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martedì 10 dicembre 2024

La Bestia (La bête) - Bertrand Bonello

mentre il titolo del film francese è La bête (in italiano La bestia), sui manifesti si legge che il titolo è The beast (maledetta lingua inglese imperialista anche al cinema!).

La bête è un film distribuito poco e male, forse dipende dal fatto che non c'è una fine consolatoria e ottimistica, o perché ci sono dei salti temporali che costringono lo spettatore a un'attenzione al di sopra di quella necessaria nella media dei film (e delle serie tv), come nel film Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind), con Jim Carrey.

un amore impossibile, quello di Gabrielle e Louis, che si rincorrono nel tempo, senza riuscire a concretizzare l'unione, anche l'intelligenza artificiale delle macchine è contro quest'unione.

c'è anche una bambola, sembra arrivare direttamente da Annette, di Leos Carax.

e poi c'e la Bestia, una presenza minacciosa.

se riuscite a trovare il film, ormai in qualche nascondiglio in qualche tv, provate a vederlo, anche solo per combattere una forma di censura, mai morta.

buona (sorprendente) visione - Ismaele



 

La Gabrielle del 2044, un 2044 molto simile al nostro presente ma con - ovviamente - tecnologie avanzatissime, molti automi al posto degli esseri umani e una straziante e quasi imposta solitudine (le persone girano per strada sempre sole e con un visore che gli preclude qualsiasi interazione con gli altri) sta cercando un lavoro, mi pare non specificato.
Viene richiesto un solo requisito, ovvero quello di non essere sopraffatti dalle emozioni, non provarne più, perchè solo il nostro distacco da quelle (potremmo azzardare una specie di Atarassia) ci può permettere di rendere al meglio, di compiere sempre le scelte giuste, di affrontare le cose con la perfetta serenità.

Concetti in realtà "pericolosi" ma anche inquietantemente giusti potremmo dire, senza emozioni, passioni, paure ed entusiasmi le nostre scelte, come un freddo calcolatore, saranno sempre quelle giuste.
Per arrivare a questo stato bisogna ripercorrere le nostre vite precedenti (ovviamente il film mette alla base di tutto l'esistenza e veridicità di questo concetto) e "ripulire" la nostra anima, eliminando tutte le cose che in tutto il suo percorso l'hanno resa "viva", fragile, "umana".
Non è un caso che la primissima scena che vediamo della vita di Gabrielle (nella Parigi del 1910 che, di lì a poco, verrà sommersa dalla storica alluvione della Senna), primissima scena che per tecnica (piano sequenza) e ambientazione (palazzo signorile e tutti in costume) non può non rimandarci ad 
Arca Russa, dicevo non è un caso che una delle prime frasi che dirà Gabrielle sia "Io tengo alla mia anima".
Come se, in qualche modo, la Gabrielle che si sta sottoponendo a quel trattamento fosse già in "protezione" e in conflitto con il procedimento stesso.
"Sto facendo questo processo ma tengo alla mia anima, non voglio che scompaia"
(e il film poi confermerà quanto quella frase fosse sentita e profonda).

Ma c'è subito un altro caposaldo del film che viene fuori sin dalle primissime battute, ovvero quello che dà titolo al film, La Bestia.
Gabrielle vive la propria vita con la costante sensazione che stia succedendo qualcosa di terribile, una tragedia, una sciagura, un qualcosa che può annientarla.
Questo qualcosa è reificato in questa Bestia che però, a sua volta, sempre astratta rimane, (alla faccia della reificazione...), reificazione che, in qualche modo, è quindi soltanto semantica…

da qui

 

Bonello porta avanti questo discorso in The Beast attraverso una narrazione non cronologica e volutamente asimmetrica, rapsodica nella gestione delle tre storie; una narrazione tenuta insieme da rimandi interni a volte diretti, altre basati sulla suggestione, sul link nascosto (come nei videogiochi di qualche decennio fa) piuttosto che sul collegamento esplicito. In un’epoca in cui il concetto di multiverso sembra aver ormai invaso la narrazione audiovisiva, il regista francese ne adatta a suo modo la logica alla più archetipica delle love story: quella, cioè, di due amanti impossibilitati a trovarsi attraverso le epoche – e i mondi – bloccati qui non da una qualche divinità, ma dalle stesse logiche generate (inconsapevolmente?) dall’evoluzione tecnologica. Un’evoluzione forse nascosta dietro un glitch, evocata ai margini del campo visivo come un mostro informe, insidiosamente celata ma capace di azzerare del tutto l’umano. Capace, anche, di rovesciare un plasticoso happy ending in un inquietante suggello distopico, con qualche collegamento (ma forse è solo una nostra suggestione) col finale dell’indimenticato classico della sci-fi orrorifica Terrore dallo spazio profondo (1978). Una scelta confermata anche dai (non) titoli di coda con QR Code da scansionare, “gioco” metatestuale ardito quanto coerente con l’impostazione del film.

