974, bellissima la musica di Manos Hadjidakis, con testi adattati in italiano da Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini, colpisce la polena con l’immagine di Marx, insomma un film tutto da vedere, un capolavoro per la sua unicità- Ismaele





…La satira, quella vera, non arretra di fronte a nulla e va oltre il colore politico. Makavejev mette alla berlina il capitalismo - come ci si aspetterebbe da lui - ma non rinuncia a sferrare stoccate tremende ai teorici della rivoluzione e al loro triste fallimento. Il tutto è messo in scena in forma di apologo surreale, formula oggi quasi totalmente assente dai grandi schermi ma molto in voga a metà anni '70. Il regista riprende icone della contestazione come Clementi e Topor, li fa agire in un contesto bizzarro quanto disturbante e ottiene il massimo. Una vera goduria, non solo per noi bizzarromaniaci, ma anche per gli amanti del grande cinema tout court.

Sta di fatto che sfugge in certi estremi il discorso di Makavejev, sfugge il significato tenuto in scacco dal significante, ma non sfugge il fatto che sia difficile rimanere passivi di fronte alle riflessioni o non-riflessioni artistiche del regista yugoslavo. Che il film piaccia o meno…


…Reich’s troubled life was the focus of ‘WR: Mysteries of the Organism’. His notions discomforted the puritanical cold-war America that finally sentenced him two years in prison (where he died after one year) and burned tons of his books. His anarchic influence is clear in this film especially in the explosive scenes featuring artist Otto Muehl and his Reich-inspired ‘Friedrichshof’ commune which in the movie called Milky Way.
Other source of inspiration is the Russian philosopher Mikhail Bakhtin and his ‘Carnivalesque’ term that has to do with the liberation of the dominant style or atmosphere through humor and chaos. Clearly the spectator can recognize a variety of influences from many others: Sergei Eisenstein and Jean-Luc Godard with their nonlinear montage and Bertolt Brecht and his theory about the “epic theatre” that stimulates the intellect as well as the emotions.
Francis Ford Coppola after seeing ‘WR’, invited Makavejev to direct ‘Apocalypse Now’ but the director declined and filmed Sweet Movie. The music score composed by Manos Hatzidakis and after the film screened in Cannes Film Festival immediately banned in the UK, Ontario Canada, South Africa and many other countries. (Most possible ‘officialy’ is still banned in the previous places).US release was minus four minutes (those containing the scatological material)…

Siamo negli anni ‘70, 1974 per la precisione. Non potrebbe esserci periodo più fecondo per questo genere di film. Già parlare di genere risulta restrittivo, in quanto l’intento di molti registi dell’epoca non era quello di fare opere cinematografiche ben definite e classificabili ma di trasgredire, andare oltre, sperimentare, inventare.
Dušan Makavejev si inserisce nel solco della ricca tradizione artistica jugoslava, la cui storia contemporanea fornisce spunti inesauribili di riflessione politico/poetica. Al pari di Jodorowsky, Arrabal e altre menti illuminate del surrealismo anarchico, Makavejev incappa più di una volta, lungo la sua estesa carriera, nelle maglie della censura (intendiamoci, i film di questi tre autori incapperebbero anche oggi in tagli severissimi). La vera forza dell’artista jugoslavo sta nello sfruttare il cinema per scopi interessanti in un periodo in cui il cinema poteva ancora essere uno strumento di sovversione, di denuncia inflessibile, di cambiamento. Oggi, nonostante la carica rivoluzionaria dei suoi film, questi ultimi verrebbero trattati alla pari di fenomeni marginali e strambi, senza capo né coda, interessanti (per una nicchia) ma fini a sé stessi…
da qui


qui il film completo (sottotitolato in portoghese)






sabato 21 aprile 2012

Ostrov (Island) - Fyodor Khitruk

Monsieur Lazhar - Philippe Falardeau

candidato all'Oscar 2012 per il Canada, un film che mette affianco due modi diversi di "spiegare" la morte ai bambini, il modo freddo, politicamente corretto, e quello di Bachir, magari ruvido, ma capace di contatti coi bambini.
dopo "Polytecnique", un altro film canadese sulla morte a scuola.
è un'altra cosa, con altri approcci, ma è un film che merita - Ismaele


…Le interazioni con la classe offrono alcuni momenti di commedia e più frequenti spunti di riflessione, ma i numerosi e complessi temi di cui la trama si fa carico diventano talvolta oggetto di facili vie d’uscita narrative, e anche la figura del protagonista appare non di rado vittima di una costruzione troppo semplice che non rende giustizia a un personaggio interessante e potenzialmente più articolato di quanto appaia. In effetti, l’esperienza personale dell’insegnante messa a confronto con quella collettiva della classe stentano a fondersi in l’armonia come – si intuisce – la sceneggiatura vorrebbe.
Di conseguenza, lo squilibrio nell’intreccio di temi trasforma presto il film in una favola morale che offre a tratti (troppo) facile conforto e buoni sentimenti ma che banalizza soprattutto il tema dell’immigrazione che, pur essendo centrale nella storia, appare non di rado marginale.
Lodevole nelle intenzioni, meno nel risultato, “Bachir Lazar” presenta buoni momenti ma il suo ritratto è troppo banale per convincere pienamente, non aiutato in questo nel suo aspetto visivo, con una fotografia che ricorda troppi prodotti televisivi…

…Without pushing the parallels, the story obliquely connects Bachir’s story with his empathy for the children, especially his intuition that Simon’s distress is more complex and deeply rooted than it at first appears. When the truth is finally revealed in a flood of tears, the boy’s heart-rending confession reminds you of how easily children can torture themselves with guilt for imagined sins.
Bachir cannot follow the rules. When the class needs his emotional support, he delivers a healing, common-sense speech about the suicide to the students who take it in stride. You applaud him for his bravery and tact…
da qui
Always hanging over the film is the horrible mystery of suicide, which disproportionately affects its young witnesses. Falardeau gently depicts the searching love-hate relationship between those witnesses: class clown Simon (Émilien Néron), given to aggressive acting out, and Alice (Sophie Nélisse), who quickly takes a shine to the school's sole male classroom instructor. The keen leading performances never hit a false note, but Néron gets the showpiece when he at last experiences an emotional breakthrough about his late teacher.
Monsieur Lazhar at times recalls more striking teacher movies, like The Class and Dead Poets Society, but it's a small gem of its own, meeting its kids on their level and celebrating a teacher who cares about their present and future.

