giovedì 30 agosto 2018

La Moustache (L'amore sospetto) - Emmanuel Carrère

quando il libro è straordinario, il film gli sta dietro, anche se scrittore e regista coincidono, è Emmanuel Carrère.
il film non è male, ma solo se sarà servito a farvi leggere il romanzo, Baffi è il titolo.
i due protagonisti sono bravissimi, Vincent Lindon di più.
allora, l'accordo è questo: guardate il film, ma subito dopo passate al libro.
e poi mi direte - Ismaele



Il film s’inscrive nel filone, ormai caro al giovane cinema francese, del reale attraversato dalla fantascienza, in cui i caratteri della vita quotidiana si mescolano ad elementi soprannaturali percepiti, però, come naturali. Un uomo si taglia i baffi che ha da una vita, ma nessuno sembra accorgersene. Se fossimo in un film dei fratelli Wachowski ci ritroveremo a pensare a realtà parallele e a mondi manipolati. Ma siamo in un film francese del 2006 e l’oggetto d’interesse rimane l’uomo e, qui, il suo rapporto con l’altro: la coppia. La moustache procede, quasi antropologicamente, ad insinuare i dubbi più tormentosi nella mente di Marc che resta l’unico e indiscutibile personaggio preso in esame. Tutto il film si svolge dal suo punto di vista: i gesti, le parole, le situazioni e gli sguardi ci fanno comprendere, o tentano di riuscirvi, cosa stia passando nella testa di Marc. “Abbiamo adottato una regola semplice” dice il regista “non vedere nulla di ciò che lui non vede, non ascoltare nulla di ciò che non sente”.
E, forse, in questo sottintendere i labirinti mentali di Marc, il film manca di chiarezza. Se nel romanzo di Carrère il lettore è guidato a condurre un percorso parallelo a quello del protagonista, crogiolandosi nei suoi stessi dubbi, accusando le stesse persone, esaltandosi per ogni nuova sua supposizione (e questa era la forza del testo), nel film lo spettatore assiste ad una sequenza di capitoli auto-conclusi in cui i personaggi mancano dello spessore psicologico di cui questo lungometraggio si vorrebbe, invece, far portavoce.

Il primo film del regista francese mira molto in alto, aspira a uno stile irreale, quasi Pirandelliano, e lo fa in modo non troppo singolare. I movimenti di macchina lineari non sono altrettanto chiarificatori dei contenuti che la vicenda racconta e non fanno altro che mostrare alcune incrinature nella sceneggiatura, tanto attraente ed eccitante all’inizio quanto a rischio “masturbatorio” da metà in poi. 
E’ vero che veniamo trainati dall’atmosfera misteriosa voluta da Carrère, che siamo disorientati al pari di Marc e in soggezione grazie anche alle musiche azzeccate di Philip Glass ma il risultato è troppo oscillante tra realtà e immaginazione; si sarebbe potuto scrivere e rappresentare di tutto e questo, a mio giudizio, è un limite non trascurabile. Nessun azzardo nel compararlo a “Mulholland Drive”, per esempio.
Quella di Carrère rimane un’idea di cinema che va premiata per i suoi toni volutamente sfumati e per il suo incoraggiarci a ragionare su un qualche cosa di vago e indefinito ma il tutto è estremamente incorporeo, filosofico e si perde l’interesse nel cercare di renderlo in qualche modo decifrabile.
Di indubitabile certezza rimane l’eccellente interpretazione di Vincent Lindon, il cui volto “normale” e allo stesso tempo volubile, agitato e stupito ben trasmette un senso di affanno e oppressione.

Tralasciando il fatto che il titolo in italiano sia ridicolo (ma non è la prima né sarà l'ultima volta, purtroppo), non ho affatto disprezzato questo film, anche se nella seconda parte mostra un po' troppo la corda e fa la fine del cane si morde la coda. Ma la prima parte è veramente bella, con Vincent Lindon (ottima interpretazione) convincente nel suo smarrimento iniziale e la sua progressiva discesa nella paranoia più completa. Veramente bravo.

Quando Marc decide di tagliarsi i baffi che porta da anni nessuno sembra accorgersene, anzi, sia la moglie che gli amici continuano a ripetergli che in realtà non li ha mai avuti. A questo punto le certezze della sua vita cominceranno a vacillare.
Un thriller drammatico teso e inusuale tratto da un romanzo scritto dallo stesso regista. Il disorientamento provato dal protagonista viene trasferito direttamente sullo spettatore, che alla fine finisce per sentirsi altrettanto confuso. La pellicola è ben diretta e soprattutto ben recitata. Il difetto (o il pregio) è che non viene data nessuna risposta, nessuna spiegazione chiara, tranne qualche indizio sparso che in fin dei conti non fa che alimentare ulteriore confusione (la cartolina, le foto di Bali, l'aneddoto dei termosifoni...)

martedì 28 agosto 2018

7 vírgenes - Alberto Rodríguez

Tano ha 16 anni, sta in riformatorio, esce due giorni per il matrimonio del fratello, ritrova lo stesso mondo di prima, ancora peggio.
rivede gli amici, e la rovina è dietro l'angolo.
la fine è forse un omaggio, mutatis mutandis, a I 400 colpi di Truffaut.
opera prima di Alberto Rodríguez, già un piccolo grande film.
non perdetevelo - Ismaele



Estate in un quartiere popolare di una calda città del sud. Tano, sedici anni, sta scontando una pena in un riformatorio, ma riceve un permesso di 48 ore per assistere al matrimonio del fratello. Il ragazzo ritrova il suo migliore amico Richi e decide di vivere appieno le sue ore di libertà facendo tutto ciò che nel centro è proibito fare: beve, si droga, ruba, ama... fondamentalmente, vive la vita. Ma comprende che le cose non sono più come prima: il quartiere, la famiglia, l'amore, l'amicizia, tutto è cambiato.

