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domenica 20 aprile 2025

Lavoro a mano armata (Dérapages) - Ziad Doueiri

Tratto da un romanzo di Pierre Lemaitre, diretto da Ziad Doueiri (regista de L'insulto e L'attentato), protagonista è Eric Cantona, circondato da tanti bravissimi attori e attrici.

Alain (che nel doppiaggio viene pronunciato da schifo, a Netflix sono ignorantissimi!), interpretato da Eric Cantona, è un disoccupato della felice età capitalista neoliberista, nella quale chi lavora ci mette un minuto (a volte meno) per diventare uno scarto umano.

I capitalisti sono descritti come sono nella realtà, vampiri assetati di licenziamenti e di soldi.

Alain vuole ritrovare una dignità che gli hanno tolto, accetta un lavoro pericoloso, mettere su un sequestro come ultimo rimedio di selezione del personale,  per riuscire a essere riamato e rispettato di nuovo in famiglia, e decide di rubare ai capitalisti, con l'aiuto di un amico hacker (Gustave Kervern), rubare ai ladri non è un peccato, pensa.

Una serie breve, si vede come un film lungo, non delude.

Buona convincente visione - Ismaele

 

 

 

L'Eric Cantona che troviamo a recitare in questa serie tv è esattamente quanto ci si possa aspettare: in grado di accentrare l'attenzione su di sé, ma anche di apparire naturale e di mostrare eccellente capacità di immedesimazione. Non si può certo dire che la vita di Alain Delambre possa essere simile a quella dell'ex star calcistica, ma il marsigliese di origine italo-spagnola rende benissimo nel ruolo dell'uomo di mezza età devastato dalla disoccupazione e dall'incapacità di trovare sbocchi. A livello caratteriale invece Delambre diventa abbastanza affine a Cantona, che deve riportare un personaggio tendente all'irascibilità e di estrema passionalità: e Cantona convince molto, anche nelle parti riflessive, dimostrando (ma ormai confermando) di essere ben più di una star sportiva prestata alla recitazione, ma di essere un attore a tutto tondo….

da qui

 

Il titolo originale della trasposizione è Dérapages, slittamenti, sbandate: e Alain scivola progressivamente, nei sei episodi della miniserie, ai margini (e oltre) di una società dove tutto, dai luoghi istituzionali alle relazioni interpersonali, sembra dominato da quel «modello aziendale» iper-competitivo per cui «chi cerca lavoro è in guerra».

Ma è anche uno slittamento morale, perché lo stesso Alain, che ci narra a posteriori la sua vicenda da una cella di prigione, è il primo a dover fare sua la legge marziale non scritta che regola (ormai) i rapporti sociali: e la sua lotta per riconquistare una vita dignitosa si confonde allora col desiderio di rivalsa verso quel sistema e col rischio di diventarne lui stesso un perfetto esemplare...

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…Lavoro a mano armata risulta solido ed efficace, nella sua trattazione del capitalismo immorale, disumano e avido, che mantiene la povertà per arricchire i benestanti. Ma la buona riuscita dell’opera è data anche da altri due elementi, legati a doppio filo tra loro. Questo tipo di prodotti si focalizza normalmente solo su un aspetto del racconto, omettendo o elidendo il prima e il dopo. Lavoro a mano armata, invece, offre una visione completa e onnicomprensiva non solo sul sequestro ma anche sulla vita in carcere e sulle conseguenze economiche ed esistenziali di ciascun carattere in gioco…

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“Lavoro a mano armata” potrebbe sembrare estremo, strabordante, eccessivo. A ben pensare però riesce perfettamente nell’intento di rappresentare con ardimento e onestà l’immorale avidità del sistema economico che governa le nostre vite. La serie non si limita a raccontare l’umiliazione dovuta alla perdita del lavoro, né vuole concentrarsi sulla furiosa ribellione di un uomo ferito. Si spinge oltre, narrandoci le conseguenze, materiali e esistenziali, subite da ogni singolo attore in gioco. Ci si aspetterebbe ragionevolmente un malinconico finale, una qualche resa, un’ammissione di colpa? La sceneggiatura sceglie di invertire nuovamente la rotta, spazzare via ciò che restava del dramma sociale, per cedere nuovamente il passo ad un ritmo carico di tensione.  Un finale narrativamente accattivante, che non teme di svilire l’autenticità della critica sociale che la serie avanza.