Bachir keeps his story to himself but we know it’s what makes him the right man for the job – not teaching, but helping the kids, in particular Simon and Alice. Their teacher’s suicide has created a rift in their friendship that becomes increasingly confrontational as the film moves forward, and Bachir – who has been expressly told not to interfere with the school’s healing process – is the only adult close enough to spot it.
Later in the film, Bachir is alone working late during a school dance. He starts moving to the music, clearly enjoying himself, and a female teacher, who has become a friend, watches with a smile before announcing her presence. It’s a wonderful, surprising little scene that catches you off guard because it’s strangely momentous. You know right then that, somehow, the kids are going to be alright…
da qui

giovedì 19 aprile 2012

Zert (Lo scherzo) - Jaromil Jires

un film (tratto dal romanzo di Milan Kundera, un bel romanzo) in un bellissimo bianco e nero, racconta una storia che sembra di un altro mondo, di un'altra vita, ma vicinissima, uno scherzo (pagato caro) e una vendetta (mancata).
terribile la parte del servizio militare delle pecore nere. 
convincenti gli attori.
un film da vedere, davvero un gran bel film - Ismaele


Allo stesso tempo le timide aperture della Primavera di Praga diedero la possibilità ai registi di rileggere il recente passato del paese in modo nuovo. Appartiene a questo filone, anche se solo in parte, Demanty noci (I diamanti della notte, del 1964), l'esordio di Jan Nemec che riguarda un episodio dell'Olocausto (seppur trasfigurato in chiave surreale), ma soprattutto il lungometraggio diretto da Jaromil Jires Zart (Lo scherzo del 1969), tratto dall'omonimo romanzo di Milan Kundera, che collaborò anche alla sceneggiatura, nel quale veniva mostrato un campo di lavoro in cui erano reclusi i dissidenti negli anni Cinquanta. Il film venne subito ritirato e congelato negli archivi…

The Joke, which he finished filming just before Soviet tanks stormed his country to recapture it, didn’t impress the new government, since it spoke boldly against the Stalinist era, and as a result, it sat largely unseen, even in its own country, for nearly two decades. Based on a novel by Milan Kundera, the celebrated author of “The Unbearable Lightness of Being”, The Joke is a blunt parable about the Stalinist era’s asinine insistence that every individual must at every moment act with the political party in mind. The film opens as Ludvik, its central character, arrives in his hometown after being away for twenty years ready to set upon what he describes in his narration as a “cynical mission.” Before long, the film launches into an extended flashback to the Stalinist era that explains what’s motivating his revenge plot. During these scenes, which are filmed from a first-person perspective, we never see Ludvik, and often the other characters address the camera directly. The minor transgression shown is quite obviously borne out of his frustration that the woman he loves loves her political party more than him (behavior that’s absurdly encouraged by the Czech society shown here), but it ends up resulting in his exile…
da qui

...now, that Kundera was revealed to have himself denounced a "capitalist spy" to the police authorities and thus contributed to the long-term prison/correction camp sentences of several people, this book/movie develops in an unexpected dimension. Was it a deliberate, or subconscious way for Kundera to deal with his own guilt, a way to explain to his younger self that what he did, apparently out of good faith and sense of civic duty, at the age of 20, seemed nothing but utter stupidity at the age of forty?...
da qui

Finally in 1968, Jaromil Jires directed The Joke (Zert), with Milan Kundera writing an adaptation of his own novel reflecting his disillusionment with communism. The plot focuses on Ludvik, an embittered man who seeks revenge for an incident from his youth. He had sent a postcard to a prospective girlfriend in which he sarcastically responds to something she had said about Trotsky. The card fell into the hands of a student committee who failed to see its satiric tone. Ludvik is expelled from the party and the university, and further punished with prison, and years of forced labor. Fifteen years later, an accidental encounter with the wife of a key student leader provides the opportunity for revenge.
The film alternates nimbly between scenes from the past and present, utilizing frequent cross-cutting, and astutely placed snippets of voice-over narration. The denouement provides surprises at every turn. Eventually, Jires implicates everyone, including the protagonist.
The Joke was released in 1968, a turbulent year in Czech history. After a brief period of increased liberalization, the Soviets invaded Czechoslovakia, reestablishing a harsh regime. The film was banned and vanished from Jires' official filmography…
da qui


mercoledì 18 aprile 2012

Diaz - Daniele Vicari

è un film dell'orrore, non quello inventato, finto, ad effetto.
è orrore che è successo è che va ricordato.
andrebbe visto a scuola, ho provato a chiedere in giro, ragazzi di 17-18 anni non sanno che è successo, intanto si vada a vederlo al cinema, soffrendo per quei colpi.
sembra più un documentario, spesso, ma forse è il modo per capire e ricordare meglio - Ismaele

…Credo infatti che non si possa descrivere un’opera cinematografica del genere senza rischiare in qualche modo o di plagiarla, o peggio di essere eccessivamente spoiler.

E’ un film che va visto in sala. Punto.

