domenica 31 gennaio 2016

Still Walking (Aruitemo aruitemo) - Hirokazu Koreeda

una famiglia come tante, con i suoi fantasmi, i suoi dolori, le sue assenze.
ci si trova tutti insieme per ricordare un morto, figlio e fratello, e per elaborare il lutto.
è tutto così normale e profondo che solo un gigante può girare un film così, e Hirokazu Koreeda lo è.
sembra che non succeda niente, in realtà nel film scorre la vita, come succede raramente.
l'ho visto due volte in due giorni e la seconda volta è ancora più bello, non privatevene - Ismaele





…Kore-eda costruisce un sommo kammerspiel del non detto, non privo di un’elegante ironia e carico di uno sguardo dolente prima ancora che giudicante. La quotidianità dei dialoghi, a volte persino banalmente semplici, quasi ovvi, ci permette di entrare in contatto con la famiglia Yokoyama con lo sguardo complice di chi, sotto sotto, riconosce determinate dinamiche relazionali come proprie: il dialogo iniziale sull’utilizzo del rafano, lo scambio di battute tra genero e suocera sulla bontà del thé in bustina, l’album di fotografie sfogliato dalle donne di casa sono esempi di una ricerca fenomenica e antropologica accurata, realistica, mai succube del fascino della retorica.
Proprio per questa naturalezza di sguardo – la regia in molti punti si fa quasi sussurrata, invisibile eppure di un’armonia invidiabile – si percepisce il contraccolpo che Kore-eda ha in serbo per il suo pubblico con una forza ancora maggiore: la sottile crudeltà di Still Walking è in questa capacità di mostrare l’ordinario e di dissacrarlo e distruggerlo allo stesso tempo…

…Film dolce, bello, girato con discrezione la camera ritrae parimenti tutti e indugia sui volti solo quando esprimono più delle parole, altre volte invece spia da pertugi o prende una pausa su particolari ambientali. Le "tipiche" storie familiari non paiono conoscere i confini geopolitici, sono sempre quelle, si tratta di essere capaci di illustrarle , e Kore-eda lo è…

Most family dramas contain too much drama. In most families, the past and present don't meet and find resolution during a 24-hour period, no matter how many American films you've seen about Thanksgiving. Painful family issues are more likely to stay beneath the surface, known to everyone but not spoken of. "Still Walking," a magnificent new film from Japan, is very wise about that, and very true.
A dozen years ago, the prized possession of this family was Junpei, the eldest son, doted on by his parents and admired by his younger brother and sister. But Junpei drowned while saving a life, and every year the family gathers, as many Japanese families do, to visit his grave and memory…

…Un hijo ausente que aparece con una definición vital más pronunciada que los presentes que le sobreviven. De forma caprichosa, aunque quizás no tanto, recuerdo, especialmente, el plano secuencia en el que la familia se encuentra en el jardín preparándose para hacerse la foto. Lo que tenemos en el campo de visión es el comedor vacío y cómo el sonido engrandece el espacio con las conversaciones que vienen del jardín. En el comedor, al fondo, de forma centrada tenemos la foto del hijo fallecido bien definida (la madre entrará a buscar esa foto), frente a las siluetas deformadas y borrosas de la familia en el lateral frontal del marco de la cristalera.
Precisamente, Kore-Eda nos esconde con suma maestría cuanto de exorcismo o de ejercicio de expiación tiene su film, hasta que asistimos al bello epílogo, en el que el hijo recuerda a sus padres en la visita a sus tumbas. De esta manera, la rápida recapitulación que ejercitamos a lo que hemos visto hasta el presente, adquiere una hondura que pocas películas tienen el privilegio de transmitir al espectador.

Un relato desgarrador que no deja casi ninguna esperanza: cuando la raíz de una familia está rota, es muy difícil que pueda enderezarse. Ryota es un hombre adulto. Está cansado de las presiones de su trabajo, lucha ante el día a día, se siente enamorado de una mujer con un hijo, sigue adelante. Pero nada de esas cuestiones lo altera más que su papá, a quien le tiene miedo. No tiene valor para enfrentarlo, escuchar sus críticas o su falta de interés. Su evidente reprobación al camino que eligió. No es un doctor como él, sino un curador de obras de arte. El encuentro en la casa de la familia en Yokohama, con la otra hija, que pretende olvidar, mirar al piso y hacer que todo está bien, es brillante.

Kore-Eda logra un equilibrio perfecto entre los detalles de suave humor que salpican la cinta, con cierto patetismo -el gordo patán por el que dio la vida el hijo fallecido-, y hasta con momentos mágicos, la mariposa de alas amarillas. No se cae en la sensiblería, mostrándose con realismo los buenos deseos que presiden las reuniones familiares, y las diferencias y puyas que surgen casi de modo inevitable. Los actores han captado perfectamente los pequeños detalles que definen a sus personajes, por lo que la película alcanza algo muy parecido a la perfección.

 

mercoledì 27 gennaio 2016

Il figlio di Saul - László Nemes

László Nemes ha lavorato con Bela Tarr, e di sicuro non gli ha fatto male; dopo ha cominciato a dirigere (qui il suo primo cortometraggio, dove si inizia con le immagini sfocate e poi la terribile sorpresa finale, e la banalità del male).
il Talmud recita :”Chi salva una vita salva il mondo intero”, ma per Saul basterebbe riuscire a seppellire il cadavere di un ragazzino, se sei un sonderkommando ti accontenti di poco.
è un'ossessione che non ti molla più, tutto accade in poche ore.
il film ti cattura, tu sei gli occhi di Saul, lo segui sempre, non puoi scappare fino alla fine, e di sicuro la poltrona del cinema non sarà abbastanza comoda.
pare che il regista abbia trovato ispirazione guardando "Va' e vedi", grandissimo film di Elem Klimov del 1985 (guardatelo, se non l'avete mai fatto, non ve ne pentirete).
a me ha ricordato La zona grigia, film enorme di Tim Blake Nelson, dove i sonderkommando soffrono il loro destino, in apnea, ma cercano, anche lì, una redenzione (cercate anche questo, si soffre di sicuro, ma, come il film di Klimov e Il figlio di Saul è grande cinema).
il film si trova addirittura in 40-50 sale, non perdetevelo al cinema, non è film da salotto - Ismaele




In Francia, quando il film è uscito in sala, a novembre, il dibattito ha visto il contributo di una temutissima autorità. Il documentarista novantenne Claude Lanzmann, autore di “Shoah”, monumentale raccolta di interviste ai sopravvissuti, ha da sempre posizioni radicali sul tema. Nessuna immagine, intima da sempre: solo dar voce ai testimoni. Qualunque rimessa in scena sarebbe un sacrilegio. «Non ti farai nessuna immagine della Shoah», insomma. Ma stavolta perfino lui si è lasciato convincere dal complesso dispositivo inventato da Nemes: «È l’anti “Schindler’s List”», ha dichiarato, che detto da lui è il massimo dei complimenti.
In molti hanno esaltato la novità del film, e “Le Monde” gli ha dedicato una mezza dozzina di articoli. Ma ci sono stati anche dei distinguo: i “Cahiers du cinéma” e “Libération” ne hanno criticato la strategia “immersiva” ed emozionale.