Si inizia alla Ken Loach e si finisce alla Tarantino. Tutto ha inizio da un realismo sociale così ben fotografato da risultare violento. Si continua con un pathos crescente, iperbolico. Si conclude, o si ricomincia, là dove non ci aspetteremmo, o forse dove non vorremmo. Come in ogni storia in-credibile che si rispetti.

Una narrazione che si insinua nelle nostre menti, sgomita tra altre frivole visioni e resta lì, ad occupare il posto conquistato, domandandoci: assecondare un sistema disumano, magari illudendoci di giocare semplicemente la nostra personale partita, non ci rende forse altrettanto disumani?

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venerdì 12 maggio 2023

Saint Amour - Benoît Delépine, Gustave Kervern

Benoît Delépine e Gustave Kervern (che fa anche l'attore) sono fatti così, il loro cinema è diverso, e meno male, se no che noia.

è un film d'avventura nello spazio, nel tempo e nell'anima, il figlio non è come il padre avrebbe voluto, il figlio non sa cosa vuole, ma sa che non vuole essere come il padre.

e poi appare la Venere e tutti, padre, figlio e tassista sono presi nella sua tela, lei come un maga che arriva dall'Odissea e cambia tutto.

guardatelo e godetene tutti, Benoît Delépine e Gustave Kervern non deludono.

buona (taurina) visione - Ismaele


 

 

 

Un viaggio, un po' vero un po' simbolico, di due contadini, padre e figlio, orfani di madre e consorte, in un mondo alieno. Parabola amara sulle stagioni della vita, sul declino dei vecchi mestieri e sul senso di disorientamento maschile di fronte al cambio dei costumi femminili. Road movie fisico e mentale nella Francia profonda, con un andamento ondeggiante come un'ubriacatura e trafelato come una corsa in taxi, che svela, nella forma disinibita della commedia francese, le bizzarrie della vita moderna. Frastornato.

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…Con grande sensibilità e una tenerezza disarmante nei momenti giusti, Delépine e Kervern (quest'ultimo anche attore in una parte minore ma spassosa) ci fanno esplorare svariate regioni transalpine alla ricerca dell'amore e dell'unione famigliare. Con risultati forse non sorprendenti, ma dalla grande qualità puramente umana (anche se il finale rischia di andare di traverso a chi difende a tutti i costi i valori tradizionali).

Per portare a buon termine l'operazione i registi hanno ritrovato - e per la prima volta unito sullo schermo - i loro due attori-feticcioGérard Depardieu (Mammuth) e Benoît Poelvoorde (Louise-MichelLe grand soir), affidando a Vincent Lacoste (Eden) il ruolo dell'alter ego della nuova generazione. Il terzetto funziona a meraviglia, ed è obbligatorio menzionare l'esilarante cameo di Michel Houellebecq, nonché la partecipazione in campo femminile di Céline Sallette, ma è soprattutto l'alchimia fra Depardieu e Poelvoorde, due giganti diversi e complementari, a determinare l'esito più che positivo di questa odissea disfunzionale, franco-belga e al contempo universale, parto creativo di due voci fuori dal coro che, in un'epoca in cui la commedia francese a livello qualitativo medio non si discosta più di tanto dall'omologo italiano, sono assolutamente essenziali per ricordarci quanto i cugini d'oltralpe siano ancora in grado di farci ridere, piangere, pensare ed emozionare. Il che ci lascia con un grande interrogativo, soprattutto alla luce della qualità complessiva del concorso berlinese di quest'anno: per quale motivo un gioiello simile era fuori gara?

da qui

 


lunedì 19 ottobre 2020

Imprevisti Digitali - Benoît Delépine, Gustave Kervern

c'è tutto il cinema di Benoît Delépine e Gustave Kervern in Imprevisti Digitali.

eroi semplici, in odore di fallimento, gente a cui la vita ha preso di più di quanto abbia dato loro, in lotta contro mulini a vento e nemici irraggiungibili, troppo potenti e furbi.

è anche un film in cui si ride, sopratutto di se stessi, Benoît Delépine e Gustave Kervern sono fra i pochi che ti dicono che sei un deficiente e tu ridi.