 …Dal punto di vista cinematografico poi questo è un film senza star. Ognuno ha il proprio ruolo che si immerge e riemerge come un corso d'acqua carsico nei gironi degli inferi di quella notte. Una notte da dimenticare diranno alcuni. Una notte da ricordare afferma con forza e rigore questo film. Perché fatti simili non accadano più.

…il film  non è  apparso in nessun  festival italiano strappando un premio del pubblico alla Berlinale dove era presentato nella sezione Panorama. Belle le musiche affidate a Teho Teardo, già collaudato nei film di Sorrentino, che inserisce anche  la musica balcan-pop di Goran Bregovich.

Degna di nota è anche la scena finale con una panoramica aerea della colonna delle camionette che vanno verso il carcere di Voghera trasportando gli stranieri verso l’espulsione . Con ciò si pone fine alla narrazione di una vicenda parallela ai fatti, ma sempre presente, quella della “globalizzazione”, fenomeno  che ha le sue radici cariche di guerre e violenza molto lontane nel tempo. 

Quello che piace di questo film, al di là della vicenda narrata, è proprio lo stile sicuramente originale e coraggioso di Daniele Vicari che affronta un tema difficile restando neutrale: perché è solo attraverso i fatti che lo spettatore potrà poi individualmente crearsi il suo giudizio. Il suo punto di vista è infatti quello della macchina da presa, a volte fredda e distaccata, a volte  interessata e partecipe,  ma comunque sempre nascosta da qualche parte da questo lato dello schermo. 


… “E’ stato molto peggio di quello che si vede nel film” ha dichiarato il pm Enrico Zucca all’anteprima genovese. I vertici della polizia invece non commentano, con tanto di circolare del ministero dell’Interno. Eppure le scene di violenza non sembrano censurate nel film, il “tonfo” del manganello arriva allo stomaco, il nostro, come i lividi e il terrore, al punto che viene da chiedersi se sia un torture movie quello che stiamo guardando e non semplicemente la rappresentazione filmica dei fatti tratti dagli atti processuali delle sentenze della Corte d’Appello di Genova del 5/3/2010 e del 19/05/2010. Qui sta il merito e il limite del film.

Il merito civile di aver fatto vedere e sentire cosa sia successo nella Diaz e a Bolzaneto (gli unici fatti di cui non c’è materiale video originale), di non aver mai pulito quel sangue. Il limite è, invece, linguistico, la realtà dei fatti ricostrutita con la finzione crea un paradosso che forse una scelta registica diversa avrebbe potuto levigare, penso ovviamente al documentario, da cui Vicari viene. Tutto ciò che è fiction pura nel film non convince, non può…


sembrerà un’ovvietà ma forse ogni tanto occorre ricordarlo, un film è… un film. Ed ha pertanto i suoi linguaggi ed i suoi tempi che lo rendono un oggetto narrativo peculiare rispetto ad altre forme espressive come ad esempio un documentario, una fiction o un reportage. E sono proprio questa immediatezza e questa fruibilità a renderlo un media così potente. Chiedere ad una pellicola di un’ora e mezza l’esaustività di un saggio politico sarebbe come chiedere ad un romanzo storico la completezza di un tomo universitario. Immaginatevi se Elsa Morante nello scrivere “La storia” avesse dovuto parlare non solo di Ida, Useppe e Nino, ma anche di tutte le ragioni economiche, sociali e politiche che determinarono lo scoppio della seconda guerra mondiale o l’avvento del fascismo… sai che polpettone indigeribile ne sarebbe venuto fuori. Bisognerebbe dunque chiedersi se l’inevitabile parzialità su cui Vicari ha scelto di puntare la telecamera sia, di per se, significativa. E secondo noi lo è. Immaginiamo che dovendo affrontare una questione come questa il regista si sia trovato di fronte a due possibilità: optare per un film “a tesi” ed assumersi così il compito di spiegare il perché di quello che è successo la notte del 21 luglio, oppure raccontare il più oggettivamente possibile i fatti lasciando questo onere allo spettatore, e ci sembra evidente che la strada imboccata dal regista sia stata proprio quest’ultima. Attraverso un film corale giocato sui flashback dei diversi protagonisti che per un ragione o per l’altra finiranno per passare la notte alla Diaz lo spettatore assisterà alla brutalità di 300 bestie in divisa che si accaniscono contro dei civili inermi. Per chi quei giorni li ha vissuti oppure per un compagno che fa politica tutto questo potrà sembrare anche ovvio, ma immaginiamo quale effetto dirompente possano avere quelle sequenze per lo “spettatore medio” cloroformizzato da decenni di angelizzazione mediatica delle cosiddette forze dell’ordine. E qui sta uno dei meriti enormi del film. Altro che Maresciallo Rocca, altro che Decimo distretto, altro che Squadra di Polizia, altro che ACAB… nel film di Vicari non si salva nessuno…
da qui

…Le immagini che non scorderò mai: i bastoni di ferro dei Black Bloc che si toccano con gioia, le macchine della polizia in composta fila indiana che attraversano una Genova ancora ignara per dirigersi alla Diaz (Vicari: tieni di più quella inquadratura aerea! E' splendida), Santamaria che ripete: “Riponete il tonfa e lasciate immediatamente l'edificio” (le parole sono caos), un poliziotto che mostra a un suo superiore un libro con strani disegni come possibile prova anarco-insurrezionalista dopo l'irruzione in Diaz (e se fosse il Mentaculus di Serious Man?), l'esibizione retorica di due bottiglie molotov trovate alla Diaz come prova del fatto che fosse un pericoloso covo di Black Bloc, i poliziotti che mettono le X sulle guance agli arrestati portati a Bolzaneto dopo la Diaz, Germano che piange dicendo “Grazie” al Direttore del giornale che è venuto a trovarlo in ospedale (ci sono ancora Direttori così? Spero di incontrarne uno), la poliziotta con orrida maglietta di Dolce e Gabbana che rilascia la prima conferenza stampa dopo il fattaccio non rispondendo alle domande dei giornalisti stranieri.