“7 Vírgenes” no sólo es una historia bien contada de personajes marginales ficticios, sino el fiel reflejo de una parte integrante de nuestra sociedad con la que estamos en continuo conflicto y que no podemos seguir obviando. A mi parecer, hacía tiempo que venía haciendo falta una película como ésta. Lejos de intentar otorgarle una responsabilidad que seguro escapa a sus pretensiones originales, y sin menoscabo de la forma, el contenido de crítica social que deja entrever esta obra es intenso y palpable.
Yo destacaría su verosimilitud, realista hasta el extremo, y la profunda humanidad de sus personajes. Los diálogos, auténticos -fruto de una atenta observación del modo de hablar de nuestros jóvenes -. Se llega a sentir cierta simpatía por los protagonistas, a pesar de que éstos vivan al margen de la ley y causen daño a la comunidad. Todos nos hemos encontrado alguna vez con un “Tano” o un “Richi” (y se produce en muchos casos un “choque” nada agradable). Imbuidos en circunstancias poco favorables, con carencias afectivas, sin motivaciones y por tanto con un futuro nada alentador, encuentran en la embriaguez de las drogas y en el ejercicio de la violencia un lugar que ocupar en el mundo y una manera de posicionarse ante la vida, realidad hostil, convirtiéndose al mismo tiempo en víctimas y verdugos. Y esto es algo que la película transmite bastante bien. Cae la historia, sin embargo, en el Determinismo Naturalista de personajes abocados a un fatal destino; este reproche es menor, pues entiendo que el desenlace se ha resuelto así como golpe de efecto dramático (siempre eficiente) y como llamamiento soterrado a la reflexión (de agradecer)…

domenica 26 agosto 2018

The gambler (40.000 dollari per non morire) - Karel Reisz

un James Caan straordinario, in un film di serie A, con un titolo italiano di serie Z.
il giocatore, che ama il rischio, a ogni costo, preda del demone del gioco.
naturalmente perdere è più facile che vincere, ma a lui non importa.
il personaggio ha una sua disperata grandezza, in una storia nella quale resti intrappolato, non vorresti che finisse mai.
non perdete questo gioiellino - Ismaele



Ottimo, straziante, tesissimo spaccato sull'autodistruzione di un uomo logorato dalla febbre del gioco d'azzardo. 
Vero ed accurato, per tutta la visione lo spettatore assiste impotente (e con un ansia man mano sempre più marcata) al continuo precipitare, in un tunnel senza vie d'uscita, di questo professore di letteratura incapace di gestire la sua "malattia" anche quando avrebbe tutti i mezzi per farlo. 
Il banco alla fine vince sempre: regola semplice da ricordare ma difficile da applicare. Non importa se vinco o perdo, non importa se il mio vizio distrugge me e tutte le persone che mi amano e che mi stanno attorno; lo so che sto sbagliando, lo so che sto per fare qualcosa di stupido e che potrebbe costarmi caro, lo so, eppure non posso farci niente, non posso resistere al richiamo di quel brivido, di quella eccitante sensazione che provo prima del momento decisivo in cui ho tutto in ballo e non posso più tornare indietro…

Il rischio, per Axel, professore universitario di Letteratura, è l'essenza stessa della vita e, come dice in una lezione, è proprio il rifiuto del rischio, per la paura del fallimento, che rende gli Stati Uniti un paese conformista. Come Il giocatore di Dostoevskij (del quale si intravede allusivamente un ritratto alla parete), Axel perde e vince (soprattutto perde), giocando su tutto e dappertutto, dalle roulette dei lucenti casino di Las Vegas ai campetti di basket in cemento delle periferie malfamate di New York. E si ritrova perennemente inguaiato con gli allibratori e i loro pericolosi scagnozzi. Il rischio, però, si deve accompagnare alla reale possibilità di perdere tutto, per poter conservare una sua valenza etica, tanto che, quando il protagonista si presta ad una combine, coinvolgendo peraltro un proprio studente, prova la necessità di abbrutirsi e, in buona sostanza, di purificare il "peccato" con il proprio sangue…

Si tratta di un cristallino e dimenticato capolavoro in celluloide, "40000 dollari per non morire" il titolo in italiano, tratto da "Il giocatore" di Dostoevskij, mirabilmente scritto dall'esordiente James Toback e interpretato da uno sbalorditivo James Caan, nella parte di un colto e benestante professore universitario di letteratura con il vizio della scommessa al tavolo da gioco. Scrive Dostoevskij (egli stesso accanito giocatore) nel racconto suddetto “Ho sentito un brivido di terrore corrermi per la schiena mentre mi prendeva, un tremito alle mani e ai piedi. In un attimo mi sono reso conto con terrore cosa significava per me perdere: insieme a quell’oro puntavo tutta la mia vita! Rouge!, ha gridato il croupier e io ho tirato un sospiro di sollievo, mentre un formicolio di fuoco mi correva per tutto il corpo”.  Reisz e Toback mettono in scena in maniera pressoché perfetta proprio questa singolare emozione che porta il giocatore a mettere a rischio le proprie sostanze, ma contemporaneamente anche sé stesso, il piacere di rimanere per il frammento di un istante sospesi nel limbo tra desiderio, volontà di potenza, fascinazione per il futuro e autodistruzione. Nel gioco d'azzardo si viene a configurare una metafora della concezione del mondo di questi uomini in cui l'elemento del rischio la fa da padrone: "Il desiderio è vita...la volontà di credere...la sicurezza che 2 più 2 fa 5...Mi piace l'incertezza, mi piace il rischio di perdere, mi piace vincere...anche se non dura mai a lungo" confessa il protagonista del film…

