giovedì 30 luglio 2020

Impostor - Gary Fleder

un film tutto di corsa, tratto da una storia di Philip Dick.
gli alieni si trasformano in umani, sono praticamente uguali, e neanche loro sanno di essere alieni,
un film pieno di dubbi, una caccia senza quartiere.
il mondo è diviso fra ricchi e poveri, questa non è fantascienza, temo.
un film che si vede benissimo, cercatelo e guardatelo tutti, nessuno se ne pentirà, promesso - Ismaele







Per me questo film è stata una piacevolissima sorpresa in quanto non vi riponevo particolari aspettative ed è convincente sotto vari aspetti:l'impianto visivo (della serie anche l'occhio vuole la sua parte) dettagliato e convincente con un'aria orwelliana (nel senso di Grande Fratello) e particolari dal design affascinante;il ritmo che cresce col passare dei minuti,il finale in cui Fleder si diverte a giocare al gatto col topo con l'ignaro spettatore lasciandolo comunque con un palmo di naso.Sara'serieara' lontano da Blade Runner(con cui condivide il tema della ricerca dell'identita',siamo uomini o replicanti?)e da altri classici di fantascienza ma da appassionato ne vorrei vedere tutti i giorni di film cosi'...

Ho guardato Impostor non perché il film goda di un’ottima fama, di cui infatti non gode, né per la brillante carriera del regista Gary Fleder, che infatti non ha firmato neanche un gran film, e nemmeno per un interesse verso il cast, dal momento che i protagonisti sono tre attori di serie B, i cui visi si ricordano vagamente ma non in modo irresistibile.
Date queste premesse poco incoraggianti, perché allora mi sono visto Impostor?
Semplicemente perché il film è tratto da un romanzo del 1952 di Philip K. Dick, autore che, si sa, offre trame interessanti e spunti esistenziali altrettanto interessanti, solitamente sospeso tra veglia e sonno, tra realtà e finzione, e tra dubbi sull’identità.
Impostor, come suggerisce lo stesso titolo, punta tutto su quest’ultimo punto, e se lo trascina fino alla fine…
… una fine decisamente inattesa, ve lo dico subito…

Impossibile dire altro sul film senza rivelare la trama, per cui lascio la visione a chi sia interessato.
Di mio, mi limito a sottolineare che Impostor è un prodotto mediano: sufficientemente interessante, e pure sorprendente nel finale, tuttavia non brilla da nessun punto di vista, anche perché nel mentre, dal 1952 ad oggi, numerosi altri film hanno esplorato il tema del “replicante”, o hanno inscenato fughe precipitose da agenti governativi del futuro.
In definitiva, Impostor di Gary Fleder non è certo un film irrinunciabile, ma può esser visto…
… e risulta irrinunciabile solo per chi non vuol perdersi neanche un film tratto dai libri di Philip Dick.

La meilleure adaptation de Philip K. Dick pourrait-elle être une modeste et méconnue série B ? Pas la mieux filmée, ni la mieux jouée ou montée, mais la plus proche de l’esprit de l’auteur.
Impostor est l’histoire d’une paranoïa planétaire. L’humanité lutte pour sa survie face aux forces d’Alpha du Centaure. L’ennemi dispose de clones parfaits, dotés de la mémoire et d’une copie de l’âme de leur modèle… et porteurs de bombes indécelables. Le professeur Olham (Gary Sinise) est suspecté d’être un imposteur. Arrêté, il est drogué et torturé par le major Hathaway (très inquiétant Vincent D'Onofrio). Il s’échappe, la traque est lancée… Comment prouver son innocence ?...

Thriller psicologico, tratto da un racconto di Philip K. Dick, il celebre autore di fantascienza le cui visioni terrificanti e realistiche del futuro hanno ispirato film come “Blade Runner”, “Atto di forza” e l’imminente nuovo film di Spielberg/Cruise “Minority Report”, e diretto da Gary Fleder (“Il collezionista”), “Impostor” si avvicina ai noti classici del cinema che hanno per protagonisti dei fuggiaschi o individui con un identità messa a dubbio. Ma questo film va un passo più avanti aggiungendo l’idea tecnologicamente plausibile che Spence Olham (Gary Sinise, un eroe comune con il quel è facile identificarsi!) non sia neppure un essere umano.
Gary Fleder riesce a ricreare un’atmosfera inquietante che accompagna il nostro uomo alla ricerca di se stesso e noi spettatori, insieme a lui, a vivere e soffrire gli stessi dubbi in un gioco mutevole di fiducia e incertezze che sino alla fine riescono a tenere con il fiato sospeso. Ancor più inquietante ed angosciante se questi uomini (come l’implacabile inseguitore Hathaway/Vincent D’Onofrio o l’ambigua moglie di Olham, Maya, la sempre bella e brava Madeleine Stowe) si muovono in un futuro così simile alla nostra realtà da sembrarci tutto ancora più reale…


martedì 28 luglio 2020

Under the Silver Lake - David Robert Mitchell

a parte qualche citazione c'è anche un bel film.
Andrew Garfield non naviga nell'oro, le donne non gli mancano, meno una.
comincia a cercarla e cade in una serie di mondi paralleli, molti l'hanno vista, e lui attraversa quei mondi per trovarla.
il mondo ormai è diventato un mondo post-tante cose.
il film è una follia ed è anche molto bello.
David Robert Mitchell è bravo, fa pochi film, e buoni.
cercatelo e guardatelo tutti, non delude - Ismaele