Un film di piccoli tocchi che creano un grande significato. Bisogna essere fieri, come italiani, che dei nostri compatrioti abbiano realizzato questa opera cinematografica.



PS: 
...…"Ho scritto la musica di Diaz - dichiara Teardo - dopo aver letto la sceneggiatura ed immaginando come potesse prendere forma una realtà così cruda e spietata come quella descritta. Ho sentito la necessità di indagare il tempo prima e dopo i pestaggi, due momenti il cui intervallo mi pareva eterno".

Anche per questo lavoro sono presenti come esecutori il Balanescu Quartet e la violoncellista Martina Bertoni. Gli archi graffiati, suonati con le unghie per sostituire le tradizionali parti ritmiche hanno spostato altrove tutti i consueti meccanismi per creare tensione nella musica; un altrove necessario per trovare un parallelo emozionale con l'annichilimento dei personaggi dopo i pestaggi…

lunedì 16 aprile 2012

Il Castello – Michael Haneke

fosse anche solo per Ulrich Muhe il film vale la visione.
c'è il Potere, che tiene tutto in una ragnatela, nella quale tutti hanno una parte e sono prigionieri.
riesce perfettamente a farti capire il verso di De Andrè "non ci sono poteri buoni "
e il senso di angoscia di Kafka è reso molto bene.
merita - Ismaele



Di rado la poetica di un autore si era trovata così in sintonia con quella di un altro; raro un passaggio dal romanzo al film così fedele. Ma Haneke ha in sé il germe di Kafka, i due parlano la stessa lingua, e ciò spiega i perché di tanta armonia poetica. Il Conte del Castello incarna il Potere, un potere arroccato nella difesa del suo status quo, che nonostante i suoi possibili errori riesce a saturare di sensi di colpa chiunque gli si relazioni. Lo stesso potere burocratico dei tribunali de Il Processo, o lo stesso potere genitoriale che in Kafka è rappresentato dalla figura paterna. Padre e potere. Walter Benjamin, nel suo celebre saggio su Kafka, osservava:
«Molti indizi fanno ritenere che il mondo dei funzionari e quello dei padri sia - per Kafka - lo stesso. La somiglianza non va a loro onore. [...] Ma così anche il padre [come i funzionari] nelle strane famiglie di Kafka, vive del figlio, pesa su di lui come un enorme parassita. Egli non consuma solo la sua forza, ma il suo diritto di esistere. Il padre, che è il giudice, è insieme l'accusatore»1.
E come non poter essere accusatore se si è il Potere? Il Conte del Castello è quel potere invisibile, proprio della burocrazia kafkiana, che è in tutti i luoghi e in nessuno di questi. Può contare su una capillarità di consensi e di sue emanazioni che gli permettono di non palesarsi…

…Il K. interpretato ottimamente da Ulrich Muhe (che per Haneke lo stesso anno reciterà anche in "Funny games" - stesso discorso vale anche per Susanne Lothar e Frank Giering) incarna tutte le frustrazioni dell'uomo che emergono dal racconto di Kafka, un uomo prigioniero in una gabbia di insensata burocrazia nella quale Haneke trova le basi per sollevare ancora una volta le sue critiche nei confronti del potere. Il potere, che è chiaramente rappresentato dal castello, è un potere invisibile, un potere apparentemente assente ma sempre inevitabilmente presente, capace di annichilire con inutili e pedanti lungaggini le vite di tutti coloro che gli si rapportano…

domenica 15 aprile 2012

Balada triste de trompeta (Ballata dell’odio e dell’amore) - Álex de la Iglesia

un film sopra le righe, estremo, eccessivo, un paese sotto una dittatura fintamente soft, dentro il film c'è di tutto, amore,odio, vendetta, mostri, fascisti, auto che volano, moto col turbo, alla fine il pregio è che tutto si tiene.

bello e inquietante, senza pace.

un film magari non per tutti, ma che vale - Ismaele


« Non siamo noi, è questo paese che va a rotoli ». In realtà, si sta sfalsando, il paese fantastico, immaginifico e surreale di Álex de la Iglesia sotto la spinta della pazzia e dell’incredibile. Il film parte da Madrid nel 1937. La guerra civile spagnola è ad una svolta. I repubblicani sono allo sbando. Essi arruolano forzatamente gli artisti di un circo. Molti muoiono in combattimento; alcuni vengono fucilati al grido “Viva il circo”, altri vanno in prigione, fra questi un clown. Il figlio cerca di salvarlo, ma muore nel tentativo di fuga…

perché questa Balada sarà pure triste, lo è dal punto di vista artistico, ma soprattutto insulsa: smaccata sin dal footage storico-politico dei titoli di testa (gli unici secondi di film a salvarsi), l’intenzione è quella ricattatoria di fare del circus-horror la cartina tornasole grottesca e fessa del vulnus franchista. 
Ma, caro Alex, non ti è andata bene: la Balada dei due pagliacci bestiali intorno alla bella svampita e vogliosa è stonata, cacofonica e stoltamente barocca da cancellare qualsiasi riflesso tra Storia e questa storia di ordinaria furbizia e mediocre cinema. 
Costoso, di qualche valore nel trucco e parrucco, colabrodo davanti e dietro la camera (gli effetti speciali risibili, la regia forsennata quanto caciarona, gli attori credibili come una velina franchista), la domanda è una: perché in concorso? Bah.

Dopo la scena introduttiva, che mette in ridicolo i dogmi militareschi contrapponendoli allo spettacolo di due pagliacci e alle risate dei bambini accorsi a vederli, l'accusa alla guerra e all'autoritarismo passa poi attraverso la lotta senza esclusione di colpi fra il violento Sergio e il timido Javier che, mosso dall'amore e dal desiderio di vendetta che si porta dietro dai tempi della morte del padre, si ribellerà diventando ancora più spietato del suo antagonista...