da qui

 

Perno del film, tuttavia, è il setting futuristico e distopico rappresentato dal 2044. In un’epoca in cui le intelligenze artificiali hanno rimpiazzato quasi completamente l’umanità, ogni forma di socialità, di condivisione emotiva, di sfogo collettivo è ormai scomparsa. Ciò che è rimasto è l’individuo in una forma epurata dalla sua umanità, nonostante il processo di eliminazione delle emozioni al quale ci si può sottoporre venga definito proprio come purificatorio. Gabrielle, che a differenza della piega che ha preso l’umanità, è realmente intelligente, è in dubbio sulla validità del processo, convinta che la relazione che la lega a Louis tra le epoche sia più forte di ogni cosa…

da qui

 

Anche stavolta, Bonello conferma il proprio amore per la contaminazione tra più generi: nelle quasi 2 ore e mezza del lungometraggio si alternano e si intrecciano almeno tre film differenti non soltanto per contenuti e tematiche, ma anche per regia, fotografia, montaggio e colonna sonora.
Un accostamento spavaldo, che alterna un racconto sci-fi minimalista chiaramente debitore degli incubi di Philip K. Dick, un lento e intenso melodramma in costume e un thriller-horror al cardiopalma, a loro volta attraversati trasversalmente da una marcata vena onirico-simbolica che a più riprese sembra voler strizzare l’occhio a Inland Empire, a Mulholland Drive e all’immaginario visivo di David Lynch.

Il risultato è un film molto lungo, volutamente disomogeneo e a tratti un po’ pretenzioso, che però ha il grande merito di proporre una narrazione ambiziosa e proteiforme. Con il suo folle viaggio psicologico, cronologico e genetico, il racconto di La Bête va molto al di là della mera sperimentazione formale, e scava a fondo nei sentimenti dello spettatore con una ricerca stilistica mai fine a se stessa.
Missione compiuta, quindi? A nostro avviso, assolutamente sì.
Bertrand Bonello, tuttavia, deve condividere il plauso con la memorabile Léa Seydoux e il convincente George MacKay: la sceneggiatura non è sempre così compatta, e senza il contributo di due interpreti così versatili e capaci di adattarsi a qualsiasi linguaggio cinematografico non sarebbe stato affatto semplice raggiungere il medesimo risultato…

da qui


 

venerdì 10 aprile 2020

Come vivo ora - Kevin Macdonald

Saoirse Ronan è ormai un'attrice famosa, meritatamente (Piccole donne, per esempio) e anche George MacKay è ormai famoso (1917, per esempio, e El secreto de Marrowbone, nel quale, curiosamente, interpreta un personaggio simile, un fratello maggiore che deve proteggere i minori, gli unici rimasti della famiglia).
in questo film si trovano nel mezzo di una catastrofe nucleare nella qualche possono e devono solo subire, e poi fuggire e fuggire, se possono.
una storia di ragazzi in un mondo ostile, minaccioso e terribile.
merita la visione, di sicuro - Ismaele





Film a due velocità: una prima descrittiva, bucolica da romanzo rosa e una seconda drammatica con venature horror. Come sfondo una storia d'amore e di speranza. Trama post-apocalittica asciutta e abbastanza dozzinale. Rimangono aperti molti interrogativi sul perché accadano certi sinistri avvenimenti. Saoirse Ronan stizzosa e suscettibile rende bene il carattere della quindicenne ribelle. Buona la recitazione dei bambini. Notevole la bellezza della campagna inglese come alcuni pezzi della soundtrack. Alla fine di tutto lo spettacolo non è malaccio.