riempie la sua opera di riferimenti al cinema: la ricerca alla ragazza del protagonista diventa quella alla citazione dello spettatore (incalcolabili i riferimenti più o meno diretti: non che sia una gara ma oltre a quelli già nominati sopra noi ne abbiamo trovati per La Finestra Sul Cortile, The Legend of Zelda, La Notte dei Morti Viventi, 2001: Odissea nello Spazio, L’Invasione degli Ultracorpi, The Neon Demon, 7th Heaven, Mulholland Drive, Come Sposare un Milionario, 20.000 Leghe Sotto I Mari, Addio Alle Armi, Il Mostro della Laguna Nera, Dracula, Reefer Madness, Psycho, Il Grande Lebowsky, L’Uomo Lupo, Gioventù Bruciata, Venerdì 13, Transformers, Il Cervello Che Non Voleva Morire, Riscky Business, Fa La Cosa Giusta, Giochi Maliziosi, Scream, The Leftovers, Ubriaco d’Amore, Viale del Tramonto, L.A. Confidential e tantissimi altri), in un gioco notturno per palati fini tanto dell’arte cinematografica in particolare quanto della cultura pop in generale.
E’ un film magnifico e indimenticabile Under The Silver Lake, con un impianto filmico lynchiano vestito del cromatismo shocking di La La Land, che parte dal noir ma che con andatura dinoccolata da stoner-movie si muove trasognato tra tutti i generi cinematografici che hanno costruito il mito di Hollywood creando una realtà-onirica che non esiste da nessun’altra parte nella storia del cinema se non qui.
Citazionista e surreale, scoordinato e inquietante, perverso ed erotico, brutale e psichedelico, parossistico, dissacrante, colto e soprattutto tremendamente (ir)riverente nei confronti del cinema e dell’aura purissima della Hollywood Classica, Under The Silver Lake è l’ennesimo trionfo della A24 e la cementazione del talento indipendente di David Robert Mitchell. Così indipendente che non lo conosce nessuno, per questo noi vi consigliamo di recuperarlo al più presto e in ogni modo possibile.

Under the silver lake è un vero casino.
Uno di quei casini che ti prometti di dover rivedere perché sicuramente in tutto quello che ti è passato davanti agli occhi non hai colto un certo particolare, dato che le informazioni nascoste sono una delle tematiche affrontate e su queste gioca in più occasioni, ma un tizio che ha visto tutto anche se non c'era mi ha detto che forse non era tutto così importante come volvano farci credere.
E' un neo-noir che tende alla commedia, omaggiando (ma va?) un certo periodo pynchoniano con questi fatti che avvengono, per essere dimenticati subito dopo e ripresi più avanti, mentre la storia prosegue e si aprono sempre più sotto-trame…

Mitchell nella sua poetica di ridefinizione e riscrittura dei generi, destrutturandoli e decostruendoli a partire da stereotipi e cliché già dati, si lascia qui sicuramente prendere la mano in una storia frammentata e sconclusionata; affastella un mosaico di rimandi alla cultura pop che finisce con il fagocitare ogni cosa, ogni senso ultimo, anche lo slancio romantico come motore dell’azione. Ma seguirlo in questo delirio stupefacente non lascia inappagati, è la rotta per andare sotto la superficie; permette di spostare ulteriormente lo sguardo per riconfigurare una mappa emotiva delle proprie magnifiche ossessioni in una rimediazione potenzialmente infinita del nostro immaginario.
da qui

si produce anche una prigione che circoscrive i limiti del visibile a ciò che sta attorno al protagonista Sam, unico nucleo accentratore della pellicola e unico punto di vista sulle vicende, costringendo ancora una volta lo spettatore a subire la parzialità e la fragilità del punto di vista di un protagonista debole e incostante, una vera e propria figura narrativa che avanza incespicando e facendo procedere il film con la sua continua esplorazione, anche stavolta una disperata quête (che ha un che di arturiano, anzi galahadiano) nella selva di segni che è il reale.
O che forse non è (il) reale, come si chiede Sam, un memorabile Andrew Garfield, ma una foresta di simulacri che esistono solo per essere ammirati e inseguiti, mettendo in luce, tramite la prospettiva delirante del film e del suo protagonista, il vero e proprio "impero dei segni" che è l’immaginificio hollywoodiano, la cui produzione massiva di icone non può essere resa che con la valanga di citazioni che riempie "Under the Silver Lake" e che in più di un momento fa legittimamente dubitare sulla presenza di una direzione per il progetto…

Questa cordata fra passato e presente viene resa ben evidente dalla ripetitività del processo citazionistico che, dall’onnipresente zio Hitchcock di La finestra sul cortile Vertigo, si muove a passo pesante fino ai brulicanti universi lynchiani di Velluto Blu Mullholland Drive, dando però vita a un’inzuppata decisamente troppo ricca e a rischio d’indigestione. La stuzzicante – e congestionante – glassa formale che viene stesa sull’intera baracca non può tuttavia nascondere il sapore di un racconto obiettivamente insipido e fine a se stesso, dove l’insistita astrusità degli accadimenti non può che portare lo spettatore a disertare ogni tentativo di raccapezzarsi, per lasciarsi infine cullare dal narcotico potere delle sole immagini, esattamente come in un incubo lisergico surrealista. A ben vedere il mood di Under the Silver Lake assomiglia moltissimo al cinema di Jaques Rivette, dove l’ossessione per il complottismo subliminale, la dilatazione temporale, l’implosione d’ingarbugliate sottotrame senza soluzione di continuità e lo scollamento di senso del narrato danno vita a un’esperienza cinematografica stordente e unica nel proprio genere. È indubbio che Mitchell si sia divertito come un pupo nel dar forma a questa sua astrusa creatura che, alla fin della fiera, diverte pure noi. Ora però è il momento di mettere da parte i balocchi e di tornare a fare gli adulti. Altrimenti sai che sculacciate!