Dalla Guerra civile spagnola al tramonto del franchismo: cos'è la Storia per Álex de la Iglesia? Nella peggiore delle ipotesi un modo per darsi una patina intellettuale, nella migliore uno sfondo come un altro su cui accumulare inseguimenti, morte, sangue. Azzardare una riflessione? Manco a parlarne. Specie se lo sceneggiatore (sempre de la Iglesia) non considera nemmeno gli spunti più interessanti (il circo come microcosmo in cui si riproducono rapporti di potere, l'influenza sul carattere della persona e sull'artista della violenza nella società), si concentra sui più stupidi (l'uomo cannone che può volare e salvare la bella in difficoltà, per dirne uno) e si premura di spiegare l'Operación Ogro a un pubblico che, forse non a torto, presume ignorante…

Birdboy - Pedro Rivero, Alberto Vázquez



036 - Juan Fernando Andrés Parrilla, Esteban Roel García

sabato 14 aprile 2012

Tatarak - Andrzej Wajda

un film che non si vedrà al cinema, ed è un peccato.
non è un film facile, due storie sono sovrapposte, un monologo eccezionale, sincero, doloroso, vero, e una storia sul tempo che passa, protagonista una grandissima Krystyna Janda (la giornalista de "L'uomo di marmo", del 1977)
c'è un film nel film, ma poi la finzione confonde, resta "Tatarak".
merita, merita - Ismaele


…Torniamo a "Tatarak", come è arrivato a concepire un progetto che tocca temi tanto intimi e universali in modo così diretto e persino spiazzante?
Dopo Katyn, avevo bisogno di liberarmi della tensione che quel lavoro, che affrontava la storia di mia madre e della morte di mio padre, aveva creato in me. Così ho deciso di rivolgermi a uno scrittore che avevo già incontrato tre volte in passato. Questa novella, "Tatarak", mi aveva sempre interessato, ma la consideravo troppo breve per farne un film. Però stavolta ho deciso di provare e ho coinvolto Krystyna Janda, offrendole il ruolo di Marta.

Poi che cosa è accaduto?
Il marito di Krystyna, Edward Klosinski, si è ammalato. Sapevamo che la sua malattia era mortale e abbiamo interrotto il lavoro. Invece alla fine lei è tornata e ha deciso di continuare. Dopo poco mi ha dato qualche foglietto da leggere. Ho fatto cinquanta film e credevo di aver vissuto qualsiasi possibile situazione tra un regista e un attore, ma questo non me l'aspettavo. Aveva descritto la malattia del marito e ora era disposta a raccontarla davanti alla macchina da presa. La storia di "Tatarak" aveva fatto nascere in lei la convinzione di poter condividere quel dolore e trovare pace. Credo che abbia contato molto il fatto che ci conosciamo da 34 anni e abbiamo lavorato spesso insieme. C'è tra noi un rapporto di fiducia che ha permesso tutto questo.

Il monologo di Krystyna è girato nella camera d'albergo, con una macchina fissa, con l'intenzione dichiarata di ricreare le immagini e le suggestioni di Edward Hopper.
Hopper è un pittore che conosco bene e che ammiro molto perché sa mostrare la solitudine nella grande città e soprattutto la solitudine delle donne. Avevo in testa i suoi quadri degli anni '30, immagini forti ed espressive. La macchina doveva essere ferma e discreta, come se fosse lì per caso. Le parole dovevano prendere il sopravvento: si vedono tanti volti in tv  volti di politici, di artisti, di passanti - che non vogliono dire più nulla.

Il film, attraverso il racconto di Iwaszkiewicz, sfiora anche il tema dell'imprevedibilità della morte.
Hrabal, uno scrittore che ha molto lavorato su questo tema, raccontava che la morte avrebbe bussato alla sua porta ma, vedendolo occupato a scrivere, avrebbe deciso di ripassare più tardi. Io faccio come lui. Ecco perché giro un film dopo l'altro…

Tatarak è quindi sospeso tra finzione e vita reale. C’è un momento del film in cui c’è una spaccatura tra ciò che è dentro il set e ciò che fuori. La Janda, dopo la scena dell’annegamento, scappa sotto la pioggia e va a fare l’autostop. La parte più narrativa, tratta da un racconto di Jaroslaw Iwaszkewicz, disperde progressivamente i suoi residui letterari e diventa puro cinema en-plein air, evidente nella scena della festa in cui Marta e Bogus si conoscono e soprattutto in quella del fiume, in cui ci sono gli echi del cinema più libero e intimista del cineasta e degli squarci che possono far tornare in mente le impercettibili e temporanee vibrazioni del Jean Renoir di Une partie de campagne soprattutto per come Tatarak possa essere anche una sorta di ‘film d’acqua’. Al tempo stesso però il film possiede anche una vitale energia evidente soprattutto nei momenti in cui Bogus sta nuotando e nella scena dell’annegamento. La parte in cui la Janda è sola nella stanza e ricorda il marito ha quella fissità quasi da ‘kammerspiel’ dove però l’attrice mette a nudo se stessa e il proprio dolore. Si tratta di momenti privati di assoluta intimità, di una ricerca del tempo perduto da recuperare per poter essere in qualche modo rivissuto. Quando lei racconta che ha tenuto il numero di cellulare del marito e lo chiama ancora per poter sentire la sua voce, mette in gioco un serie di emozioni inarrestabili e materializza un amore che ha qualcosa di eterno. Vissuto, rivissuto, da rivivere.