…Axel finds nothing in 1974 to test himself against, however. He has to find his own dangers, to court and seduce them. And the ultimate risk in his life as a gambler is that behind his friendly bookies and betting cronies is the implacable presence of the Mafia, the guys who take his bets like him, but if he doesn’t pay, there’s nothing they can do. “It’s out of my hands,” his pal Hips explains. “A bad gambling debt has got to be taken care of.” And that adds an additional dimension to The Gambler, which begins as a portrait of Axel Freed’s personality, develops into the story of his world, and then pays off as a thriller. We become so absolutely contained by Axel’s problems and dangers that they seem like our own. There’s a scene where he soaks in the bathtub and listens to the last minutes of a basketball game, and another scene where he sits in the stands and watches a basketball game he has tried to fix (while a couple of hit men watch him), and these scenes have a quality of tension almost impossible to sustain.
But Reisz sustains them, and makes them all the more real because he doesn’t populate the rest of his movie with stock characters…
…There’s a scene in The Gambler that has James Caan on screen all by himself for two minutes, locked in a basement room, waiting to meet a Mafia boss who will arguably instruct that his legs be broken. In another movie, the scene could have seemed too long, too eventless.
But Reisz, Caan, and screenwriter James Toback have constructed the character and the movie so convincingly that the scene not only works, but works two ways: first as suspense, and then as character revelation. Because as we look into Axel Freed’s caged eyes we see a person who is scared to death and yet stubbornly ready for this moment he has brought down upon himself.


venerdì 24 agosto 2018

L'evaso (La veuve Couderc) - Pierre Granier-Deferre




il film è tratto da un romanzo di Georges Simenon intitolato La vedova Couderc.
si sono tutte le cose che ti aspetti da Simenon, il regista non sbaglia.
un attore bravissimo (Alain Delon) e un’attrice straordinaria (Simone Signoret) rendono il film da non perdere.
appare, in una piccola parte, una giovane Ottavia Piccolo.
buona visione.

QUI si può vedere il film completo, in italiano



Non è un capolavoro questo film, ma ha il suo fascino e le sue atmosfere. Fin dalla musica della sigla si coglie subito che sarà una storia malinconica, e anzi disperata, e qui va detto che la musica è buona e molto in tema col film. L'atmosfera è malinconica, e il ritmo è lento e quasi anti-narrativo, poiché la cinepresa indugia spesso sui lavori di campagna e su indifferenti faccende quotidiane. Delon dà certo una giusta interpretazione dell'anarchico apatico e autoreferenziale, ma non egoista o cinico. Tuttavia la vera stella del film è la bravissima Simone Signoret, che sembra veramente un'amareggiata vedova di campagna, con un passato di sofferenze e umiliazioni (iniziando da quelle sessuali da ragazza). Il suo volto esprime alla perfezione la vita e la situazione del suo personaggio, ed è credibile persino quando fa il bucato al canale, assieme alle altre comari pettegole. A proposito, il ritratto della vita nella campagna di Francia è proprio impietoso…

Signoret è perfetta nella parte di una donna che solo a cinquant’anni incontra i sentimenti e l’erotismo, Delon ha la faccia da schiaffi del ribelle che forse aveva una causa, la cinepresa indugia giustamente sulle ripetitive faccende quotidiane (il fieno, i pulcini, la mungitura, il bucato), e anche il conflitto per l’eredità è reso con l’asprezza necessaria. Ci immedesimiamo nella vedova, siamo dalla sua parte nel pretendere un risarcimento da una vita di sofferenze e umiliazioni. Psicologicamente impalpabile la ragazzina che “apre le gambe con tutti”, e il triangolo sessuale non raggiunge l’ambiguità necessaria.
Dell’evaso, sospettiamo abbia alle spalle qualcosa di definitivo, vive alla giornata, spreme dalle giornate quello che viene. Sa di essere per la vedova Couderc la cosa più somigliante all’amore. Lei gli sacrificherebbe qualsiasi cosa. Lui vorrebbe solo salvarla dalla brutale ottusità delle forze dell’ordine…

giovedì 23 agosto 2018

El rey tuerto - Marc Crehuet

come in Carnage (diretto da Roman Polanski) quattro persone in un appartamento fanno esplodere tutti i rapporti.
si inizia con una cena, non innocente, e poi tutto degenera, per vie inaspettate.
il film (trasposizione di un'opera teatrale) si regge su testi cattivi, e surreali, a tratti, e su attori davvero perfetti per la parte.
un film sulla violenza e sul potere, e sulla violenza del potere.
non ti annoi neanche un po', promesso - Ismaele





QUI  si può vedere il film completo, in spagnolo



…l’aspetto più incredibile dell’esordio di Crehuet, tratto da un’omonima opera teatrale firmata dallo stesso regista, è che, nonostante sia stato girato in gran parte in un tetro appartamento di Barcellona e malgrado la sua forte connessione con la questione delle misure di austerità adottate in Spagna a seguito della crisi finanziaria del 2008, esso può essere facilmente compreso e apprezzato in ogni paese. Gode, infatti, di una rara combinazione tra sapore locale e fascino internazionale…