lunedì 27 luglio 2020

Green room - Jeremy Saulnier

una piccolo gruppo musicale cerca di fare qualche concerto, per pagarsi almeno la benzina.
un loro amico propone loro una serata, li manda dal cugino, che organizza.
accordo fatto, si parte.
nessuno dei musicisti (e di noi) ha la minima idea di cosa potrà succedere.
Jeremy Saulnier è uno che non ti fa annoiare un secondo, e la tensione non cala mai.
è un film violento, certo, ma niente di gratuito, è un lungo incubo che bisogna attraversare, non si può scegliere.
un gioiellino che poi non ti stancherai di consigliare, promesso - Ismaele









Pocas veces vivirás en una sala de cine la desesperación de sus personajes con tanta intensidad y por eso Green Room es una auténtica joya que se tiene que ver, disfrutar, sufrir y recomendar…

Green Room è un ottimo thriller che fa della semplicità il suo punto di forza, tessendo onestamente la tela di quella che risulta essere una pellicola cupa e violenta. Stilisticamente a mio avviso ineccepibile e intelligentemente di genere, è un film che appassiona e diverte, lasciando piacevolmente sorpreso e appagato chi, come me, sentiva il bisogno di poter gridare ancora una volta, come faceva da ragazzino “Nazi Punks fuck off!” sulle note dei Dead Kennedys.

Suite à l’excellent thriller burlesque "Blue Ruin", Jeremy Saulnier revient avec un nouveau film dans la lignée du précédent. Présenté à la Quinzaine des Réalisateurs, puis au festival de Deauville 2015, "Green Room" suit un groupe de punk rock qui, suite à un concert dans un camp de néo-nazis, sont confrontés à une scène dont ils n’auraient pas dû être témoins. Dès lors, Jeremy Saulnier distille une tension qui ne faiblit jamais, et ce, pendant près d’une heure.
Il faut dire que le réalisateur avait déjà fait montre d'un talent certain pour tenir son audience en haleine et, qui plus est, sans fioriture. Même si "Green Room" est un peu moins convaincant que "Blue Ruin", notamment à cause de certaines décisions des personnages allant à l’encontre du bon sens (cf. la machette contre le fusil à pompe), l’ensemble reste cohérent et maîtrisé…

Sobre todo con tres nombres, Anton Yelchin, Imogen Poots y Patrick Stewart, cuya presencia impone a todos los niveles y que tiene momentos que son sublimes, como cuando intenta calmar al grupo para que abandone la sala… Sólo con su voz ya deja claro que aquí quien manda es él. Mención especial para Macon Blair, en un secundario excelente. Y gran trabajo del guión a la hora de presentar a este grupo de “iluminados” superados por las circunstancias. Son majos, son buenos amigos, pero cuando las cosas se complican no tienen ni idea de cómo lidiar con el problema. No son capaces, esto no es una película de acción imposible en la que los protagonistas de repente se convierten en héroes. Esto es un grupo de amiguetes que se ven muy superados por las circunstancias. Y eso le aporta más verosimilitud a la historia…
…En ningún momento el director pretende darnos moralinas de ideologías mas allá del cover "Nazis Punk Fuck Off" de los Dead Kennedys que se marca el grupo punk en un concierto lleno de publico de ideología nazi. Esta escena  tiene varias lecturas, primero el amor que sentía el director por el grupo californiano y segundo y mas importante la provocación, a partir de ahí sabes que todo puede pasar y te preparas para lo que va a venir.
Fuera de ideas y pensamientos políticos la película nos cuenta una realidad en la sociedad americana, la desconfianza hacia lo desconocido y todo lo que está fuera de su entorno. El ser humano genera un odio como pocas veces podemos imaginar y eso lo vemos a través de Darcy el líder neonazi perfectamente interpretado por Patrick Stewart donde descubrimos un ser aterrador que sabe lo que quiere y como tenerlo, sus actos es un reflejo del odio hacia lo que desconoce, Darcy desgraciadamente es un monstruo muy real..

domenica 26 luglio 2020

Arbitrage - Nicholas Jarecki

Richard Gere è marito, padre e amante di un'artista francese, la moglie fa beneficienza, i figli seguono le orme del padre, imprenditore/finanziere di successo, finché...
Puoi imbrogliare una persona tutte le volte, puoi anche imbrogliare tutti almeno una volta, ma non puoi imbrogliare tutti tutte le volte. diceva Abraham Lincoln e canta Bob Dylan.
attori bravissimi, come spesso capita.
non trascurate Arbitrage, non vi deluderà - Ismaele






QUI il film completo in inglese

Jarecki ha l'efficacia di chi non si perde in rivoli narrativi inutili e la sensibilità per raccontare la ferocia gentile di un'aristocrazia economica che non ha regole. Lo afferma proprio Miller-Gere nel dialogo cruciale con la figlia, sua dipendente (è il direttore finanziario della sua società). Lui è "il patriarca, è dio. E tu lavori per me, tutti lavorano per me". Il denaro e il potere sono le colonne d'Ercole oltre cui il mondo non può andare, se non fa parte di un club esclusivo e plaudente che può considerare un assegno di due milioni di dollari come una manciata di spiccioli. Nulla conta più del cerchio magico di questa comunità di eletti: persino quando si fa largo la questione razziale, in verità, tutto si fonda solo su un rapporto di sudditanza che con il colore della pelle non c'entra nulla. E il taglio sulla scena finale, che arriva con qualche secondo di troppo, non lascia consolazioni ma solo riflessioni…