mercoledì 11 aprile 2012

Loft - Erik Van Looy

un film del 2008, con diversi remake, uno anche quest’anno negli Usa, con lo stesso regista.
una sceneggiatura che non molla, attori credibili, una storia a metà fra Mamet e “I soliti sospetti”, un film che non delude, anzi.
il precedente è ”The memory of a killer”, del 2003, è incredibile che nello spazio di cinque anni uno come Erik Van Looy abbia firmato solo due film, davvero molto buoni entrambi. - Ismaele


Ottimo film belga girato ad Anversa che tiene incollati alla sedia per quasi due ore, puntando tutto su script e attori e senza ricorrere a banalità da action movie. Dialoghi sferzanti improntati al cinismo tipico della scuola europea nordica e ben registrati su cinque personaggi complementari fra loro. C'è molto flashback ma il rischio di confusione è tenuto lontano e il continuo rimescolare le carte raggiunge lo scopo. Elegante nel tono generale, già a partire dai titoli di testa e nella scelta delle musiche.


When looking through, it soon becomes clear that 'Loft' is a very good film. First of all, this thriller has an ingenious plot that keeps you on the tip of your seat from beginning to end. Considerable value is added by the play of an impressive number of Belgium's greatest actors and actresses. 'Loft's picturing is adequate at least, too, supporting its plot rightly by creating a tense mood…

Numerous sequences in "Loft" are very powerful and display a genuine sense of craftsmanship. The roughly edited and fast paced sequence inside the casino, where all protagonists are gathered not only with their wives but also with their mistresses and personal opponents, is nail-bitingly tense and atmospheric. Some of the characters are stereotypical, like the lightly inflammable bad-boy Filip and the nerdy Luc, but those aren't obstacles. Despite of the easily exploitative themes, the amount of gratuitous sex and explicit violence is kept low in favor of suspense-building and intrigue…
da qui


martedì 10 aprile 2012

PVC-1 - Spiros Stathoulopoulos

ho rivisto dopo un paio d'anni PVC-1 e l'effetto è sempre lo stesso.
un film che ti lascia senza respiro e ti fa sobbalzare in certe scene, sembra un documentario in diretta, tu sei l'occhio della telecamera, sei lì, e non puoi rimanere indifferente.
imperdibile - Ismaele



PVC-1 è un film eccezionale perché assottiglia come nessun altro aveva mai fatto la linea di demarcazione fra ciò che appare reale e ciò che non lo è. Merito del piano sequenza (non ricordo dove ho letto che è la tecnica registica più vicina alla vita. Vero. Ma qui lo è molto di più alla morte) che costituisce tutta la pellicola: dall’inizio alla fine. Come Sokurov e se volete anche Hitchcock, Stathoulopoulos pone la propria cinepresa come sguardo unilaterale, esclusiva fonte di conoscenza possibile. Non esiste il montaggio o altri artifizi, è come essere realmente lì, dentro la fattoria colombiana in cui la percezione della sofferenza di quella mamma-bomba è a prova di tatto (si sente un fastidio intorno al collo durante la proiezione), di vista (non essendoci campi/controcampi tutto si allontana o si avvicina a seconda della mdp), di udito (i bip-bip dell’ ordigno strozzano il fiato), di gusto (il metallo della pistola puntata nella bocca del figlioletto), di olfatto (non ho la più pallida idea di che odore abbia una bomba ma quando l’artificiere si è messo ad annusare il collare io HO sentito)


...Quello di Stathoulopoulos è uno sguardo registico che non risulta mai, in nessun passaggio, confusionario, benché sarebbe stato in caso contrario giustificato molto più di quello di coloro i quali con milioni di dollari girano thriller affetti da convulsioni, cosa che il regista non fa neanche per sbaglio. E non solo. Opta nel mentre per soluzioni tecniche capaci in parte di rendere più reale e credibile il racconto e in parte di spezzare un linguaggio registico che senza quelle soluzioni avrebbe potuto facilmente stancare lo spettatore: allontana la telecamera scegliendo traiettorie diverse da quelle dei protagonisti, senza però mai perderli di vista; li separa per brevissime parentesi durante la fuga, sì da concentrarsi su uno dei personaggi e lasciare gli altri fuori dall'inquadratura, contrastando la perenne presenza dei tre; sfrutta efficacemente il fuoricampo, tanto che da obbligato diviene funzionale; gestisce, infine, periodi, che periodi non sono considerata la struttura, senza che si percepisca alcuna incongruenza nella continuità della narrazione…

The originality of the idea and style transform the event into a genuine thriller. The panic- stricken family contacts the local military authorities and makes an appointment to meet the unit that might dismantle the PVC tube device from the mother's neck at the crossroads. They are not sure if it is a real bomb or a sick joke.

The use of real time and the camera's movement like the human eye as if turning our heads from one point to another, as if changing positions, creates a psychological effect. We feel as nervous as a person on location. Time passes, it gets darker and we get impatient.

P.V.C.-1 succeeds in creating the suspense that most thrillers, horror and action films fail to. It heartily involves us…

En la Ópera - Juan Pablo Zaramella

Maestro - Geza M. Toth

venerdì 6 aprile 2012

Sa Gràscia - Bonifacio Angius

dopo pensi che è tutto un sogno, che non se ne capisce niente, che è un flusso di immagini e parole sconosciute, che la musica è bellissima, e le fotografia pure, che Antoneddu non sa dove va, che non è proprio un film lineare, qualsiasi cosa pensi dopo, non ti sarai pentito di averlo visto - Ismaele


PS: il regista ha 29 anni, in un paese nel quale a 40-50 anni si è un giovane regista





Sa Gràscia, la grazia. Di Sant’Antonio al piccolo Antoneddu. Sì, ma a ben vedere la vera grazia l’ha fatta Bonifacio Angius al cinema italiano. Perché il suo primo lungometraggio è un perla, o forse sarebbe meglio dire una biglia, unica e rara, lucente e magica, che apre una breccia di novità nel velo di Maya del cinema made in Italy da sempre ancorato a pellicole da “pranzo della domenica”, domestiche, tutte casa e chiesa. Angius ci porta in una terra di mezzo sconosciuta, mai vista, en plain air, in un mondo (non) parallelo, sulle tracce di un road movie spirituale,sui generis, che affascina e cattura. SaGràscia è segno di un cinema indipendente coraggioso, che si autoproduce con il bassissimo budget di 15 mila euro e diventa grande grazie a idee vere, belle, fuori dal coro...