Del resto, in Francia il dibattito sull’etica del cinema davanti alla Shoah ha una lunga storia: nel 1961 Jacques Rivette definiva senza mezzi termini “abietto” “Kapò” di Pontecorvo, per un carrello che estetizzava la morte di una donna sul filo spinato…
… Un tweet di Joyce Carol Oates lo definisce «un film che non tratta semplicemente un tema, ma ingloba (embed) lo spettatore in un’esperienza». Un complimento che può essere rovesciato in critica: il “New York Times” infatti, pur apprezzandolo, nota che il film offre più sensazione che profondità, una esperienza emotiva che si situa troppo comodamente all’interno delle regole spettacolari. Ciò non è solo colpa del regista: l’Olocausto, un tempo territorio proibito, oggi è un terreno sicuro e familiare. Parole inquietanti, su cui riflettere.

…Bisogna anche chiedersi, credo: che cos’hanno capito e fatto e fanno i bambini che diventano adulti, che non muoiono bambini? Seppellire i morti con la giusta sacralità, specie se bambini, è doveroso e giusto, mentre anche nel film affidare loro la speranza nel futuro può fungere da scappatoia ideologica.
Che tutte queste questioni siano sollevate dal film di un esordiente è comunque straordinario, e si spera che l’occasione sia accolta dagli spettatori più esigenti, da quelli moralmente più esigenti.
Per il resto: quanto di calcolo c’è nell’ispirazione di Nemes? E quanto di autentico e di poetico, nel senso più alto, nella scommessa del Padre del bambino dal nome ignoto? Quanto di necessario e quanto di prestabilito? Quanto di poetico e quanto di oculato? Lo sapremo solo dai prossimi film di Nemes, regista di grande talento e, ci auguriamo, di grande onestà.

Al giorno d’oggi, una delle cose più difficile da fare al cinema è un film sull’Olocausto, quasi diventato un genere a sé stante. Buona parte del pubblico di fronte a questi film esclama “Basta!” e poi trovare un modo di farli originali, che non sia la solita esplorazione del dolore, è complicato. Col film Il Figlio di Saul il primo ad essere consapevole di tali problemi è proprio il regista Laszlo Nemes, che però ha dalla sua l’audacia e la freschezza del debuttante per girare un film ambientato nei campi di sterminio come mai nessuno aveva fatto prima. 
Il Figlio di Saul, senza mezzi termini, è un thriller in piena regola: dicendo questo non vi aspettate certo sparatorie o inseguimenti, ma il thriller puro, nel senso etimologico del termine, quello che ti rapisce e non abbassa un solo secondo la tensione. Già questa è una visione originale, ma Nemes oltretutto sceglie di girare con la macchina da presa sempre fissa sul proprio protagonista, ripreso in primo piano di faccia o di nuca, e col formato dei 4:3, un formato che in pratica ci blocca su quel volto, lasciando sullo sfondo tutto il resto…

…Abilissimo nel costruire ampi piani-sequenza, il regista ne adopera in chiave espressiva la durata, che enfatizza con l'intento di provare quasi fisicamente la resistenza dello spettatore (espediente che tradisce la scuola tarriana), ma incerniera tutto il film sul dinamismo, svolgendo le lunghe riprese con movimenti centripeti e vorticanti. In tal modo riesce a realizzare un'opera tanto più profonda e rilevante, quanto più ammorsata alla forma cinematografica: una cronaca che attraverso una relazione non analitica, ma direttamente esperienziale, immersiva e priva di apparenti mediazioni, pone il singolo di fronte all'abominio. La lettura che ne scaturisce non è semplicemente originale, ma sconvolgente e significativa sia considerata all'interno della propria terribile scena storica, che pensata fuori da qualsiasi coordinata specifica. Ed è per questo, in due sole parole, brutale e necessaria.

A la virtuoisité de l’approche visuelle – notons la majestuosité du 40 mm – répond celle du son, sans doute plus oppressant encore, qui participe à la prouesse du réalisateur : transcender la réalité d’Auschwitz tout en actant d’une immersion tout à fait singulière au coeur du camps de concentration. Toutefois, LE FILS DE SAUL n’est jamais un objet esthétique : la radicalité et la maitrise de l’approche est au service de son sujet. Cinéaste « entier », Laszlo Nemes s’impose égaement comme un directeur d’acteur extraordinaire obtenant de l’ensemble de son casting – Géza Röhrig en tête – une immersion totale dans la complexité de leur rôle.

Saul, che diventa la sua e nostra guida all’inferno, colui che sembra trascinarsi dietro la macchina da presa trascinandosi insieme tutti noi spettatori. Noi vediamo il campo il campo, le docce delle camere a gas, lo sgombero dei cadaveri da parte dei Sonderkommando, la loro distruzione nei forni crematori, le montagne di cenere, vediamo tutta la catena di montaggio dello sterminio pianificata secondo la più sofisticata ragione tecnica attraverso Saul, i suoi occhi, la sua mente. Anche se noin ci sono inquadrature in soggettiva, tutto è visto e filtrato dal suo punto di osservazione. Con il risultato, mai raggiunto prima, che allo spettatore sembra di partecipare lui stesso all’orrore, di esserci dentro, di contaminarsi lui stesso con il sangue, lo sporco, anche con l’odore dei cadaveri. Il film gioca il suo destino e il suo esito tutto sul rigore assoluto e la coerenza della scelta di Nemes. Il quale non solo non abbandona mai (o rarissimamente) Saul, ma ci mostra solo quanto rientra nel suo raggio visivo, mentre ciò che sta più in là e intorno è sfuocato, sgranato, annebbiato…

Una desesperación y constancia por cumplir su objetivo; que aparecen perfectamente ejemplificadas en una escena donde la única esperanza de que su meta llegue a alcanzarse estará a punto de esfumarse a consecuencia de un peligro inminente. El protagonista dejará claro entonces, que prefiere dar su vida por salvar el alma de un muerto. Este malestar se traslada de escena a escena, alcanzando su punto álgido en el desgarrador encuentro en el que Saúl se cruza de forma efímera con un ser querido, tras un larguísimo período sin saber nada de él. Ese momento, ese choque de miradas, es una de las más descorazonadoras secuencias del cine moderno, dando como resultado un doloroso instante de incapacidad absoluta que se salda con una mirada de preocupación y angustia capaz de exteriorizar, como no podrían hacerlo ni mil palabras, el tremendo horror, sufrimiento y desgarro afectivo que siente el personaje principal al ser incapaz de proteger aquello que más quiere en el mundo.