Una storia tutt’altro che edificante, un protagonista che disturba nella sua capacità di mantenere il controllo di fronte a tutto e tutti, nella sua irriducibile corsa verso la propria salvezza. Un finale aperto, quasi destabilizzante nel rimanere sospeso, ci mostra una legge che non riesce a essere uguale per tutti, non almeno per chi – grazie a soldi e giro di giuste conoscenze – è nella cerchia degli intoccabili, come ha dichiarato lo stesso Gere sul suo personaggio. Una borghesia finanziaria che può essere distrutta solo dal suo interno, ma sempre e comunque senza mostrare nessun graffio da fuori.
Quello che ci racconta Nicholas Jarecki è un mondo dove tutti sanno come vanno le cose e dove chi cerca di opporsi sembra destinato a rimanere con un pugno di mosche in mano. La sceneggiatura e la regia sono ben costruite, soprattutto se si pensa che il regista è qui al suo primo lungometraggio. Buono il ritmo del film, sostenuto da una colonna sonora che contribuisce a suggerire l’idea dominante della corsa contro il tempo, e da un ottimo cast: da un Tim Roth sempre perfettamente calato nel suo ruolo, a una credibilissima Susan Sarandon e un Richard Gere che sembra voler dimostrare la sua raggiunta maturità di attore, superando a pieni voti la prova di un ruolo meno confortante ed edulcorato del solito.

Ogni personaggio della pellicola agisce per ragioni giuste, ma compie azioni moralmente ed eticamente scorrette per arrivare al proprio scopo, diventa quindi impossibile, e probabilmente anche inutile, distinguere il buono e il cattivo; non esiste nel film una visione manichea del bene e del male, tutti coloro che prendono parte alla vicenda tendono a difendere se stessi, quindi agiscono nel loro più stretto interesse, cercando di mettere con le spalle al muro chi li ostacola. In questo scenario di corruzione e immoralità dilagante emerge un quadro cupo e degradante dell'essere umano, il compromesso si insinua in tutte le sfere della vita, da quella professionale a quella intima della famiglia e degli affetti, niente viene risparmiato, la sete di bramosia pare travolgere tutto, anche contro la volontà dei soggetti implicati, come se la degenerazione fosse inarrestabile…

Senza poter ambire a chissà quale perfezione, né nella scrittura del genere né nella lettura di una realtà quotidiana, il film di Jarecki riesce comunque a convincere, anche per via di un finale del tutto privo di consolazione, o di quello che potrebbe essere definitivo come lieto fine. Perché in una società corrotta fino al midollo – ne La frode non c’è praticamente nessuno che non si venderebbe per riuscire a raggiungere i propri obiettivi – non è prevista alcuna catarsi, e non si può pretendere che il cerchio si chiuda alla perfezione, tutt’altro. Una morale forse facile, ma di cui si può avere bisogno: un discorso che torna ancor più valido per un film imperfetto e affascinante come La frode.

sabato 25 luglio 2020

Gerald's Game - Mike Flanagan

tratto da un racconto di Stephen King
ci sono due attori, marito e moglie, e i loro doppi, e un cane.
una piccola vacanza con una fine tragica.
e la moglie, in attesa della fine, ricorda il rapporto con il padre, durante un'eclissi, quando era bambina.
Jessie è una vittima che neanche si è mai accorta di esserlo, e nelle ultime ore le passa tutta la vita davanti.
bel film, merita - Ismaele






La metafora del vedere regge tutto l’impianto filmico e narrativo. Chissà se King prima e Flanagan dopo, nel descrivere così intimamente il lato oscuro delle donne, si siano resi conto di aver realizzato un’opera tutta al femminile dove gli uomini sono delle comparse, neanche particolarmente brillanti. Stress, ricatto, incubi,segreti, solitudine, senso di inadeguatezza, impotenza fisica e psicologica, paura dell’ignoto sono le sfaccettature della trasposizione cinematografica di storie talmente interiori, al limite dell’“infilmabile” di cui Il gioco di Gerald si nutre

…Il Gioco di Gerald non è un romanzo d’azione, ma è un viaggio all’interno della psiche di una donna che sa di avere le ore contate. Si è trattato di un libro molto importante per la mia formazione e, di solito, lo uso come esempio pratico e pronto all’uso quando leggo o sento panzane come quella relativa al fatto che gli uomini non dovrebbero scrivere storie con donne protagoniste. La mia convinzione è che Jessie, creazione di uno scrittore, sia uno dei personaggi femminili più intensi, vividi e, soprattutto, complessi della narrativa di genere, e forse non solo di quella.
Il problema era rendere questa complessità nello spazio di meno di due ore. Il rischio era appiattire Jessie, era farla diventare una vittima indifesa alla mercé del caso o, anche peggio, un oggetto ammanettato a una spalliera. Per fortuna c’è Flanagan: a partire da Absentia, passando per Oculus, fino ad arrivare ad Hush e sì, persino in Oujia, il regista ha sempre puntato sui personaggi femminili, delineando psicologie mai banali. Era quindi ovvio che dedicasse a Jessie la stessa attenzione.
Jessie è una tipica donna kinghiana: rapporto a dir poco problematico con la figura paterna, tendenza a replicare all’infinito questo rapporto problematico con gli altri uomini della sua vita, vivendo nella loro ombra, incapace di tirar fuori le risorse che comunque possiede; le donne, nei romanzi di King, portano sulle spalle il peso dei propri e altrui errori e prendono sempre le decisioni più dolorose. Il Gioco di Gerald non è la storia di una tizia bloccata su un letto da un paio di manette, è la storia di una lenta rinascita, di un’ordalia che diventa riscatto. E, si sa, in King bisogna sempre passare attraverso un vero e proprio calvario per rinascere, e non sempre ci si riesce.
Flanagan ha colto in pieno l’essenza del romanzo di King, realizzando quello che è, a oggi, il suo film migliore: scarno, quasi del tutto privo di colonna sonora, essenziale nella messa in scena, completamente dedito alla sua protagonista, ai suoi incubi, ai suoi ricordi, alla sua volontà di vivere, emotivamente difficile da sopportare e con alcuni attimi di puro terrore, senza contare la scena più famosa del libro, riprodotta in maniera identica nel film: a me si è annebbiata la vista e, per qualche secondo, ho temuto di perdere i sensi. Questo per dirvi che Flanagan, quando c’è da picchiare duro, non si fa il minimo scrupolo e affronta tutte le parti più scabrose e controverse del romanzo di King caricando a testa bassa. Quindi sì, Il Gioco di Gerald è un horror bello cattivo, violento all’occorrenza e spaventoso come solo le sinistre apparizioni dal buio cui Flanagan ci ha abituati sanno essere. Ma è soprattutto un’esperienza che val la pena di essere vissuta e, forse, la consacrazione definitiva di un nuovo Maestro dell’horror che, dopo un paio di prove di natura “alimentare”, torna a firmare un’opera in cui crede davvero, con risultati straordinari.