Gustave Kervern appare per tre secondi, a voi trovare quando.

un film da non perdere, per i miei gusti, da godere tutto, minuto per minuto - Ismaele


 

 

 

…Se chi legge conosce la serie Black Mirror sa che in quella sede si è preso in considerazione il presente e si è andati un passo in là. A Delèpine e Kerven questo non è necessario: gli basta guardarsi intorno nell'attualità già più sufficientemente assuefatta e seguire con affetto i loro personaggi per farci ridere. Talvolta di loro ma spesso anche di noi stessi rendendoci con quel riso un pochino più consapevoli di vivere in un davvero pazzo mondo.

da qui

 

Maria dal suo cucinotto incrocia il cameo di un affezionato attore della ditta Delepin/Kervern, il comico Benoit Poelvoorde, qui in veste di un tragicomico, sfruttatissimo, corriere “Aliamazon” (in questi due minuti c’è tutto il terrificante significato del “lavoro dipendente” nell’evo neoliberista, chapeau); la confessione in automobile di Christine sulla sua dipendenza alle serie ha una tempistica comica da ribaltarsi sulla sedia; Bertrand, nel suo fitto dialogare con la voce di donna al telefono fornisce un aggiornamento dell’uso di liquido seminale da Tutti pazzi per Mary.

Imprevisti digitali è così una lama tagliente, irridente e politica sulle sovrastrutture che governano inconsciamente il nostro comune agire, ed ha dalla sua anche una certo ruvido, dignitoso, verace legame affettivo con i personaggi che mette in scena. La regia, a livello stilistico, infine, non disdegna la porosità dei nuovi mezzi digitali (la videocamera di telefonini, ad esempio) per sintetizzare sguardo generale degli autori e lo specifico dei protagonisti…

da qui

 

Imprevisti digitali è una commedia estremamente godibile e simpatica, che farà molto sorridere specialmente gli appassionati di televisione. Quando Christine racconta a Bertrand le motivazioni per cui ha dovuto cambiare lavoro, sarà impossibile non ritrovarsi nel suo racconto. Per lo meno quando anche noi abbiamo quei momenti in cui guardiamo una serie TV dall’inizio alla fine senza staccare gli occhi dal dispositivo.

L’opera di Benoît Delépine e Gustave Kervern rispecchia quelle che sono le paure, e forse l’incapacità, del pubblico nel gestire e affrontare la tecnologia. Vedere sul grande schermo gli errori che vengono fatti specialmente dai nostri genitori, oppure dai ragazzini più piccoli, spinge a riflettere sull’uso di Internet. I dispositivi elettronici, i social media e Internet vengono quasi demonizzati, ma in chiave molto ironica e con leggerezza; sono quegli strumenti che ci fanno fare le scelte sbagliate o che ci mettono in difficoltà.

Vale la pena riflettere sulla chiave di lettura del mondo digitale: cosa vogliamo portarne a casa? È meglio staccare la spina a tutto o imparare piuttosto ad usare il digitale al meglio, evitando se possibile di cadere in trappole come offerte telefoniche o e-mail spam?

Sta allo spettatore la scelta finale, facendosi nel frattempo due risate dolceamare, seguendo il viaggio dei tre francesi alla riscossa di Internet.

da qui



giovedì 1 settembre 2016

La grande sera - Benoît Delépine et Gustave Kervern

una storia di gente ai margini, Not (Benoît Poelvoorde) e Dead (Albert Dupontel), e i loro genitori.
Not è un vecchio punk con cane, Dead è il fratello che non ce la fa più a fare il venditore e molla tutto e si unisce al fratello.
i due fratelli vorrebbero cambiare il mondo, ma non li considera nessuno, il mondo non va bene, ma la gente è affezionata al vecchio mondo (o schiava delle abitudini), o loro due sono poco convincenti, chissà.
il film è ambientato tutto intorno a un centro commerciale, un non luogo, il nuovo mondo.
si ride spesso, ma non è un film comico, anzi.
buona visione - Ismaele