Sea como sea, no hay duda posible tras el visionado de El hijo de Saúl (Son of Saul)que la capacidad del realizador y guionista para transmitir a través de la narración esa sensación de estar ahí (similar al enfoque más propio del documental), combinada con la impresión de observar el drama desde la lejanía o la distancia, resulta francamente perturbadora. Como la plegaria que en la película se convierte en sinónimo de prueba incriminatoria, el trabajo del autor resulta imponente tanto por la capacidad de innovar dentro del lenguaje propio del medio, como por hacerlo en un contexto ampliamente recurrido por decenas de realizadores. Nemes demuestra que es capaz de superar la crisis posmoderna de la palabra que tanto preocupa a lingüistas desde hace tiempo, a la vez que confronta con un ejemplo verídico y reconocible por la mayoría la necesidad inaplazable de reflejar a través del arte nuestra realidad más inmediata.

Il miracolo sta nell’efficacia con cui in Il figlio di Saul viene mostrato l’aspetto forse più orribile dei campi di sterminio, il ruolo dei Sonderkommando, gruppo speciale istituito dai nazisti che sceglievano arbitrariamente dei prigionieri ebrei perché fossero d’aiuto nell’uccisione degli altri internati. Una soluzione, quella adottata dai tedeschi, che ha finito per alimentare per decenni un terribile senso di colpa in chi si è ritrovato a svolgere quel compito.
Senza sovrastrutture ideologiche o verbalizzazioni inutili, Nemes ci dice tutto visivamente. Seguendo o anticipando infatti il suo protagonista Saul con una macchina a mano stretta sul suo volto e sul suo corpo, il film ci illustra tecnicamente come il ruolo del Sonderkommando fosse quello, mostruoso, di ‘stare in mezzo’, né con i nazisti né con le vittime. La loro funzione di supporto logistico li portava a disumanizzarsi e a vedere senza guardare, ed ecco perché i corpi affastellati appaiono spesso fuori fuoco (dato che vediamo nitidamente solo il volto di Saul) ed ecco perché i nazisti sono inquadrati raramente e si sentono soprattutto le loro voci e le loro urla belluine. Quasi come un automa, Saul esegue i suoi compiti, come se si trovasse a fare da semplice addetto alle pulizie (lavando il sangue, svuotando le tasche delle giacche dei morti, accompagnando alla docce i prigionieri).
Saul dunque sa, ma ha deciso che non vuole – e non deve – vedere…

Non c'è un solo secondo di tregua per Saul, nessuna zona franca. Nei campi puoi solo trovare rari momenti per parlare e il parlare è sempre sussurro. Intorno a Saul muoiono persone, in tutti i modi. E lui sembra quasi impassibile, un misto tra rassegnazione e forza di volontà.
Sembra quasi assurdo che in quel mondo in cui la morte ti circonda continuamente e in cui in quelle zone sfocate c'è sempre un pericolo ci sia questo uomo che se ne gira quasi a casaccio, rompendo più volte le file, per cercare un rabbino che lo aiuti a seppellire un corpo.
C'è qualcosa che non torna in questo comportamento.
Come trovarsi in una folla che scappa dalla morte e preoccuparsi di qualcosa che con quella morte e la tua vita da preservare non c'entra nulla.
Eppure quando hai una ragione di vita, qualcosa a cui vuoi dare per forza un senso, la coerenza non esiste più.
E in quella terribile e magnifica scena al buio con quei corpi nudi che si avvicinano a delle fosse rischiarate da fuochi, la pazzia di Saul è così evidente che si spoglia ed è pronto a morire senza nemmeno lottare...

…Nemes, che ha avuto parte della famiglia assassinata ad Auschwitz e ha sempre trovato frustrante la miticizzazione insita nei film sui campi, ha trovato ispirazione in Requiem per un massacro di Elem Klimov (1985), soprattutto, ha adattato e assemblato le testimonianze di veri membri dei Sonderkommando di Auschwitz, Le voci sotto al cenere, conosciuti anche come i Rotoli di Auschwitz.
Nella parabola di Saul, tra il caldo dei forni, il sudario del figlio, i seni dei cadaveri scorciati, le esecuzioni e la fabbrica dell’intesa estinzione di massa degli ebrei, intuiamo davvero, come forse mai prima, che cosa è stato l’Olocausto lì e allora, nella geometria della morte del campo: Son of Saul è uno zombie movie, ce lo dice che stiamo vedendo morti che camminano e altri che non camminano più, soprattutto, lo fa davvero senza mitizzare, senza falsa speranza, ma senza nichilismo, piuttosto con quella umanità intesa quale assenza.
E’ un grande film, da premio e premio importante qui a Cannes, che rinnova la letteratura filmografica sul tema, riportandoci lì in carne, ossa e dolore dove tutto è iniziato. La fine dell’uomo, il carnefice, la vittima e chi sta in mezzo, il Sonderkommando, una vittima diversa. Non perdetelo.

lunedì 25 gennaio 2016

Desde allà (Ti guardo) - Lorenzo Vigas

vincitore del Leone d'Oro all'ultimo festival del cinema di Venezia, abbastanza a sorpresa, essendo anche un'opera prima.
tratto da un racconto di Guillermo Arriaga (scrittore e sceneggiatore dei primi film di Iñarritu) è una storia glaciale, ambientata nella stessa Caracas di Pelo Malo.
è un film misterioso, nel senso che molto resta sconosciuto allo spettatore.
Alfredo Castro è il protagonista del film, gli piacciono i ragazzi, meglio da lontano.
con Elder il rapporto si complica, diventa un rapporto di odio/amore, e la figura del Padre è il protagonista assente del film.
non è un film per tutti, si potrebbe dire, lento, freddo, più sguardi che parole, e per giunta solo in una ventina si sale, e addirittura vietato ai minori di 14 anni, ma tutti quelli che lo vedranno difficilmente si pentiranno di averlo visto - Ismaele






…Armando sa, per formazione socioculturale, che avrà sempre il coltello dalla parte del manico in un Venezuela diviso in caste destinate a non interagire, se non in termini di violenza e sopraffazione. In quella struttura gerarchica non può esistere una terza possibilità di comunicare, né con i corpi né con le parole, cui spesso Vigas sostituisce genialmente i suoni d'ambiente - il trapano che sembra implorare pietà con il suo gemito stridulo e insistente, il fruscio del denaro che sancisce l'accettazione fuori campo di uno scambio mercificatore. 
Niente di tutto questo è "normale" ma è tutto quotidiano, e dimenticare i propri peccati, come singoli e come nazione, sembra la regola non scritta, eppure da tutti ben compresa. Tutti meno Elder, antieroe pasoliniano tracimante rabbia e tenerezza, commovente nello sfoggiare la maglia numero 10 degli attaccanti e dei fantasisti del pallone, e invece confinato a un'officina e a una baraccopoli di Caracas. In un Paese di cattivi padri ai figli, e ai figli dei loro figli, non resta spazio per trovare la propria umanità, o la propria identità maschile. Ed è proibito colmare le distanze che fanno comodo a pochi: ma sono i pochi che contano.