...Insomma, SaGràscia è un piccolo grande film da non perdere, che avvolge, scalda e conduce in un mondo da fiaba senza via d’uscita. E poco importa se, giunti ai titoli di coda, sentiamo di non aver compreso ogni sua sfaccettatura o ogni sua battuta. E’ il potere del cinema: non solo narrare, ma anche condurre in mondi non convenzionali. Ma in fin dei conti, la totale non comprensione delle cose è tipica di ogni sa gràscia ricevuta. Proprio come questa di Antoneddu e Bonifacio.
da qui


Esordio folgorante (e immaginativo) quello di Bonifacio Angius, viaggiatore incantato come il suo piccolo protagonista, errante tra le pieghe di un'isola. Chi conosce la Sardegna forse non la ritroverà nei luoghi del film di Angius e chi vorrà conoscerla usandolo come guida probabilmente quei posti non li troverà mai, perché Sagrascia coglie quella terra in uno stato di sospensione. La Sardegna in Sa grascia è un posto addormentato, un paese delle meraviglie frequentato da creature altrettanto meravigliose. Bambini, giganti, pastorelle, nonne, piloti, vagabondi, musici, cani, mucche, automobili, biglie popolano il cinema di Angius, un cinema naturale e innocente che sogna immagini vergini e assomiglia più al ritmo di una musica (le vivissime note di Carlo Doneddu) che ai passi di una spiegazione…

«Sa Grascia» è un surreale “road movie” costruito intorno alla figura di un bambino che attraversa le campagne bruciate dal sole, quelle riconoscibili e tipiche dell’isola in estate, per raggiungere il santuario di sant’Antonio e ringraziarlo di avergli salvato la vita (sa grascia). «In questo film – parole del regista – ci sono la gioia e la malinconia, la vita e la morte, i sogni lontani di personaggi abbandonati in un mondo incomprensibile, confuso e contraddittorio, ma nello stesso tempo chiaro, lucido, un mondo dove non c’è bisogno di spiegazioni, dove tutto accade naturalmente tramite un destino crudele e consolatore, cinico e commiserevole, un mondo dove si mescola sogno e realtà senza mostrarne la linea di confine»…

giovedì 5 aprile 2012

Emilie Muller - Yvon Marciano

esisteva una versione sottotitolata in italiano, su youtube, ora non c'è più.
si provi in francese, è un piccolo capolavoro - Ismaele



mercoledì 4 aprile 2012

Shutter Island - Martin Scorsese

non è il miglior film di Scorsese, ma avercene film di secondo piano di questo livello!
non sarà perfetto, magari prevedibile, ma grandi attori e una storia avvincente rendono "Shutter Island" un film che merita di essere visto senza dubbio - Ismaele



...In "Shutter Island" il volto del Cristo sofferente appare per qualche secondo in forma di tatuaggio sulla schiena di un attore, a segnalare, forse, il legame profondo che credo leghi “Shutter Island” al film a lui più simile (a livello di atmosfere e suggestioni) tra quelli del Martin Scorsese degli ultimi 20 anni: quel “Cape Fear” in qualche modo figlio degli stessi padri di celluloide. Cinema maiuscolo e potente, di cupa e feroce bellezza.
da qui


“Shutter Island” è una pellicola intricata, (troppo) lunga e a tratti persino claustrofobica. Scorsese – “servendosi” dell’ormai amico Di Caprio – mescola noir, mistero, un pizzico di horror e tanto thriller psicologico. Nonostante delle ottime premesse, però, e una storia assai interessante e indovinata il risultato finale del film non si può dire nel suo complesso eccellente.
Se da una parte, infatti, “Shutter Island” è impeccabile dal lato tecnico, dall’altra risulta fin troppo arzigogolato e confuso al punto da sfiancare persino lo spettatore più attento e interessato. La sensazione è quella che si sia voluto mettere in un certo senso “troppo”, che insomma si sia voluto strafare. Un buon film sì, ma non fra gli imperdibili.


…Il regista italo-americano poteva sicuramente osare di più, perché a voler scavare nella sceneggiatura i temi scorsesiani emergono: il senso di colpa, la labile scissione tra sanità e follia, il mostro e l'uomo che lottano dentro ciascuno di noi, ma sono tematiche tenute troppo in sottotraccia, che assumono vero senso solo alla fine, dopo l'ultima significativa battuta di Teddy/DiCaprio.
Stavolta è probabile che a Scorsese interessasse maggiormente il gioco con lo spettatore, introdotto sin all'inizio con la citazione di "Shining", con quel dolly che scendendo vertiginosamente sulla vettura diretta al complesso ospedaliero ci dà il benvenuto a Shutter Island.
E il suo è anche un rinnovato invito all'overlook, a ri-guardare e al guardare (da) sopra: l'isola non è solo il luogo fisico dove si svolge l'azione, ma anche il tortuoso spazio mentale, pieno di cunicoli e gallerie nascoste, che cela terribili rimossi.