Lo que mejor hace la película es lo que ya estaba en la obra teatral: un desarrollo de personajes muy bien medido (e interpretado, por supuesto) y que se cuestiona continuamente quiénes son las auténticas víctimas y verdugos de esta historia. El rey tuerto quiere tanto a sus personajes, de hecho, que va más allá de lo obvio (la revelación de que David no es solo una máquina de matar y que Ignasi no es una víctima en estado puro) para indagar también en los personajes satélite, las parejas de los protagonistas del conflicto principal. Quien sale más beneficiada es Lidia, igual de simple y avasallada por la vida que su marido -el bruto que encuentra sentido a la rutina obedeciendo órdenes violentas-, pero que en su ingenuidad y en su honesto deseo de llevarse bien con todo el mundo demuestra mucho más corazón que la manipuladora Sandra, cuyos claroscuros se van acentuando según progresa la trama. De ese modo, lo que podría parecer un alegato pro-15M con algo de humor negro y desisia costumbrista, se convierte en algo más complejo y oscuro: ya no es que los malos no sean tan malos; es que los buenos también tienen sus agendas, a menudo igual de inquietantes y superficiales…

…Los ajustes de la adaptación al cine son mínimos (el elenco es el mismo), pero Crehuet demuestra seguridad en su firme puesta en escena: el juego de planos y contraplanos entre el policía y su víctima es preciso, feroz y eficaz en la escena de la exhibición de la herida. La sugerida ruptura de la cuarta pared en el desenlace es otro sutil acierto expresivo. El rey tuerto no se parece a ninguna otra reciente comedia española: crea –y ocupa- su propia categoría.

…El primer acto de la película simplemente es sublime, la presentación de los personajes es modélica y hace que ya nos pongamos de parte de un bando, a pesar de ello en cada escena, en cada dialogo entiendes que los extremos no son buenos y que llegar a ese equilibrio no es tan fácil.
Lo mismo sucede en su acto final donde nos quedamos perplejos ante las drásticas situaciones, lastima que para llegar a este acto hayamos pasado por algún momento donde las reflexiones y situaciones parecen metidas con calzador para cuadrar el resultado.
El Rey Tuerto es una sátira sobre la sociedad en la que vivimos, un mundo complejo donde no siempre el camino mas cercano es la línea recta. Vamos dando palos de ciego por ese camino y ya sabemos que (a veces) el tuerto es el rey de los ciegos.

lunedì 20 agosto 2018

Kill list – Ben Wheatley

niente è come sembra, i due amici sono stati contattati e scelti per una missione difficile.
i due hanno scheletri nell'armadio, che non sapremo, e tutto quello che succede è una discesa nel male, diabolica, senza pietà per nessuno.
a molti, anche a me, la parte finale ha ricordato The Wicker Man*, di Robin Hardy, del 1973,  solo che quel film, sempre inglese, era solare, qui è tutto molto più nero e disperato, lì era un rito pagano e popolare, qui è un rito diabolico, di una setta assetata di sangue e punizioni terribili.
un film pieno di violenza, mai gratuita.
disturbante, profondo, inquietante, misterioso, indimenticabile.
un film grandissimo, senza se e senza ma - Ismaele

*questo film è stato omaggiato da Iron Maiden e Radiohead








The movie may leave you scratching your head way too much when it's over. Yet it proves Ben Wheatley not only knows how to make a movie, but he knows how to make three at the same time. I suppose one of the characteristics of horror is that it wears shifting faces.

Kill List sfugge a qualsiasi catalogazione e, allo stesso tempo, rappresenta l’ideale controcanto, in stretta continuità, di quello che sarà, nel 2012, il suo film più commerciale: Sightseers. In questo divertente e violento road movie l’ironia e il cinismo più abietto consentono al regista di raccontare con leggerezza un viaggio senza speranza di una donna frustrata dalla madre reazionaria e di uno scrittore con manie omicide. Ritorna il tema dell’uccisione senza scopo, della frustrazione di protagonisti sempre in lotta con loro stessi, specie a causa di famiglie disfunzionali, del viaggio come metafora di perdizione e, insieme conoscenza di sé. Ma l’ironia macabra che nel suo ultimo lungometraggio fungeva da riparo e alleggerimento, in Kill List è completamente assente per lasciare posto ad una discesa agli inferi che apre alla sospensione della credulità e a uno straniamento deformante. Non è quello che ci si aspetta…

Ben Wheatley dirige con autorità riuscendo ad adeguare la regia alle varie sfumature che assume il film e azzecca una sequenza di bellezza stordente, quella del cunicolo.
Apprezzatissimo al Frightfest del 2011 Kill List ha diviso pubblico e critica proprio per il suo andamento sinusoidale nel percorrere vari generi a prima vista impossibili da far compenetrare e forse anche per un finale difficile da metabolizzare.
Da amare od odiare.
Io l'ho amato.

Kill List parte in un modo, si evolve diventando altre due o tre cose e finisce per trasformarsi in un claustrofobico macello, ma si gioca il finale in quella maniera lì. Ti piazza davanti agli occhi una svolta piuttosto forte, per quanto intuibile con discreto anticipo, ma poi chiude senza spiegare sostanzialmente una fava. E mi va bene, eh, anzi, ho in antipatia i film che spiegano tutto, pero qua tende a rimanerti in testa più che altro solo un grosso whaddafuck (e anche una certa sensazione da fratello scemo di The Wicker Man, ma forse è solo perché l'ho visto al cinema l'anno scorso). Dopodiché, intendiamoci, Kill List merita, è coinvolgente, girato con un gran occhio e tre o quattro inquadrature molto, molto belle, oltre che con un uso della violenza trucido al punto giusto. Però, boh, non so, whatever.