Desde allá è un notevole ritratto psicologico di “un uomo che non riesce a stabilire relazioni emotive con gli altri”, come rileva lo stesso regista nella nota di produzione. Ma è anche il prodotto di una società, di due società, che, davvero, non riescono a parlarsi. Figurarsi a trovare un’osmosi.

 Signori, questo è un film grandissimo, altro che i bellocchismi applauditi come capolavori a questo festival. Concede poco, anzi niente al medio sentire, contraddice, nega e perfino distrugge un bel po’ di certezze ideologicamente consolidate. Ma il cinema (anche) questo dev’essere, deve aprire nuovi varchi nelle percezioni nostre, e di tutti. Se no che si viene a fare ai festival? Certo, il dubbio che una storia così non possa esistere in natura – intendo, nella realtà – e che si configuri come la proiezione schermica di una fantasia gay, è piuttosto forte. E però quante volte abbiamo visto storie inverosimili diventare vere? Quel che importa è che una narrazione abbia una sua coerenza interna, non che rifletta il mondo, e qui la coerenza c’è. Alfredo Castro è immenso nella sua recitazione atona e assente, e invece intimamente pulsante, che ha imparato a mettere a punto nei film di Pablo Larrain, da Tony Manero a Post-mortem al recente, e non ancora arrivato in Italia, El Club. Io spero che Desde Allá si prenda un premio importante, se lo merita, e lo aiuterebbe a superare le polemiche che di sicuro si tirerà addosso. Nei credits nomi di peso del cinema latinoamericano: il messicano Guillermo Arriaga, lo sceneggiatore di Babel e 21 grammi, che con Lorenzo Vigas ha collaborato allo script, ed è un avallo che conta. E un altro nome illustre benché ancora giovane. Quel Michel Franco, pure lui messicano, che allo scorso Cannes ha sconcertato molti con il suo Chronic, portandosi comunque a casa il premio per la migliore sceneggiatura, e che qui figura come coproduttore.
Updating: coproduce anche Edgar Ramirez, l’attore venezuelano diventato famoso con il film tv Carlos di Olivier Assayas.

Desde allá es una película desgarradora, dura y que nos muestra la parte más árida de la vida, los duelos internos que los personajes esconden bajo la piel, tras una capa de exagerada virilidad en un caso, o de semblante imperturbable y rechazo del contacto físico en el otro. Elder, como parte de una tribu callejera de delincuentes se enfrenta a la radical homofobia que se respira en las calles o en el ámbito familiar, mientras que Armando envuelve el dolor de su pasado bajo esa capa de onanismo e impasibilidad, sin dar rienda suelta a los pálpitos de sus emociones. Dos actuaciones altamente naturalistas al servicio de una ópera prima que sugiere más que muestra, que engorda sus habilidades comunicativas con el paso del minutero y que refleja una dimensión emocional entre dos hombres poco o nada explorada en el historial cinematográfico reciente…

Ti guardo è un puro e semplice melò che non diventa strumento di riflessione ad ampio raggio, e che non vale molto nemmeno come “oggetto di genere”, tradendo spesso una sorta di malafede stilistica (dopo tanto “realismo”, Vigas non si nega il piacere di una leccatissima sequenza sugli scogli). Il film si adagia piuttosto in uno scontato determinismo sociale (squallide condizioni di vita = squallidi rapporti umani), che non sempre trova una vera giustificazione nella vicenda narrata. E sul fronte del melodramma astratto, Vigas si affida a conclusioni psicologiche rozze e meccaniche, anche decisamente superate dalla storia (l’equazione omosessualità-problema con la figura paterna è irricevibile). In tal senso, l’avvio interessante e le prove sostanzialmente buone dei due protagonisti si disperdono in uno svolgimento debole e prevedibile, che si affida alle sequenze “forti” soltanto per far sobbalzare i benpensanti ed evidenziando così una falsa coscienza di fondo (se pensi di creare scandalo astrattamente intorno a un rapporto completo omosessuale, il primo benpensante sei tu)…

giovedì 21 gennaio 2016

Revenant - Alejandro González Iñárritu

il film inizia con lo sfondo economico sociale del tempo.
i bianchi, di origine europea, dipendenti per la sopravvivenza dalle imprese del tempo, a metà fra banditi e accumulazione originaria, il peccato originale dell'economia, sono complici e spesso convinti complici del genocidio degli indiani e lo sterminio degli animali, gli indiani li uccidevano per la sopravvivenza e il consumo, le imprese (e i bianchi) per l'accumulazione, sterminio di specie intere per le pellicce (anche oggi si fa, anche con animali allevati apposta per essere scuoiati, per non parlare di tutti gli altri, la specie umana fa proprio schifo, ma questo è un altro discorso).
i personaggi del film sono dentro lo spirito del tempo, ingabbiati in ruoli che altri hanno deciso per loro, sono uomini che si credono liberi.
Hugh Glass (Leonardi Di Caprio), come Dustin Hoffmann in Piccolo grande uomo, ha vissuto con gli indiani e ha un figlio, Hawk, al quale vuole un gran bene, figlio della donna indiana che ha amato e non c'è più.
il film è la storia di una vendetta, in mezzo a una natura madre e matrigna, ai limiti della sopravvivenza, è girato sopratutto in Canada, ma anche nella Patagonia argentina e in Messico.
grande la fotografia, grande la regia, bravi e bravissimi gli attori, più di due ore di quella terribile e mortifera ossessione che è la vendetta, a volte il film rischia di essere troppo freddo (non solo per la neve), troppo maniacale, a volte sembra ripetitivo, e però così è, prendere o lasciare.
anche con i difetti, io prendo, è cinema di serie A.
vedetevelo anche voi, non è film da salotto di casa, il cinema vi aspetta - Ismaele





Lasciando da parte per un attimo le chiacchiere varie su Leo e l'Academy, penso sinceramente che Inarritu abbia battuto il se stesso di un anno fa. Insomma, non ci sono dubbi, il punto di forza del film è proprio la regia, una delle più sublimi e piacevoli che abbia mai avuto il piacere di vedere…

Tom Hardy was concerned about the safety of some of the stunts he had to do, which caused friction between him and director Alejandro González Iñárritu before Gonzalez allowed Hardy to choke him in return. Later, the image of Hardy strangling Gonzalez was immortalized in a T-shirt gifted by Hardy to all members of the crew, at the end of the shoot.