venerdì 24 luglio 2020

Good time – fratelli Safdie

un film a cento all'ora, protagonisti due fratelli sfigati, Nick di più.
l'avventura di una giornata di Connie (Robert Pattinson) e Nick, alla ricerca del colpo per risolvere qualche problema, per breve tempo.
in una New York centro del mondo il capitalismo governa tutto, le menti sopra ogni cosa, dopo c'è solo la carità.
Connie tenta il tutto per tutto, forse in qualche film ha visto che può funzionare, ma non ai poveracci e ai disperati.
i due fratelli registi (uno è Nick) hanno visti in sacco di cinema, si vede, di quello giusto.
buona visione - Ismaele


ps: c'è un film, Nick e Gino, del 1988, di Robert M. Young, nel quale ci sono due fratelli, Gino (Ray Liotta) e Nick (Tom Hulce).
anche qui Nick è il fratello che ha difficoltà, e l'altro fratello se ne fa carico (bel film anche questo)






…. Su tutto quell’aria di desolazione che sta sempre addosso alle vite bruciate in partenza. Pattinson e fratellino sono solo l’ultima incarnazione di un tipo eterno del cinema e non solo, il loser in cerca di riscatto e puntualmente sconfitto. Anche se questo, più che un cinema del e sul reale, su un qualche disagio giovanil-urbano, è cinema di pura forma. Forma che prevale sul resto e anzi lo determina, lo configura. Molti gli applausi dei jeune critiques a Cannes (e la solita glaciale indifferenza dai critici paludati) che probailmente hanno trovato un modello di riferimento e identificazione nei due fratelli newyorkesi così giovani e già così di successo. #SafdieBrothersfatecisognare Quanto a me, ritengo Good Time la vera rivelazione del concorso di Cannes 2017 , più dell’acclamato svedese vincitore di Palma The Square, che più passa il tempo e più mi sembra overrated (esce tra poco nei cinema e potrete farvi un’opinione). Strapiaciuto ai sempre imprescindibili – e ultrasnob – Cahiers du Cinéma, che hanno salutato Good Time come la cosa migliore del grande festival…

...è Benny Safdie, che interpreta Nick, colui a cui viene affidata la sequenza finale che accompagna i titoli di coda del film; lo psichiatra Peter, lo conduce a una seduta di gruppo rassicurandolo che si tratta del posto giusto per lui, come la prigione è il posto dove deve stare suo fratello, dove entrambi staranno bene e avranno il loro "good time". Perché questo era il disperato traguardo a cui Connie mirava, come ogni reietto della New York invisibile, e nonostante il suo deficit Nick è consapevole del fatto che non sarà mai nel posto giusto, che per quelli come lui e suo fratello non ci sarà mai; e mentre la terapista mette alla prova il gruppo con il gioco del "chi l'ha fatto attraversi la stanza", Nick vede passargli davanti ogni suo rimpianto sulle note struggenti di "The Pure and the Damned" di Oneohtrix Point Never, il puro e il dannato: Nick e Connie. Dopo una carica di adrenalina, averti abbagliato e intossicato, con il cuore ancora in gola, i Safdie ti danno un pugno allo stomaco, ed è impossibile restarne indifferente. Good Time è destinato a diventare in brevissimo tempo un cult del suo genere.

Dal suo canto Nick è testimone d’accusa, solo attraverso la sua icona ferma e dolente, ingenuamente spaesata tra gli ultimi, dell’invasione intellettual-borghese – intrisa di ordinario cinismo – dell’ermeneutica delle metafore di routine tentate dalla terapia psicanalitica (“Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco” o “Batti il ferro finché è caldo”): la psicanalisi, in sostanza, è asettico controllo medico, e, di fatto, complice a sua volta della violenza istituzionale esercitata dall'ordine costituito e dal carcere, perché incapace, nella sua consueta inerzia intellettuale, di aprirsi a un qualche cambiamento dello status quo degli infelici. Del resto anche Ray resta stritolato dalla oggettiva malvagità del sistema, e dalla sua stessa stupidità che gli si ritorce contro. Ecco le vittime: da un lato lo scarto sociale rappresentato dai piccoli delinquenti, i malati mentali, e, in carcere, i medesimi, abbrutiti compagni di pena; ma, dall'altro, anche i poveri di colore, i sofferenti, le loro famiglie, e tutta la gente che vive intorno, anonima e muta (non esclusa la madre di Corey, che invano tenta di resistere all'invasione di quello che reputa il male – una rapace povertà – con il suo perbenismo da tipica rappresentante del ceto medio). E i boia (inconsapevoli?): l’impiegata di banca – è una nera – che dà l’allarme, l’ineffabile terapeuta, i comuni rappresentanti dell’ordine e della giustizia. Tutti nello stesso inferno della società di un stanco ordinamento capitalistico che sa produrre solo alienazione senza limiti. Anche nel sogno del “Good Time”. 