“Kill List” tiene quiebres narrativos que nadie podrá adivinar y que no revelaremos aquí, pero le debe una buena parte de su eficacia a los ingeniosos diálogos elaborados por Wheatley y su co-guionista Amy Jump (que, para más señas, es su esposa), los mismos que logran darle definición a sus personajes, cada uno más estrambótico que el otro. Como todo mercenario que se respete, Jay (interpretado con un brillo brutal por Maskell) es un psicópata desatado, y sus explosiones de violencia no son únicamente contra sus víctimas intencionales, sino también contra todos los que lo rodean, en una suerte de expansión del protagonista de “Down Terrace”, que perdía la paciencia de un momento a otro y terminaba por despachar al otro mundo a papá y a mamá (aunque hacía esto último con la mayor tranquilidad).
Sin embargo, en este caso, Jay no tendrá la misma suerte, porque su habilidad para deshacerse de seres mortales comunes y corrientes le servirá de poco cuando se enfrente a las verdaderas fuerzas maléficas que se encuentran tras “Kill List”. Y esto lo conducirá a un aterrador desenlace que ninguno de ustedes podrá olvidar fácilmente …. si es que se atreve a presenciarlo.
da qui

…lo spettatore è ormai entrato in una sorta di ipnosi per cui non riesce più a distinguere nulla, in un delirio collettivo, in un sabba delle menti e delle coscienze, e certo non si mette ad elucubrare sulla sanità mentale o sull'eticità del regista.
Non so cosa racconti Kill List, probabilmente è tutto e "solo" un'iniziazione che è come una discesa all'Inferno.
L'iniziazione di una vittima predestinata, di un uomo in quel momento debole ma capace comunque di diventare una bestia.
Non so cosa racconti ma credo di trovarmi davanti a un punto di riferimento del nuovo thriller/horror moderno.
da qui

domenica 19 agosto 2018

A Girl Walks Home Alone At Night - Ana Lily Amirpour

opera prima notevole di una regista Usa, pur con ascendenze persiane.
il film è pieno di citazioni, di suggestioni, in un bel bianco e nero, e però ha anche un'anima.
la storia è ambientata in un postaccio, non a caso si chiama Bad City, il posto perfetto per non viverci.
la storia è semplice e moderna e antica insieme, una giovane vampira si vendica di chi si comporta male, è il grado zero di un supereroe.
gran film (e grande gatto, di nome Masuka).
buona visione - Ismaele





La Amirpour, tecnicamente preparatissima e con una propensione per l’insolito, ci consegna immagini di forte fascino onirico, metacinematografiche, in cui si mescolano il noir più cupo dei B-movies, i giovani ribelli degli anni ’50 (con Arash Marandi novello James Dean), squarci di nouvelle vague (le magliette a righe alla Jean Seberg) e i personaggi silenti e complici di Stranger Than Paradise. Difficile ignorare queste influenze, ma nonostante l’ingombro citazionistico A Girl Walks Home Alone at Night è un’opera originale, fatta di déjà vu evocativi, costruzione polisemica dell’inquadratura, primi piani cristallini, un senso vertiginoso degli spazi. Cinema “finto povero”, in realtà iperprodotto (Elijah Wood è alle spalle del progetto, girato interamente in USA), e rivelazione di una regista promettente, dotata di un’autentica voce personale.
«Non vivo nel rimpianto del passato. Il passato non esiste per me. Consumo tutta la mia nostalgia per il presente e per il futuro», scrive la Amirpour su Twitter, consegnandoci quella che potrebbe essere la chiave per accedere al suo cinema: un cinema che porta evidenti su di sé le tracce di ciò che è stato, in forma di immagini-simbolo, archetipi fissati nell’inconscio che riemergono talora incrociati, talora giustapposti; un affioramento dell’immaginario che però diventa un oggetto del tutto contemporaneo. A Girl Walks Home Alone at Night è cinema proiettato in avanti e non all’indietro: incorpora e supera le sue origini in un divenire. La Armirpur non è una vittima del passato, ma una regista del futuro osservato con cuore malinconico: la sua attitudine metafisica, tra Borges e De Chirico, informa ogni immagine e la solleva da sterili ripiegamenti nostalgici.

Girato in un bianco e nero anamorfico a Taft (California), trasfigurata in un luogo deserto e polveroso, tenuto in vita dai pozzi petroliferi e con i cadaveri ammassati ai bordi delle strade, l'horror-western vampiresco della Amirpour gioca con i cliché della "città maledetta", dove si aggirano anime dannate dal cuore nero. Come Hossein "The Junkie", padre tossico di Arash, Atti la prostituta (Mozhan Marno) e Saeed "The Pimp" (Dominic Rains), spacciatore feroce e iper-tatuato. Ma non mancano momenti sdrammatizzanti, come la scena in cui la vampira hipster balla da sola nella sua cameretta, prima di truccarsi, infilarsi il velo e andare a caccia.
"È come se Sergio Leone, David Lynch, fondassero una band iraniana di bambini che suonano rock e Nosferatu fosse chiamato a fargli da babysitter", sottolinea la regista nelle sue note. E l'obiettivo è centrato, grazie soprattutto alla potenza visiva ipnotica delle immagini, alla buona resa dei protagonisti e a una colonna sonora sorprendente, che mescola techno, rock iraniano e atmosfere morriconiane (Federale, Radio Tehran, Bei Ru, Farah, White Lies, Kiosk, Free Electric Band, Dariush)…