Prima di iniziare ufficialmente le riprese, ad Alberta, il cast e la troupe si sono riuniti lungo le rive del Bow River e a ognuno è stata consegnata una rosa rossa.
Il consulente culturale della tribù dei Blackfoot (Piedi Neri) Craig Falcon, ha guidato una cerimonia, insieme agli anziani della tribù Stoney, per benedire il film, le creature e la terra.

Dopo la benedizione, Iñárritu ha chiesto alle 300 persone presenti, di tenersi le mani in silenzio, poi, tutti insieme, sono entrati nel fiume per spargere i petali di rosa…

Un film potente e viscerale, magnificamente fotografato e montato e con due protagonisti strepitosi. Potremmo chiuderla qui e nominare Revenant – Redivivo come uno dei più bei survival movie hollywoodiani di sempre (e in effetti il primo posto potrebbe anche starci). Eppure non tutto il film riesce a mantenersi sui livelli sontuosi della prima parte, qua e là diventa più risaputo e prevedibile e l’ultima parte (escluso un duello finale in odore tarantiniano) si siede un po’. Avercene comunque di film simili…

Squilibrato e poco coeso, produttivamente e visivamente grandioso, quanto narrativamente difettoso (il personaggio di Hardy e quello del giovane Domnhall Gleeson esibiscono dialoghi e azioni che spesso difettano in credibilità) Revenant è un film che va approcciato evitando il più possibile i pregiudizi; non lasciando che la diffidenza verso un autore evidentemente innamorato della sua estetica (prestato qui alla Hollywood più magniloquente) intacchi la serenità della valutazione. Iñarritu, al contrario, sembra trovare per larga parte del film una sua ideale dimensione, nella narrazione di una vicenda apparentemente lontana dalle sue corde; mostrando un’evoluzione che, al netto delle evidenti cadute di tono e velleità “autoriali” (nel senso più deteriore del termine) potrebbe portare più di una sorpresa nei successivi sviluppi del suo cinema. È invero questa, più che le poco entusiasmanti discussioni sul numero di statuette che il film riceverà (e sul raggiungimento o meno di questo traguardo per il suo protagonista) la curiosità più stimolante che la visione di questo film ci ha lasciato.

L'ho visto sabato, l'ho ripensato e ponderato mentalmente domenica e oggi scrivo due considerazioni piuttosto diverse da quelle che avrei pensato di scrivere prima di vedere il film.
Confidavo in mie sperticate lodi e in quel tipo di entusiasmo da capolavoro che ti fa esagerare nell'uso di aggettivi trionfali, e invece sarò tiepida, a tratti delusa.
Revenant me l'aspettavo diverso: più narrativo, più romanzesco e psicologicamente raffinato, più dinamico, più epico.
Invece è un film basic, fatto di istinti primordiali, natura impervia che troneggia fiera per tutte le due ore e mezza della pellicola, silenzi sconfinati che fanno parlare la disumanità del paesaggio, motivazioni essenziali, dominio della sopravvivenza minima e un tipo di uomo che si fa animale, selvaggio, belluino, basilare….

martedì 19 gennaio 2016

Enemy – Denis Villeneuve

la storia è tratta da un grandissimo romanzo di Josè Saramago (qui).
poi Denis Villeneuve, da par suo, ne tira fuori un'altra cosa, secondo me, ed è un'opera che cita grandi film della storia del cinema.
quella di Villeneuve è la storia di un'ossessione, carica di riferimenti e rimandi, i due sosia sono magari uno, tutto quello che vediamo non avviene davvero, chi è buono e chi cattivo non si sa, la parte buona e cattiva convivono in Adam/Anthony, che di sicuro non sono sereni con le donne.
è la seconda volta che lo vedo, a distanza di qualche mese, si apprezza meglio la seconda volta, e non escludo altre visioni.
forse la prima volta  mi ha frenato pensare a Saramago, in realtà Enemy è di Denis Villeneuve.
non è mai arrivato in sala, purtroppo - Ismaele

ps: per alcune spiegazioni, se lo sono davvero, e se servono (ma solo dopo aver visto il film), leggete qui







Prima di tutto Villeneuve è riuscito a fare quello in cui in passato tanti avevano fallito: portare sul grande schermo la rivisitazione in chiave cinematografica di un romanzo di José Saramago. Ci aveva provato ad esempio Fernando Meirelles con Blindness ma i risultati erano stati ben poco soddisfacenti. Troppo lineare, schematico, ben definito, tutto l’opposto della creatività geniale del portoghese premio nobel per la letteratura. Saramago è etere, è intrigo, è intreccio apparentemente scollegato, è tutto e il contrario di tutto, difficile riproporlo. Sicuramente Villeneuve, pur rimandendo piuttosto fedele al romanzo in sè, ne dà una sua personalissima interpretazione, rivisitandolo in chiave moderna. Enemy è quindi una rilettura dell’originale che prende vita e riesce, proprio nel momento in cui, intelligentemente, se ne distacca…

… Inutile dire che non è stato distribuito. Ritengo sia uno dei migliori film di Villeneuve (e uno dei miglior thriller psicologici degli ultimi anni), sicuramente il più personale (e quindi anche più vero)…e sicuramente più di Prisoners che viceversa lascia molto a desiderare, poiché tralascia molti spunti interessanti da approfondire a favore di un scialbo tentativo di catturare lo sguardo dello spettatore medio (che tra l’altro è rimasto colpito a quanto mi sembra di ricordare) un mero prodotto hollywoodiano di seconda se non terza categoria. Certe cose mi fanno proprio innervosire.
Invisibile a malincuore.