giovedì 23 luglio 2020

Le colline blu (Ride in the Whirlwind) – Monte Hellman

tre cowboys hanno finito di lavorare e tornano a casa (se ce l'hanno) e capitano per una notte da una banda di rapinatori, ricercati da uno sceriffo e dai suoi aiutanti.
e scoppia l'inferno.
piccolo film western girato in pochi giorni, con attori bravissimi e una formidabile sceneggiatura a orologeria.
non trascurate questo gioiellino, non ve ne pentirete - Ismaele



QUI il film completo in italiano

QUI il film completo in inglese


Per capire cosa sia un regista di culto, vedi alla voce Monte Hellman. Pochissimi film, una carriera da irregolare di qua e di là dell’Atlantico, ammiratori di peso come Quentin Tarantino, un film come La sparatoria che passa e ripassa in tutte le cineteche del mondo, perfino un leone alla carriera a Venezia 2010. Ecco, il signor Monte Hellman,  a quel tempo uno dei talenti della factory di Roger Corman, realizza nel 1965 questo western assai atipico, quasi astratto nella sua geometria della violenza, scagliato in una landa desolatissima dove agiscono uomini mossi da pulsioni primarie, insopprimibili, bestiali. La messa in scena di una caccia naturalmente spietata. Chi scappa e chi insegue, in una partita che rimanda alle leggi darwiniane della sopravvivenza e della sopraffazione. Tre cowboy in cerca di un rifugio per la notte incappano in una gang di fuorilegge. Diventeranno anche loro l’obiettivo, l’incolpevole preda di una masnada di vigilantes assetati di impiccagioni e giustizia sommaria. Uno verrà ucciso, un altro linciato. Un western estremo con dentro tutto il furore e il radicalismo del cinema indipendente di allora. Protagonista un altro cormaniano, l’allora giovanissimo Jack Nicholson, pure sceneggiatore e produttore. Con Cameron Mitchell, Millie Perkins e Harry Dean Stanton.

western che, più che ai classici conclamati, sembra guardare con i suoi turbamenti e il proprio senso di disperazione/dispersione a un capolavoro non troppo conosciuto come Alba fatale di William A. Wellman (1943), Hellman mette a punto alcuni dei temi centrali della sua poetica, dal viaggio verso il nulla alla scarnificazione mai pretestuosa del racconto, fino alla rinuncia completa a qualsiasi velleità eroica. In pochi nel sovvertimento della prassi hollywoodiana hanno avuto il coraggio di Hellman di disallinearsi anche dai compagni di ventura produttiva, alla ricerca di quel punto disperso nel nulla in cui ci si può illudere di essere ancora vivi, e liberi di vivere. Perché anche nel cinema, se ci si addormenta nei pressi dell’accampamento sbagliato, si rischia di essere messi (metaforicamente) a morte.
Dès le début, toute furie est absente de l’attaque de diligence. Quelques coups de feu, un corps tombe, un autre est blessé, mais nuls cris, nul véritable violence. Plus tard ce seront de longs échanges de tirs, mais là encore aucune tension ne vient secouer la scène. Les cibles attendent que l’orage passe, que les coups se taisent et c’est seulement au bout d’une attente qui semble devenir infinie qu’ils se décident à agir. Lors de la première confrontation, Hellman détruit complètement la scénographie et l’espace, le spectateur est presque incapable de suivre l’action. A la fin du long métrage, le réalisateur filme longuement la dernière scène jusqu’à ce que le nuage de poussière se soit complètement dissipé. Entre les deux, peu de péripéties et un étrange étirement du temps qui donnent une sensation de fin de règne, de fin du monde. Les dialogues et le jeu des comédiens appuient cette forme de minimalisme, épousent ce regard si particulier sur le genre. Ce traitement s’applique également aux paysages et aux cadres, composantes essentielles du western. Hellman utilise de manière très particulière la couleur, tirant le film, malgré les ciels immaculés et la chaleur du soleil, vers un gris cendré. Les paysages ne sont pas magnifiés comme à l’accoutumée, mais sont couverts de poussière, captés dans leur aridité et leur forme répétitive. Il refuse également les scénographies de mise dans le western, s’oppose à la composition classique des plans qui tendent à glorifier les personnages et leur environnement. Le traitement des personnages vise également à se détacher des figures emblématiques du western. Nul héros monolithique, nul crapule psychopathe. Hellman rend complexe ses personnages, ne force pas artificiellement la sympathie que l’on pourrait éprouver. Il développe leurs parts d’ombre jusqu’à rendre la frontière entre les « gentils » et les « méchants » trouble et poreuse. Leurs réactions sont imprévisibles, leur échanges déjouent parfois la compréhension du spectateur. Ainsi par moment, le doute sur l’innocence des trois cow-boys est soulevé, une phrase de-ci de là semblant l’infirmer. Sont-ils également des bandits en cavale ou, désignés coupables, sont-ils aspirés par ce rôle qui leur est donné ?

mercoledì 22 luglio 2020

Trevirgolaottantasette - Valerio Mastandrea

Interstate 60 – Bob Gale

una strada che non esiste, forse.
il pezzo su Euphoria mi sembrava di averlo già visto, ma non ricordavo perché.
il film è un po' folle, è l'avventura di un giovane (e le prove) per diventare uomo.
una città solo di avvocati, molto strano, ma vero (nel film).
un film che merita, devi solo farti prendere per mano e immergerti nella storia, se no lascia perdere - Ismaele

ps: quel pezzo era stato falla Guardia di Finanza, in un giro nelle scuole, per spaventare i ragazzi sull'uso delle droghe, ecco dove l'avevo visto.