Ogni gesto è coreografato in maniera quasi esasperata, ogni frame vuol lasciare di stucco con ralenty a profusione; le scene più significative, come quelle che scandiscono gli incontri del ragazzo e della ragazza, sono splendidamente realizzate ma non si può mantenere lo stesso ritmo per tutto il minutaggio: pena un controeffetto soporifero e un senso avvertibile di ostentato auto-compiacimento. Viceversa, il film funziona bene quando si prende meno sul serio, quando cioè non si arena sulla costruzione a tutti i costi di scene cool ma si prende in giro con umorismo nero. Va dato credito al film che ad arricchire una storia di per sè pretestuosa (la vendicatrice femminista in Iran) c’è una serie di dettagli piuttosto interessanti, come quello del gatto presente nelle scene principali, che, come il film ha una visione monocromatica (bianco/nero buono/cattivo) e come la protagonista una natura di predatore; non è forse una caso che il gatto sia spesso oggetto di fulminei primi piani e che venga posizionato addirittura al centro dell’inquadratura nella scena conclusiva del film.
In conclusione, questa nuova regista ha certamente talento e un senso estetico finissimo anche se troppo derivativo: speriamo che superi presto l’onanismo citazionista per creare qualcosa di veramente personale e originale.

Nello sguardo di Amirpour, gli interni delle abitazioni coincidono con la frontalità di una parete: sui cui si adagia Hossein Il Tossico; in cui sono affissi i poster dei miti che La Ragazza ammira; contro cui si staglia la silhouette di Atti La Puttanatriste, che balla per compiacere l’altro, succube innanzitutto di se stessa.
Inoltre, tagli di luce che illuminano parte di un volto come a volerne preservare almeno una traccia, prima che la figura reimmerga nel proprio oblio esistenziale. Nell’elegante composizione fotografica di Lyle Vincent troviamo la medesima frontalità anche nella lavorazione degli esterni, restituiti con inquadrature che limitano la profondità di campo. Ampio è l’uso del grandangolo, ma a prevalere è la figura isolata sullo sfondo scuro, sfuocato, a sottolineare la disconnessione, la distanza dalla fonte, l’indeterminatezza scenica.
Con lo stesso principio: le luci dei lampioni in strada hanno contorni imprecisati. Punti luce vacillanti, smagliati, rovesciati in uno spazio che prescrive una sospensione, impone un ellissi. I punti luce diventano fantasmi astratti in mezzo ad altri fantasmi: i personaggi della storia. Come il travestito Rockabilly, figura ricorrente, nonché protagonista della scena più ispirata, surreale e politica del film.
Raccontando una storia semplice, solitaria e struggente, A girl walks home alone at night custodisce un messaggio silenzioso ma assordante, e usa i generi piegandoli a detonatori di significato e di simboli.
Infine un gatto, Masuka. (Vi verrà voglia di andare a cercare le generalità di Masuka su internet, una volta visto il film.) Il Gatto, personaggio al pari degli umani, passerà di mano in mano, di casa in casa. Sentinella della visione, afflato spirituale a cui tutti a Bad City, senza saperlo, aspirano. Potrebbe indicare una nuova via da percorrere; potrebbe essere l’ultimo testimone di una città fantasma che ha perso la dignità, la felicità e il ricordo, ma li ritrova tutti con il Cinema.

venerdì 17 agosto 2018

Il tiranno Banderas - José Luis García Sánchez

l'ultimo film di Gian Maria Volonté è un film non eccezionale, che diventa da vedere obbligatoriamente, per causa sua.
lui non interpreta, lui è il tiranno Banderas.
ogni gesto, ogni espressione, ogni movimento, ogni parola è un capolavoro dell'attore.
vedere per credere, con Gian Maria Volonté non è mai tempo perso - Ismaele








…gli attori non sono sempre eccellenti, fatta eccezione per la performance di Volonté, di cui non si discute proprio, anche solo per la superlativa gestualità; non interpreta Banderas … è proprio lui in persona. Come già accennato anche l'interpretazione di Ana Belen merita. Oltre a questo il livello del film è tenuto alto dai costumi di Andrea D'Odorico e dalla fotografia di Fernando Arribas. Poco di buono si può dire invece della sceneggiatura di Rafael Azcona e José Sànchez – liberamente ispirata da un capolavoro del '900 – nessuno dei personaggi evolve, ed è un vero peccato perché l'intera storia comincia prima e finisce dopo un evento carico di speranze, opportunismi ed emozioni come solo una rivoluzione può essere. Solo il personaggio di Volonté ha una sua profondità – merito senz'altro dell'attore, noto per la creatività; tutti gli altri invece sono estremamente piatti.

Ultimo film interpretato da Gian Maria Volonté, il cui genio è stato riconosciuto persino da maestri del cinema come Ingmar Bergman; morirà l'anno dopo durante le riprese de Lo Sguardo di Ulisse, sappiamo che rinunciò a parti che avrebbero potuto renderlo ricco e portarlo agli altari del cinema mondiale, preferendo sempre quelli che gli piacevano soprattutto per il messaggio politico e sociale. A prescindere dalla sceneggiatura dava ai personaggi da lui interpretati delle modifiche in corso d'opera che soddisfacevano a pieno i registi, tanto che definirlo solo attore sarebbe riduttivo. Per tanto ci piace pensare a Tiranno Banderas come il suo testamento, un messaggio nella bottiglia di quasi 20 anni fa, che visti i tempi sembra essere stato spedito ieri.
da qui  

dice il regista:
"Fue un trabajo duro y complicado, pero hubo algo que lo facilitó: que Gian Maria Volonté entendió a la perfección qué es el esperpento y que éste requiere una interpretación de carácter expresionista. Volonté es un actor expertísimo, que domina los géneros del grotesco italiano y no le fue difícil lograr esta exageración contenida. Además se enamoró literalmente de Valle Inclán"