Real quick plot summary here.  History prof Adam (Jake Gyllenhaal) discovers that he has a doppelganger, a bit part actor named Anthony (also Gyllenhaal, duh).  He tracks him down and their lives become intertwined, with Adam’s girlfriend Mary (Sarah Gadon) and Anthony’s pregnant wife Helen (Melanie Laurent) getting caught in the middle.  Also, spiders.
Chances are if you’ve heard about this film, you’ve heard about the final shot.  And yeah, it is a doozy of a shot.  It’s one of the best final shots I’ve seen in a long time.  It really blew me away.  And it made me wish I had enjoyed all the stuff leading up to it more.  I would like to think this is a movie that works at establishing a Lynchian (is the casting of Isabella Rossellini as the mother an homage?) atmosphere rather than a cryptic puzzle waiting to be solved.  Then I wouldn’t have to feel so frustrated by it.  But director Denis Villeneuve has apparently made clear in interviews that there is an explanation for everything, and the film opens with a line from the novel — “Chaos is order yet undeciphered” — that also suggests the story can be pieced together…

…L’intenzione era quella di catapultare lo spettatore in un’esperienza onirica la cui interpretazione maturasse dentro lo spettatore, attraverso sensazioni e simboli, invece che tramite una chiara verbalizzazione maieutica.
Il dato è da sottolineare perché il pregio (o, per alcuni, la fonte di massima irritazione) del film è quello di usare un linguaggio che non narra un’esperienza attraverso gli occhi del protagonista, ma la fa vivere narrandola come se fosse rielaborata dall’inconscio del protagonista.
Per cui è del tutto plausibile l’implausibile e reale e simbolico si fondono progressivamente fino ad arrivare all’apice immaginifico di un enorme ragno che si muove minaccioso tra i palazzi di Toronto.
Il caos è un ordine da decifrare è l’incipit tratto dal libro di Saramago nonché il manifesto del film...

…"Enemy" es una obra siniestra y misteriosa, en la que la paranoia extrema de la trama se ve acompañada por un estilo visual contundente, hasta el punto de que, pese a la falta de escenas sangrientas, el conjunto posee un sabor violento y cercano al de una historia de terror. Y éstas son intenciones que se hacen evidentes desde el inicio, porque desde su presentación misma, Adam demuestra que es un tipo miserable, marcado por circunstancias que no logramos imaginar, pese a que tiene una existencia aparentemente tranquila y satisfactoria.
Su obvia incomodidad ante la vida se ve acentuada por un insólito descubrimiento que se produce cuando un compañero de trabajo lo motiva a ver en DVD una cinta local independiente, en una de cuyas escenas descubre a un actor secundario -en realidad, un extra- que luce exactamente como él. Desde entonces, la necesidad de encontrar a este tipo (que sí, es Anthony) se vuelve completamente obsesiva, lo que lleva a Adam a tomar ciertas decisiones imprudentes…
Jake Gyllenhaal si sdoppia, doppio ruolo e doppio talento, rimbalza senza esitazione da un personaggio all’altro, confondendosi e confondendoci, trascinando se stesso e lo spettatore nel caos; si sdoppia anche nel suo rapporto col regista, girando prima Enemy e poi Prisoners, che però lo precede al cinema. I due film si sovrappongono però solo cronologicamente, sono entità diversissime, anche se entrambe di livello ottimo: Denis Villeneuve è entrato ufficialmente nel club dei grandi, dei cineasti con una idea di cinema, e con coraggio da vendere…

…Soprattutto per Adam il cambiamento sarebbe rivoluzionario (e lo vivrà commosso come l’inizio di un nuovo amore), per Anthony costituirebbe una via di fuga e l’occasione di possedere un’altra donna sotto la formalità di esserne il partner.
Quella che vediamo sullo schermo sembra la messa in scena di un disturbo narcistico della personalità da manuale, doppelganger, riconfigurazione dell’identità e reinvenzione di sé compresi.
Adam e Anthony cedono a pulsioni ormai cieche e solo attraverso un evento tragico potrà essere ristabilito un ordine.
Adam a lezione cita Marx (La storia si ripete due volte, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa) e l’inquietante ironia del film risiede proprio in quella frase: saltati dalla loro ragnatela, Adam e Anthony non hanno fatto altro che ritrovarsi intrappolati in quella dell’altro.
E quell’oscuro ragno psichico comparirà di nuovo in un finale surreale e spiazzante.

domenica 17 gennaio 2016

Il Labirinto del Silenzio – Giulio Ricciarelli

un giudice ragazzino alla caccia dei carnefici nazisti riesce, dopo anni di indagini, a istruire un processo per ricordare il passato recente, quello delle SS e della guerra perduta, per fare i conti con quello che stava sotto la sabbia, nascosto e intoccabile.
il film racconta anche quel muro di gomma che rende tutto difficile, quasi impossibile.
ma tutto è scritto, tutto si può ricostruire e qualcuno vuole farlo.
apparati dello stato, doppia morale, cavilli giuridici, ma chi te lo fa fare, tutte cose che da noi si capiscono benissimo.
quello che colpisce è la banalità del male, e il combattimento fra la forza dell'oblio e la forza del ricordo.
è stato candidato tedesco per il miglior film straniero all'Oscar, anche se non è arrivato alla cinquina finale, e miracolosamente nelle sale italiane, addirittura una trentina.
il film non è straordinario, parla di Auschwitz, ma niente sensazionalismi, l'unica cosa che fa vedere è un numero su un braccio, ognuno capisca e veda da sè, è solo un film che racconta la storia di un'ossessione, e la scoperta della realtà, a volte didascalico, un buon esempio di cinema civile.
buona visione - Ismaele





Mescolando personaggi reali (il giornalista Thomas Gnielka e il procuratore Fritz Bauer, a cui il film rende omaggio) e di finzione (il protagonista ‘composto’ da tre procuratori esistiti), l’autore realizza un dramma giuridico e personale storicamente irreprensibile. Film-dossier sobrio ed efficace, Il labirinto del silenzio scorre una pagina rilevante della storia in fondo alla quale il male avrà finalmente “un nome, un viso, un’età, un indirizzo”. Divorato dall’interno e ‘aggredito’ dall’omertà dominante, il protagonista ostinato di Alexander Fehling si fa carico del passato della nazione. Convinto di vivere nel paese migliore del mondo, come cantano i bambini nel cortile della scuola, Radmann non riesce davvero a immaginare cosa siano stati i campi di sterminio spacciati per ‘campi di detenzione preventiva’. Ma l’enormità della menzogna non tarda a travolgere il protagonista convinto di indagare su un omicidio e smentito dalla realtà che emerge lo sterminio di massa. Due anni dopo il processo Eichmann a Gerusalemme e vent’anni dopo il processo di Norimberga, ventidue criminali nazisti (soltanto sei saranno condannati all’ergastolo) compariranno davanti al tribunale di Francoforte. Momento capitale nella storia recente della Germania, il ‘secondo processo di Auschwitz’ apre una fase volta alla sensibilizzazione della magistratura e dell’opinione pubblica sul tema delle colpe e delle responsabilità della Germania durante la guerra. Assumere il proprio passato divenne da allora un dovere morale per tutto il Paese. 
Teso e appassionante come un polar, Il labirinto del silenzio svolge una partitura inquisitoria che bracca i cattivi, confronta superiori, gerarchi e subordinati e interroga il silenzio degli aguzzini e quello delle vittime, barricate dietro il loro dolore. Perché il film, attraverso il personaggio di Simon, tratta (anche) l’isolamento dei sopravvissuti, la difficile integrazione in Germania come in Israele, l’impossibilità di dire a chi ignorava l’ampiezza dello sterminio. Ma il film trova le parole, quelle della legge e quelle del Kaddish che Radmann e Gnielka reciteranno per i bambini di Simon lungo il perimetro spinato di Auschwitz. Il silenzio è rotto.