QUI il film completo in italiano



L’opera prima di Bob Gale è un divertente road movie che utilizza la metafora del viaggio per descrivere il processo di transizione dalla gioventù alla vita adulta che coinvolge ognuno di noi (tema questo molto caro al regista); il nostro protagonista, interpretato da James Marsden (X-MenWestworld), è costretto a prendere delle decisioni molto sofferte e destabilizzanti (anche a costo di rompere il legame con i suoi cari), trovando sulla sua strada insidie ed ostacoli ma, essendo lui il conducente del suo destino, acquisirà quella forza e quella consapevolezza che sono necessarie per vivere degnamente la propria esistenza. Gale dirige questo film con uno stile asciutto ed essenziale che unisce il cinema classico americano (in alcuni punti è evidente l’ispirazione al cult del 1939 Il Mago di Oz) con la commedia anni ‘80 e, combinando il tutto con elementi surreali, il risultato finale è davvero convincente. Da sottolineare anche la scelta del cast, di primissimo livello: Marsden regge bene il confronto con i grandi attori che lo affiancano, su tutti un gigionesco Gary Oldman (nella parte di un grottesco genio della lampada dispettoso), il premio Oscar Chris Cooper e Kurt Russell (nei panni di un cinico e carismatico capitano di polizia); inoltre i nostalgici di Ritorno al Futuro apprezzeranno particolarmente la presenza di Michael J. Fox e di Christopher Lloyd, anche se relegati in ruoli minori.
E’ un mistero come un buonissimo film come Interstate 60 sia stato così poco considerato dal pubblico: la pellicola scorre benissimo lungo tutti i suoi 116 minuti di durata, tratta intelligentemente temi universali e, soprattutto, è un’opera che si rivolge ad una platea molto ampia. Se avete voglia di recuperare questo piccolo gioiello misconosciuto, questa è l’occasione giusta.

Interstate 60 tratta un tema non certo originale, come nel caso del protagonista, cioé quello di essere lo specchio delle aspettative dei nostri padri. Avere quindi una vita predefinita da altri lasciando da parte le proprie aspirazioni. Tema semplice dove però l'elemento fantastico arricchisce molto la trama in questo viaggio a tappe nel percorso di questa strada parallela in un certo senso alla realtà. Perchè a volte nel nostro schematizzare in maniera estrema la realtà, sfuggono particolari che possono a loro volta travisare la realtà che noi vediamo (il gioco delle carte con i cuori neri e le picche rosse). Non male le tappe nel paese dove la droga Euphoria annulla le menti o la città incubo di Marlow, abitata esclusivamente da avvocati. E' un film che da una storia semplice riesce ad offrire delle riflessioni non prive di una certa arguzia. La presenza di attori come Oldman, Lloyd, Russell e Cooper la arricchisce ulteriormente di personaggi bizzarri e spesso con connotazioni sinistre. Da vedere.
…Neil riuscirà a orientarsi nel mare di coincidenze che riconosce in ogni accadimento, a credere nel proprio destino e soprattutto in sè stesso, prendendo sempre di più confidenza con una strada che ricorda un po' il mondo de "I viaggi di Gulliver" di Jonathan Swift, di cui condivide anche una certa attitudine alla satira sociale, e de "La storia vera" di Luciano di Samosata per la comicità di alcune scene.
Una commedia surreale questa del 2002 di Bob Gale (creatore anche di "Ritorno al futuro"), che coniuga la semplicità di assimilazione della trama con significati più profondi, che riesce a catapultare lo spettatore in un mondo assolutamente fuori da ogni schema e farlo riflettere attentamente sui giochi del caso e sulle domande che tutti noi ci poniamo. In poche parole, uno dei più bei film "leggeri" che io abbia mai visto.

Interstate 60 is a film that wants, desperately, to be an intelligent examination of the things we take for granted in life. It seems on the surface that such scenes as the hard-working, lower-class, African-American labourer’s campfire story about wish-fulfilment and the circle of life, is preachy and heavy-handed. But Bob Gale underpins this with the idea, as stated as a prologue to the film: “Given an infinite universe, and infinite time, all things will happen. That means that every event is inevitable including the impossible.” There’s an irresistible scene when Christopher Lloyd’s strange character Ray, tricks James Marsden’s Neal Oliver with a magic card illusion showing him that what he thinks he sees isn’t always what he actually sees. It’s a good example of the film as whole, and goes some way to dispel the idea that Interstate 60 is heavy-handed because the character’s are not subtly questioning their surroundings, they are genuinely searching for answers to what Gale would conclude as life’s illusion…

Sure there are some nice moments that are mostly just mainly fun. Some people thought this movie was thought provoking but seriously to me it mainly was just good old fashioned fun entertainment. I wasn't really bored for a single time during the movie but still, maybe a more experienced and talented director would had done more and better with the story.

…Still, those small towns are extremely delightful, and Oldman's such a wonder as the spirited wish granter, that Interstate 60 becomes a thoroughly enjoyable ride. And I’d love to see Gale craft a sequel, if only to get more from that fertile imagination of his. The people and places along his magical highway make for a delightful experience.