Tanta crudeltà gratuita, poco pathos; la storia è un po' troppo romanzesca e poco concreta. Volontè stesso, qui al suo ultimo film prima della prematura scomparsa, appare stanco ed annoiato dal personaggio che interpreta. La storia è decisamente poco fantasiosa e quello che dovrebbe essere il colpo di scena finale è soltanto quanto di più prevedibile potrebbe accadere: si fiuta fin dall'inizio del film, e soprattutto lo chiude, senza ulteriori spiegazioni o sviluppi. Trascurabile.

giovedì 16 agosto 2018

Cien Años De Perdón - Daniel Calparsoro

per un po' ho temuto che fosse un Inside man, di Spike Lee, in salsa spagnola.
in realtà poi se ne discosta, sono bravissimi gli attori, sopratutto i protagonisti Rodrigo de la Serna e Luis Tosar.
la sceneggiatura è solida, non ti annoi, e poi il gran colpo di scena.
cercate il film, non ve ne pentirete, promesso - Ismaele



Ho amato l'ambientazione, questa banca-cattedrale, questa città sotto la pioggia.
Ho amato il personaggio del rapinatore capo, sboccato, intelligente, cattivo ma poi nemmeno così tanto. Mi sono piaciuti molto quasi tutti i suoi dialoghi.
Ma ho trovato davvero buona anche una sceneggiatura che non cerca mai colpi di scena ma è solida, ben calibrata, con qualche buona trovata (il tunnel costruito da loro che si allaga proprio quel giorno) e, in un certo senso, pure "importante".
Sì perchè questo film, e torniamo al titolo originale, è un durissimo attacco verso i poteri forti, dal capo di stato ai politici, dalla polizia ai banchieri. Tanto che alla fine ci ritroviamo a parteggiare per i rapinatori che saranno sì dei balordi ma dietro la loro presunta cattiveria e propositi di devastante terrore (pensiamo ai giubbotti esplosivi) nascondono invece una buona etica e dei caratteri affatto terribili…

Cien años de perdón (ojalá que pudiéramos robar a los grandes ladrones y obtener no ya cien años de innecesario perdón, sino de agradecimiento popular), apoyándose en el guion de Jorge Guerricaechevarría, un señor que escribe cosas distintas y con sello propio, Calparsoro logra una película tensa, entretenida, rodada con personalidad y oficio, con actores competentes (espléndido e inquietante el argentino Rodrigo de la Serna), que gira alrededor del asalto a un banco donde guardan su rapiña los rufianes más poderosos, los padres de la patria. Y me aclaro. No esperen la versión española de Heat, la película que más me ha enamorado en los últimos veinte años, pero sí un producto tan visible como audible.

Cien años de perdón  ha conseguido mezclar de manera acertada una buen thriller de atracadores con una trama de candente actualidad que la acercará aún más al gran público, la película de Calparsoro presenta un desarrollo argumental algo simple pero con un dinámico ritmo de principio a fin, no es un producto redondo pero  tiene muchos ingredientes para poder ser disfrutada.

…En medio de esta historia, algunos rehenes se vuelven cómplices en distintas medidas pero siempre dejando en claro que son víctimas de lo sucedido pero ¿víctimas de quién?, ¿del sistema capitalista que remata hogares?, ¿del que los deja sin trabajo?, ¿de la corrupción política?, ¿de los ladrones que ingresaron a ese banco?, ¿son víctimas de la codicia, del odio o del egoísmo?, ¿o son justicieros? He aquí la delgada línea entre “lo bueno” y “lo malo”, la discusión entre las purezas y lo que parecería ser una crítica generalizada a la sociedad española.
A grandes líneas, Cien años de perdón es una película que mantiene al espectador atento en su trama (que ofrece desde situaciones dramáticas hasta algún que otro paso de comedia) aunque por momentos decae por no ser visualmente atractiva. De todos modos es una historia interesante para aquellos que gustan de realizar  lecturas sobre escenarios y sus similitudes con las realidades del mundo por fuera de la diégesis.

… Con un excelente plano de inicio, donde se ve la ciudad bajo la lluvia (hecho que luego cobraría gran importancia), Cien Años de Perdón es un viaje bien estructurado, de muy buen ritmo, con un montaje que sabe resaltar los momentos de más acción y comicidad. Transcurriendo mayoritariamente en una sola locación, son los giros y engaños de la trama lo más preciso de este filme, sorprendiendo con un juego de corrupción que va mucho más allá de la burocracia del banco.
Con un muy buen final que deja un sabor dulce al salir de la sala de cine, lo dirigido por Daniel Calparsoro (‘Combustión’, ‘Ausentes’) es cine del bueno, ese que te deja inquieto en el asiento y que sorprende constantemente con giros muy bien planificados y personajes carismáticos y humanos. Muy recomendable, Cien Años de Perdón es un ejercicio de género que triunfa de principio a fin. No se la pierdan.