La Grande Sera è il “mito poetico” di una società migliore scaturita dall’atto di ribellione allo status quo, è un’idea di matrice anarchica e marxista dove il cambiamento radicale può debellare il vecchio sistema favorendo l’instaurarsi di un nuovo corso. La ‘Grande Sera’ chiama a raccolta gli animi oppressi da una condizione sociale insopportabile, offrendosi come momento ideale per ritrovarsi e organizzare la rottura degli schemi con un cambiamento rivoluzionario guidato dalla speranza che un mondo nuovo possa essere generato. Nel loro piccolo Not e Dead riprendono questo principio cospirativo per pianificare una rivoluzione, sfortunatamente senza proseliti.
Not è un personaggio profetico nella sua marginalità sociale, quando fa la sua apparizione in scena sembra poco più di un adolescente mal cresciuto. Jean Pierre, invece, vuole fare parte della società a tutti i costi, anche rimettendoci la salute. È la crisi di Jean Pierre a donare nuova luce e importanza a Not, la cui ambizione di vita per strada in un rapporto dissociato con la società lo ha identificato fino a quel momento come lo stolto del villaggio deriso e ghettizzato. Ma come ogni stolto che si rispetti, Not ha un messaggio da consegnare, la sua andatura oltre i confini tracciati dal sistema lo segnala come portatore di un’idea nuova, forse troppo avanguardista per essere accettata e compresa dai suoi simili assuefatti. Quando Jean Pierre perde tutto, anche la sua dignità, è pronto a rinascere come ‘Dead’ sotto l’ala protettrice di Not, il quale lo inizierà a una nuova vita dove ciò che conta è andare avanti, camminare con la mente libera…

… Le grand soir muove i propri personaggi in un ambiente chiuso, dai contorni quasi paradossali, accumulando gag riuscite e imprevedibili snodi narrativi. Ma anche l’indiano, il cowboy e il cavallo di Kervern e Delépine alla lunga assomigliano a soldatini di plastica. Non mancano, come detto, sequenze fulminanti: Not che si prende gioco delle telecamere a circuito chiuso; il ballo di Not di fronte alla vetrata de ristorante e il controcampo degli allibiti avventori; la comparsata di Gérard Depardieu; Not e Jean-Pierre alla ricerca di un lavoro, con il curriculum fradicio.

 Le film manque cruellement de rythme. Les entrelacs entre la fiction et une certaine réalité fatiguent tant les réalisateurs ne se renouvellent pas et semblent ne pas parvenir à nourrir leur cinéma de film en film. Si Benoît Poelvoorde et Albert Dupontel performent plus qu’ils ne jouent, cela ne suffit guère à nous emporter dans une aventure qui s’avère bien tortueuse pour pas grand chose…

…Delépine et Kervern, comme leurs personnages, invitent à la révolution ou au foutage de merde, prônent la liberté individuelle et le non-respect de l’ordre établi, mais leur nihilisme semble les pousser à ne pas se laisser bercer d’illusions. Que l’on fasse semblant d'être heureux en consommant ce que la publicité nous vend comme étant indispensable, ou que l’on s’imagine libre en se tatouant DEAD sur le front et en n’obéissant à personne, tout mène peut-être finalement au même point : nulle part. C'est ce terrible constat, au delà même de sa puissance comique, qui fait la force du film. 
Reste à savoir si c'était vraiment son intention!

Dopo l'impatto e la sorpresa iniziale però, la sceneggiatura comincia un po' a soffrire la scarsa sostanza, visto che a parte una critica (peraltro chiara fin dalle prime scene) abbastanza superficiale al consumismo, non sembra avere molto da offrire, ma anzi risentire dell'assenza di un climax degno delle premesse. Nonostante anche un simpatico cameo di Gerard Depardieu, i pochi personaggi secondari non riescono mai ad incidere ed è così che i due attori si trovano lasciati soli a reggere l'intero film con trovate che diventano, col passare dei minuti, sempre meno efficaci. Resta comunque una pellicola che merita di essere vista da chiunque voglia farsi qualche sana risata, ma che con un maggiore equilibrio e qualche idea avrebbe potuto essere anche un buon film. Peccato.

…Tant par son propos (tirer à boulets rouges sur le système des zones artisanales et des centres commerciaux) que par sa facture formelle (casting de stars en roue-libre et esthétique réaliste), "Le Grand Soir" semble s’inscrire dans la veine des deux précédents films du duo. Mais sans doute phagocyté par l’énergie communicative de ses incroyables acteurs principaux, le film ne dépasse jamais le stade de la « simple » comédie déjantée et paresseuse, n’ayant ni l’agressivité salutaire de "Louise-Michel", ni la stricte beauté picturale et narrative de l’extraordinaire "Mammuth"…