…Each character’s screen time is entertaining and the clean sectioning of the script as Neal visits the various towns on Interstate 60 certainly adds to the Odyssean feel of many metaphysical films. With any other director, this type of film would be too disjointed and overwhelmed but in the hands of Bob Gale of Back to the Future fame, it somehow works.  Yes, there is clearly a reason Interstate 60 never hit the big time but it serves its purpose as a light hearted while suprisingly thought provoking film.
Just like the eponymous Interstate that does not exist on any maps, you have to find this film for yourself and disregard any cliches and extraneous story arcs you don’t care for and enjoy it for what it is- an original take on the traditional road movie through the eyes of one of the most loved comedy/science fiction writers around. Even if it is just to enjoy the wonderful Christopher Lloyd. Or to see Gary Oldman without a moustache.

lunedì 20 luglio 2020

13th (XIII emendamento) – Ava DuVernay

Il grande pregio del film è che tutto è documentato, Ava DuVernay 
(qui un suo grande film) mette in fila tutti i dati e il quadro che ne esce è inquietante.
la schiavitù fu abolita con il XIII emendamento, ma non fu reale libertà.
Votare e andare a scuola non era per tutti i neri, e la probabilità di un nero di passare anni in prigione negli Usa è stata ed è di molte volte superiore alla probabilità che hanno le altre etnie.
le parole e i numeri e le testimonianze nel film dicono che non è casuale, che l'economia e i conflitti d'interesse, le lobby e le decisioni giuste al momento giusto hanno reso Black Lives Matter il movimento necessario per salvare i neri, e tutti.
La forza di BLM è che non avendo una struttura gerarchica è impossibile isolare e far sparire i capi, come era successo alle Pantere Nere, e non solo.
Chi interviene, a partire da Angela Davis, è chiarissimo, i testimoni sono chiarissimi, il pericolo è che tutto cambi per restare come prima.
non perdetevi questo film, poi saprete perché - Ismaele



QUI il film completo, con sottotitoli in italiano


La domanda che viene continuamente posta fra le righe è se gli afroamericani siano mai stati realmente “liberi” in America. Certamente oggi sono più liberi dei loro antenati, ma la domanda relativa alla libertà intesa come quella dei loro compatrioti bianchi rimane comunque nell’aria. La riflessione finale che presenta il documentario rivela che un cambiamento è in effetti possibile, ma solo se proveniente dai cuori e dalle menti delle persone. Non bisogna aspettare che i politici o gli attivisti facciano tutti da soli, ognuno di noi deve cambiare le cose nel suo piccolo.
13th è un intelligente, potente e importante film, capace di informare e far riflettere su argomenti di cui magari si sapeva poco o nulla, capace inoltre di risvegliare le persone e far rendere loro conto di quanto non gli importasse tutto ciò. Tutto questo rende 13th di Ava DuVernay un incredibile documentario da vedere assolutamente.

Gli Stati Uniti detengono il record mondiale delle incarcerazioni e il combustibile che alimenta le statistiche è proprio la mitizzazione della criminalità tra la popolazione nera.
Studiosi, attivisti e politici analizzano la criminalizzazione degli afroamericani e il boom delle incarcerazioni negli USA, in un documentario che fa riflettere.
Il tredicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, da cui prende il titolo il documentario di Ava DuVernay, afferma: “Né schiavitù o servitù involontaria, eccetto che come punizione per un crimine per cui il soggetto dovrà essere debitamente incarcerato, esisterà sul suolo degli Stati Uniti, o in ogni altro luogo soggetto alla sua giurisdizione.”
La questione razziale statunitense infatti non è qualcosa che ha a che fare solo con il razzismo, come comunemente lo intendiamo. Dietro a tutto quello che ha portato alla nascita di movimenti come Black Lives Matter ai nostri giorni, e prima ancora ai movimenti dei diritti civili degli anni Sessanta e Settanta, alla politica di figure come Martin Luther King, Malcolm X o le Black Panthers, c’è qualcosa di più complesso; Questo qualcosa è la schiavitù, l’importazione forzata e violenta di corpi neri dalle coste dell’Africa nel continente americano affinché questi corpi divenissero forza lavoro a costo zero. Dovrebbe essere chiaro, quindi, come la questione razziale statunitense non debba solo essere affrontata su basi etiche e etniche, ma considerando anche nel rapporto tra bianchi e neri, da secoli, sono in ballo faccende che riguardano il potere, il controllo autoritario e il dato economico.
Dovrebbe, ma non lo è.
Perché la questione nera è sempre questione di corpi: corpi “animaleschi”, corpi da controllare e ingabbiare, corpi da far lavorare.
Perché, e lo dicono gli stessi protagonisti del film, se non si capisce che tutto nasce e torna alla schiavitù, e al complesso intreccio di potere, controllo e sudditanze economiche che sono al cuore della questione razziale negli Stati Uniti, non si potrà mai affrontare compiutamente il problema delle relazioni tra popolazione bianca e popolazione nera negli States.
E 13th toglie a molti tutti i loro alibi.

Forse mai come oggi, in cui in maniera preponderamente i riflettori del mondo sono puntanti su una questione tanto vecchia quanto urgente, XIII emendamento è un’opera necessaria. Necessaria nelle scuole per educare le generazioni future, perchè la storia venga mostrata per ciò che fu veramente. Ma anche negli uffici pubblici, ai politici che la storia stessa l’hanno plasmata a loro piacimento, per il favore delle masse.
Prima ancora che politica dunque, la vocazione di XIII emendamento, è storica. Ancora una volta lo strumento cinematografico può essere una potente arma per istruire la collettività. The Birth of A Nation contribuì in maniera criminale non solo a rafforzare il razzismo endemico dell’America del primo Novecento, ma anche al suo futuro propagarsi nel suo tessuto sociale. Così XIII emendamento deve coadiuvare la rottura di un circuito pregiudizievole e ineducato.
Nell’era dell’informazione e della condivisione, abbiamo il dovere di non rimanere semplici spettatori, ma di diventare attivi fautori del cambiamento che tutti noi meritiamo.