Operation X-70 - Raoul Servais

mercoledì 15 agosto 2018

Killer in viaggio (Sightseers) - Ben Wheatley

Ben Wheatley non sbaglia un film, meglio per noi.
anche qui succede, come in Down Terrace, che si parta da commedia e si finisce in orrore.
la cosa sconvolgente è la rapidità e la naturalezza con la quale si passa da essere una persona tranquilla, più o meno, a diventare un assassino, come se niente fosse.
come succede in quel piccolo straordinario libro di Max Aub, Delitti esemplari.
a Ben Wheatley piacerebbe molto, quel libro, e Max Aub finalmente avrebbe trovato un regista perfetto per le sue piccole tragiche storie.
non perdetevi il film di questi killer come noi.
buona visione - Ismaele




Ma quello che considero il più grande merito di questo regista è il suo sapere mescolare i generi.
Ogni suo film è tante cose, non incasellabile. Ogni suo film sono, se va male, due generi mescolati tra loro, a volte pure di più. E' un alchimista Wheatley e in un'epoca cinematografica di catene di montaggio abbiamo tanto bisogno di alchimisti.
Sightseers qualcuno lo definirebbe commedia nera. Ci mancherebbe, va bene.
In realtà io credo che la parte nera sia enormemente più presente ed efficace di quella "comica" o dissacrante.
Dirò di più, questo per tematiche è il film più nero di Wheatley, il più cattivo, il più estremo.
Del resto Chris, il personaggio principale, è una delle persone più malvagie, inumane e violente dell'ultimo cinema.
Misantropo, probabilmente misogino (che sembrerebbe metonimia della misantropia ma non è sempre detto), cinico, cattivo…

Tina e Chris uniscono due profonde frustrazioni esistenziali che l'una estrinseca in un amore viscerale per i cani (con alle spalle un forzato senso di colpa) e l'altro nel bisogno di vendicare qualsiasi affronto che ritenga rivolto al suo modo di vedere il mondo. Chris ha velleità letterarie e Tina si sente per la prima volta in vita sua la musa ispiratrice di un uomo che non le lesina attenzioni sessuali. Sembrano una coppia perfetta ma la loro visione dell'omicidio finirà con il portare in superficie due modalità opposte di concepire la vita propria e la morte altrui. Tutto questo, come già sottolineato, con un understatement made in Britain che fa sembrare 'naturale' e quasi doverosa ogni loro azione criminale in nome del rispetto delle buone regole del vivere comune. Ad accompagnarli, in gran parte del viaggio, un cane perplesso in crisi d'identità...

Wheatley, forte di un gusto macabro, vuole strapparci una risata coi suoi ammazzamenti e sicuramente sa il fatto suo nell'imbastire il tutto, miscelando satira e gore, ben aiutato dalla fotografia di Laurie Rose, sempre alle luci dei suoi film, compreso il prossimo "A Field in England" (arriverà nelle nostre sale?). A volte il "gioco" riesce, come nel caso del primo omicidio, a volte meno, come nella scena violentissima e agghiacciante delle mazzate al rompipalle, anche perché i trucchi sono così realistici che non sempre l'effetto comico (voluto e studiato) è raggiunto, nonostante il regista possa contare sulla scelta ad hoc di alcuni brani musicali (strepitoso l'uso di "The Power Of Love" dei Frankie Goes To Hollywood nel prefinale) e la riconoscibilità del meccanismo da parte dello spettatore. L'insistenza sui particolari più cruenti è tale che alla fine non sai se stai guardando una commedia o un film dell'orrore, che forse è quanto il regista voleva.

Appena intravisto al cinema l’altra settimana, e subito scomparso. Eppure questa dark, darkissima commedia inglese gode di ottima fama e stima internazionale, ha fatto il giro di parecchi festival e rassegne (a partire dalla Quinzaine di Cannes 2012), è considerata da molti critici anglofoni una delle cose migliori dell’ultimo biennio. Forse, dico io, un po’ sopravvalutata. Comunque allarmante, disturbante come pochi film usciti ultimamente. Qualcosa che si riallaccia alla tradizione molto british della commedia nera con assassini e assassinii, La signora Omicidi e Sangue blu per capirci, e giù di lì, quell’ammazzar ridendo e facendo ridere di cui a Londra e dintorni detengono la ricetta in esclusiva. Solo che negli esempi della tradizione il gusto del paradosso, l’aplomb inglese e una certa eleganza riuscivano a farci ingollare quei gochetti macabri e scherzi al sangue: stavolta no, resta il sangue, ma manca del tutto ogni filtro di sottile umorismo, e la mistura rischia di essere francamente indigesta. I protagonisti sono una classica coppia criminale (sulla scia, per dire, di Bonnie & Clyde o Natural Born Killers), calati però in un contesto di turpitudini e laidezze quasi insostenibile, due assassini torvi e truci che ammazzano senza il minimo movente, per assenza di ogni pur minimo codice etico, per naturale e animale malvagità, per idiosincrasia. Per non si sa cosa. Il Male al lavoro, ecco. Il che, ne converrete, è sempre uno spettacolo sconvolgente. Una black comedy senza levità, al grado zero di ogni morale, al grado massimo di ogni grevità, in ambienti sottoproletari e degradati di quel tremendo degrado british che abbiamo conosciuto in tanto cinema di Ken Loach, di Mike Leigh o di Andrea Arnold. Solo che manca ogni possibile riscatto…

…Il regista sfrutta scenari naturali che riportano alla tradizione pittorica inglese del paesaggio, ma non documenta, piuttosto stilizza l’ambiente sfiorando il cartolinesco per poi firmarlo con un rutto o nel peggiore dei casi con uno schizzo di sangue. Omaggia in una scena il cult The wicker man, quando all’interno di un camping si svolge un ridicolo rito sacrificale, deridendo il valore della natura, della vita plein air. Attraverso le tappe tipiche di una vacanza pseudo culturale, dentro le quali si realizza l’intromissione violenta di J e Chris, vengono prese a calci tradizioni, ritualità borghesi, convenzioni benpensanti e ingessate di una terra dove al solito prevalgono egoismi e rapporti di potere. E roba da non credere, c’è da divertirsi.