…Scorsese invece sin dai primi minuti svela l’arcano, o almeno lo suggerisce, spiazza lo spettatore fornendogli tutti gli indizi del caso, destruttura volontariamente il genere anche per la  necessità di adattarlo al suo stile, snocciolando con nochalance indizi mai veramente fuorvianti lungo il percorso, invitando lo spettatore a metabolizzarli uno dopo l’altro senza cervellotici cambi di fronte, trasformandoli  in una lenta e inesorabile discesa in una mente allucinata e in un gioco delle parti che, anche se sfacciatamente prevedibile, non manca di un certo fascino.
Il difetto del film, se proprio di difetto vogliamo parlare, e proprio questo voler svelare troppo, questo scardinare, se non ignorare alcuni meccanismi classici del genere, scelta che non sempre paga, così c’è un fastidioso e non richiesto surplus di informazioni nella prima parte con suggestivi, ma invasivi flashback/allucinazioni che ci raccontano molto, forse troppo, del protagonista, per poi calarci in un ottima seconda parte immersa nella follia e nel caos post-uragano che però perde inevitabilmente molta della sua forza proprio perchè ormai c’è ben poco da scoprire e da svelare.
Shutter Island si pone sicuramente tra i lavori meno riusciti di Scorsese, ma nonostante i palesi difetti e alcune ingenuità in qualche modo cercate e volute in fase di scrittura, ha il pregio di regalarci un prova altalenante, ma tutto sommato efficace di un DiCaprio alle prese con una schizofrenica performance non priva di rischi, e ben 138 minuti di film che alla fine scorrono via senza grossi intoppi, il che non ci sembra pregio da sottovalutare.

Shutter Island porta a compimento un discorso che Scorsese pare condurre da quando il suo cinema si è fatto più ampio, più accademico: l'incapacità di raccontare un mondo dove non domina solo la violenza, ma soprattutto la dissimulazione, di immaginare qualcosa di nuovo laddove tutto appare una ripetizione, un rifacimento. In fondo alla sua scala a chiocciola fatta di mistero e di suspense,Shutter Island pare raccontare proprio questo: nell'era contemporanea, il sonno della ragione non genera più mostri, ma fantasmi, doppi, simulacri di qualcosa che è già stato visto o vissuto.

Una rappresentazione così espressiva della follia e dell'ambiguità non potrebbe avere luogo, ad ogni modo, senza il lavoro di prima mano del cast attoriale, davvero notevole. Vorremmo in primo luogo rendere onore non solo agli attori protagonisti (sui quali torneremo immantinente) quanto sulle figure relativamente secondarie: le interpretazioni di Max von Sydow,Michelle Williams, Elias Koteas eJackie Earle Haley, ad esempio, sono azzeccatissime, ma il plauso va al cast nel suo complesso, uno dei più espressivi mai visto.
Venendo ai protagonisti, sicuramente ottime le prove di Mark Ruffalo nei panni dell'agente “buono” del duo investigativo, e di Emily Mortimer in quelle della astrusa Rachel; ma sono l'intensità e il rigore offerte da Di Caprio e Kingsley a firmare un ottimo biglietto di presentazione per qualunque premio degno di questo nome a cui questo film voglia candidarsi. 
Sir Kingsley è sfuggente, beffardo, al contempo sospetto e rassicurante; sempre avvolto in una nuvola di fumo, vera o metaforica che sia

Shutter Island” rimane un film bellissimo, elegante, labirintico ed ipnotico, dominato da un Di Caprio in uno stato oltre la grazia  che delinea un personaggio magnificamente ambiguo ed oscuro di cui non si sa se fidarsi o meno, soprattutto alla fine.
Scorsese, al quale si muovono  da tempo accuse di “normalizzazione,” crea un film che sconta una dozzina di tributi al cinema classico e, al pari dei grandi maestri, usa lo strumentario come un grimaldello eversivo per aprirci  la strada  tra “scale a chiocciola” e “corridoi della paura”, verso una  indagine sulla follia collettiva, sulla finzione, sulla violenza che lega le vicende umane più di quanto saremo disposti a concedere. Scorsese  racconta in “Shutter Island” la debolezza umana e la necessità della fuga dal dolore…

Shutter Island è 'semplicemente' un film bruttino e poco efficace, che nella carriera di Scorsese (anche per merito del suo curriculum straordinario) certo non verrà inserito tra i capolavori. Il punto vero è che si ha l'impressione di aver già visto una storia del genere raccontata altre mille volte…

Sebbene gli indizi per comprendere la trama vengano lanciati già nella prima parte del film, il finale resta una sorpresa e tutti i nodi vengono al pettine solo alla fine. Niente è come realmente appare e, accompagnato anche da musiche si adattano perfettamente all’atmosfera, lo spettatore si immedesima nel senso di confusione del protagonista e aspetta di sapere, fino all’ultimo, quale sia davvero la verità. Scorsese tratta dei temi molto importanti, il male che l’uomo ha fatto, l’incapacità di redimersi, e sa come far nascere nello spettatore la sensazione di dolore, confusione, ansia, vissuta dai personaggi, seppure le scene non siano da considerarsi totalmente perfette. Eccellente l’interpretazione di un troppo spesso sottovalutato Leonardo Di Caprio, che si ritrova adesso in un ruolo piuttosto difficile, in cui deve esprimere diverse sfumature, soprattutto psicologiche, del suo personaggio. Un thriller psicologico ben riuscito, anche se di Martin Scorsese ricordiamo molti altri capolavori. Alla fine del film rimane comunque il dubbio che si protrae per tutti i suoi 148 minuti di durata: cosa è vero e cosa non lo è? Una volta usciti dalla sala, continuerete a ripensare a qualche dettaglio, cercando di aggiungere quei pezzi che Scorsese lascia in sospeso. Il film è sicuramente capace di coinvolgere e anche di stupire, confuso al punto giusto, senza l’aggiunta di elementi eccessivi che facciano perdere l’orientamento allo spettatore.