La pellicola risente, tuttavia, di quella che è una delle pecche maggiori del cinema tedesco contemporaneo (con poche eccezioni) ovvero un’estetica di stampo fortemente televisivo in cui la regia, pur nella sua accuratezza, è assolutamente subordinata alla sceneggiatura, che a sua volta scorre perfettamente nei binari della sua prevedibilità (quantomeno per chi i fatti li conosce già). La società tedesca dell’epoca, appare bozzettistica, sopra le righe, quasi caricaturale nei suoi inserti legati alla vita quotidiana, precisi e prevedibili contrappunti alla vicenda giudiziaria che si fonde con il percorso di presa di coscienza del giovane procuratore, con tutti i suoi altrettanto prevedibili dubbi, rinunce, convinzioni fino alla vittoriosa entrata nell’aula giudiziaria. Uno dei meriti, comunque, è quello di aver rispettato lo spirito di Bauer nel volersi misurare con la questione soprattutto da un punto di vista legislativo, evitando con pudore la retorica sensazionalistica di tanti “Holocaust-film”(ebbene sì, è diventato un genere negli anni ’90). Lasciandoci indovinare l’orrore delle testimonianze dei sopravvissuti, che ormai ben conosciamo, dai volti impietriti di chi per la prima volta raccoglieva i loro racconti.
da qui

Il labirinto del silenzio trova la sua necessità nel raccontare un processo giudiziario che si tenne contro dei membri delle SS nella Germania Ovest della fine degli anni Cinquanta. Un fatto, come detto, poco noto e spesso sottovalutato: non a caso, tutti quanti ricordiamo il processo di Norimberga, ma in pochi si soffermano a riflettere sul processo di Ulm o su quello di Francoforte, dibattimenti che per la prima volta fecero sì che i tedeschi stessi potessero mettere sotto accusa i loro connazionali che avevano aderito alle SS.
La tesi che porta avanti Ricciarelli è semplice quanto efficace: la Germania della ricostruzione – quella di Adenauer – aveva rapidamente rimosso i crimini nazisti, con lo scopo – naturale, ma anche vigliacco – di tornare rapidamente alla ‘normalità’. Con Norimberga – che ovviamente non era stato condotto dalle autorità tedesche, ma da quelle alleate – erano stati condannati soprattutto i capi, mentre invece i vari ‘esecutori degli ordini’ erano rimasti in libertà, mimetizzatisi nella neonata Repubblica Federale Tedesca, chi a fare il lattaio, chi addirittura il maestro elementare.
Nel momento in cui allora un giovane e ingenuo Pubblico Ministero si imbatte nella faccenda, trova immediatamente l’ostilità generale. Ed è su questo tracciato dunque che si muove Il labirinto del silenzio, laddove il progredire dell’inchiesta finisce per coinvolgere più persone di quel che il giovane giudice potesse pensare inizialmente, tanto da arrivare a porsi delle serie domande sulla natura del padre morto durante la guerra… Era anche lui colpevole? E poi: se anche il padre della sua ragazza fosse stato un nazista e fosse tuttora un nostalgico del Terzo Reich?
Il labirinto del silenzio non si regge dunque su particolari svolazzi registici, né sulla attenta caratterizzazione dei suoi personaggi, né tantomeno su una abborracciata storia d’amore o sulle doti recitative dei suoi interpreti (il protagonista Alexander Fehling è decisamente privo di carisma), quanto su una solidità di scrittura, piana e sostanzialmente corretta, che permette di condurre a un crescendo inesorabile e a una progressiva acquisizione di consapevolezza che, per dirla alla De André, la si potrebbe sintetizzare in “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”. Ed è qui dunque che risiede il fascino principale del film, nella sua capacità di dimostrare come un fatto pubblico – la necessità di condannare dei criminali di guerra – arrivi a connotarsi come fatto privato, vale a dire che nessuno può dirsi innocente…

In Il labirinto del silenzio tutto quello che solitamente i film sulla shoah si fanno vanto di mostrare viene negato, viene raccontato, evocato e messo nella testa degli spettatori senza effettivamente mostrarlo. Il genere in assoluto più crudo e impietoso rinuncia alla sua caratteristica primaria, quella sorta di missione di cui si autoinveste e che consiste nel mostrare l’orrore perché nessuno dimentichi, calcando la mano con le armi del cinema quanto più possibile sulla crudeltà e l’infamia, la mancanza di umanità e il dolore. Come se quello fosse l'unico metro su cui si giudica la correttezza morale del genere (quando invece è più probabile il contrario). Questo avviene perché Il labirinto del silenzio in realtà è più un film sulla Germania che si è opposta al nazismo che uno su quella nazista…

…la película se va armando como una suerte de thriller legal, con Johann entrevistando testigos y acusando a criminales en un momento, para después luchar contra sus propias dudas y la inevitable paranoia de estar rodeado por sus enemigos. Pero donde se nota la diferencia con el estilo del cine norteamericano, es cómo esto es situado en segundo plano: la cinta no busca acelerar el pulso de su público, sino que ir enseñándoles sobre una parte importante de la historia moderna de occidente. En este sentido, trabaja muy a su favor la cinematografía. Usando tomas rápidas y planos más amplios únicamente cuando estén del todo justificados, “Laberinto de Mentiras” decide avanzar sólo cuando ha terminado de trabajar uno de sus aspectos por completo. Es de esta manera como logra el complicado equilibrio entre llenar al espectador de la información suficiente y mantener un ritmo que resulte atractivo.
Así, el arma secreta de la película son los breves destellos humorísticos que emplea de vez en cuando. Son chistes muy sutiles y un poco absurdos, pero que vienen en los momentos más adecuados, como si su propósito fuera recordar que en la vida no sólo hay tragedia…

martedì 12 gennaio 2016

Nobody Knows (Dare mo shiranai) - Hirokazu Koreeda

si inizia ridendo e scherzando, come in tutti i drammi che si rispettino.
una mamma con quattro figli trova loro una casa, e sparisce.
Akira, il figlio più grande, ha 12 anni e fa da padre e madre i fratelli.
sono segregati, non devono uscire mai, alla fine Akira non riesce a non fargli "assaggiare" la libertà, anche se solo per poche ore.
aspettano la madre, ma ogni giorno di meno, i soldi non ci sono più, Akira, Kyoko, Shigeru e Yuki non esistono, sono invisibili, fino a quando...
si soffre molto, a vedere il film, e non si può fare niente, si è impotenti.
il regista è bravissimo (come gli attori bambini) a raccontare la banalità del male, senza scene madri, senza pietismi, un piccolo capolavoro sull'indifferenza e sul dolore con gli occhi e i pensieri di Akira, Kyoko, Shigeru e Yuki.
bambini così li avremo incontrati di sicuro ma nobody knows.
non perdetevelo, lo sforzo della ricerca sarà compensato dalla visione, siatene certi - Ismaele





QUI il film completo con sottotitoli in inglese

…Akira is played by Yuya Yagira, who filmed the role over 18 months, during which he grew a little and his voice broke. It is not just a cute kid performance, but real acting, because Kore-eda doesn't give him dialogue and actions to make his thoughts clear, but prefers to observe him observing, coping and deciding. Yagira won the best actor award at Cannes.
What is most poignant is the sight of these kids wasting their lives. Kyoko asks her mother if she can go to school, but her mother laughs and says she will be happier at home. Akira was in school at one point, and studies his books at night, until finally his only subject is arithmetic -- figuring how much longer their money will last. There's a wistful shot of him looking at kids in a schoolyard, and one idyllic moment when he is asked to join a baseball game, and given a shirt and cap to wear…

Nobody Knows è un’opera articolata che affronta molti dei temi cari al regista: quello della morte e della perdita, in particolare in uno dei passaggi più intensi, vale a dire quello della morte della piccola Yuki; quello della natura, nel senso, come è stato efficacemente sostenuto, del “trapasso verso una logica selvatica” dei bambini, del loro riconoscersi in una sorta di identità naturale. Anche la madre (interpretata dalla star televisiva You) ha, a ben vedere, un’attitudine “selvaggia” e istintiva nei loro confronti, come un animale che sposta i propri piccoli in un nuovo nascondiglio nel momento in cui sente il pericolo.
Koreeda tratteggia – come al solito - splendidamente il mondo dei bambini, contrapposto a quello degli adulti, partendo dal loro punto di vista…

Para reflejar ese mundo infantil y cotidiano, lleno de cosas pequeñas, Kore-eda recurre a frecuentes primeros planos de rostros y objetos, buscando penetrar de esa manera en su interioridad. Lo hace con la delicadeza apuntada, con mil detalles que van calando en el especta-dor: la manera de recoger la tierra o de acariciar la maleta, de limpiar la pintura de uñas derramada o hacer la colada... Abundan tanto las escenas tiernas como las descarnadas, para concluir con un plano fi-nal congelado en el que los tres niños vuelven la cabeza mientras se van por la carretera, imagen que nos recuerda a la de Antoine Doinel en la playa de "Los cuatrocientos golpes" de Truffaut…

Il comportamento della madre, interpretata magistralmente dall’attrice You, è spiazzante, inizialmente sembra rassicurante, tratta con dolcezza i suoi figli e gioca con loro, successivamente si dimostra immatura ed egoista fino al punto di abbandonare definitivamente i suoi figli. Con l’abbandono della madre tutta la responsabilità della famiglia ricade sulle spalle di Akira costretto ad occuparsi dei fratelli più piccoli ed a provvedere alle loro necessità diventando, in tal modo, padre, madre e fratello maggiore. Disperato e straziante è il suo tentativo di mantenere unita la famiglia e di assicurare a tutti un’esistenza il più possibile vicina alla normalità. Il film descrive lucidamente l’odissea dei quattro ragazzi, un viaggio di cui nessuno sa niente, che tutti ignorano a causa dell’indifferenza del mondo e che non termina, come spesso siamo abituati, con un lieto fine…

…E' un film duro da sostenere, anche per la durata di 140', ma veramente bellissimo ed imperdibile. La caduta nell'inferno di questi bambini, che pure mantengono integra l'innocenza della fanciullezza, è lunga e ripresa con dettaglio, per gran parte solo con luci e suoni naturali, rarissime le musiche con però una canzone nel drammatico finale da pelle d'oca.
Ad un certo punto la segregazione non sarà più praticabile. Per lavare i panni od espletare i bisogni andranno in un parco vicino. Tanti quindi i momenti "pubblici" eppure proseguono nel loro isolamento sostanziale, nessuno pare accorgersi di loro tranne i pochissimi che li aiutano a procurarsi un minimo di cibo per non soccombere alla fame. Alcune inquadrature, coi bambini nello sfondo di una società affaccendata sono straordinarie e non danno spazio ad interpretazione.
Quante domande si saranno poste i giapponesi su come sia stato possibile un fatto del genere, e quante ce ne dobbiamo porre tutti, che anche in europa e molto di recente fatti di segregazione sono emersi seppure molto diversi.
Nessuno sapeva, ed in fondo nelle grandi città si ama poco chi ficca il naso nei fatti propri e quindi si crea una sorta d'indifferenza al prossimo mascherata dalla parola discrezione. Ci può stare in fondo, però quei bambini erano pur nati e nessuno ne ha mai chiesto conto. Possibile che nell'era dell'informazione e dell'analisi incrociata delle informazioni (è il mio lavoro nella vita privata, considerazione inevitabile) il fatto che una casa abitata non avesse più i collegamenti a servizi essenziali come acqua e corrente elettrica non ha destato interesse in nessuno? Chi mai poteva vivere lì?
Una storia di valore assoluto, difficile definire questo un "film asiatico".
Opera eccezionale che ha imposto Koreeda tra i registi giapponesi più amati anche in occidente. Io sono al terzo che vedo di lui e già 2 sono nell'Olimpo…

L’elemento tragico come già anticipato è fondamentale e necessario nelle tarde opere di Koreeda, in quanto è l’unico mezzo che crea l’empatia necessaria allo spettatore per comprendere appieno la storia rimanendone perciò folgorato e commosso: ma ciò deve avvenire non tanto per il film in quanto tale, in quanto intrattenimento o piacevolezza, ma bensì dall’entità stessa della storia, che ha lo scopo ben preciso di mettere in luce un aspetto della società anomalo o sottovalutato. In sintesi la pellicola del regista si traduce in un attacco spietato e incondizionato alla società e ai cardini che la regolano; nell’indifferenza generale di una mentalità diffusa troppo individualista e menefreghista, dove le madri abbandonano i figli addossando a questi tutte le responsabilità, e dove un’intera popolazione non si cura minimamente di tale situazione…