…Non posso dire che il film sia brutto, ma l'ambiente bucolico in cui si dipana la vicenda di questi ragazzi, non basta a dare un senso e una coerenza alle scelte di regia, nè ha giustificare una storia che mette tanta carne al fuoco più come pretesto che per reale esigenza narrativa.
Alla fine, non ho ben capito se si voleva raccontare una storia d'amore, di formazione o di crescita di questi adolescenti che sembrano vivere in armonia con la natura dei boschi e corsi d'acqua, in una sorta di paradiso temporaneo, e si ritrovano all'improvviso travolti da una realtà terribile - lo scoppio di un ordigno nucleare e una terza guerra mondiale, che sembra più una guerra civile, tutto talmente suggerito o solo velatamente mostrato, da apparire quasi onirico e surreale; perfino la violenza e la morte perdono di concretezza.
Ho visto più realismo in certi anime giapponesi.
A che scopo ricorrere ad un simile dramma?
Sembra solo un espediente narrativo, oltremodo superfluo, per creare pathos e tensione…
da qui

Con un precioso trabajo de puesta en escena, que saca singular provecho de los paisajes naturales, la fauna y la flora que rodean a la casa de campo, unos originales títulos de crédito de marcada estética pop de los 60 y una espectacular banda sonora repleta de preciosas canciones de artistas como Natasha Khan, Daughter o Nick Drake, la película pasa del melodrama familiar y romántico de su primera mitad a un segundo acto más crudo y violento, enclavado en el género bélico en su vertiente más futurista, con pasajes que nos remiten a esa obra maestra que fue Hijos de los hombres (2006), que también fantaseaba con una sociedad inglesa futura condenada a la extinción. Este tramo final está narrado con el suficiente buen pulso por Macdonald como para que las largas caminatas campo a través de las dos protagonistas femeninas no resulten aburridas para el espectador. La violencia está presente casi siempre fuera de plano y el conflicto bélico sabemos que está ahí pero nunca hace acto de presencia en pantalla, únicamente sus consecuencias (los cortes de luz, la hambruna, el desalojo de los hogares, el amasijo de cuerpos sin vida, las huellas psicológicas que deja una guerra). En definitiva, estamos ante un producto inteligente y a contracorriente dentro de las adaptaciones de novelas juveniles, ya que se muestra mucho más preocupado en sus personajes y las heridas del corazón que en la acción sin sentido…

venerdì 28 febbraio 2020

1917 - Sam Mendes

chi ha avuto un nonno soldato in quella guerra, come il regista, potrà capire una volta in più, e vedere e sentire e ascoltare lo schifo di quella guerra, che infiniti lutti addusse agli europei, anche nei decenni seguenti.
il film è una corsa anche per chi guarda, l'occhio è sempre su Blake e Schofield, e poi solo su Schofield (l'attore è George MacKay, anche protagonista di Marrowbone).
un film da non perdere, e al cinema rende sicuramente più che a casa, è sicuro - Ismaele









È vero, la scelta di basare il film sostanzialmente su due enormi piano sequenza può a tratti far pensare a un videogame, ma in verità si tratta di una scelta stilistica coraggiosa che, se da una parte ha il merito di favorire l’avvicinamento dello spettatore alla vicenda, di portarlo dentro, di coinvolgerlo, dall’altra rischia però paradossalmente di distrarlo dalla storia stessa, con movimenti di macchina a volte troppo audaci e dinamici. Ma è comunque divertente, per lo spettatore più attento, cercare di di individuare i punti in cui sono state cucite insieme le varie sequenze.
Certo, forse la scelta di puntare gran parte delle energie sui virtuosismi stilistici ha finito per sacrificare qualcosa sulla sceneggiatura, che in più punti denota alcune debolezze, sia in termini di snodi della vicenda (forzata e pretestuosa in questo senso appare la scelta ad esempio di mettere in ballo la questione del fratello di uno dei due soldati protagonisti tra i 1600 commilitoni da salvare), sia e sopratutto in termini di dialoghi (prevale la noia quando l’azione latita).
Ad ogni modo, guardare questo 1917, e guardarlo al cinema, è una esperienza cinematografica importante, che merita di essere fatta

Mendes dedica il film al nonno Alfred che ha combattuto per l’esercito britannico nella Prima Guerra e “che ci ha raccontato le storie”. Eppure, paradossalmente, a mancare qui sono proprio le storie, sovrastate dalle modalità del raccontare, dal… come.  Assecondando un automatismo militaresco, 1917 non prevede la possibilità di altri sguardi, né l’esistenza di altri mondi da configurare e desiderare in un fuori campo. Per quanto ambizioso, difficilissimo da realizzare e “stupefacente”, appare senza immaginazione. Come se avesse dimenticato la propria anima da qualche parte nella perfezione tecnica, nella maniacalità del backstage. La recupera in alcuni momenti di sospensione, che hanno un po’ la valenza delle soste ai box, come nella ineluttabilità della morte dissanguata di Blake o nel finale in cui il revenant Schofield contempla le foto di famiglia appoggiato a un albero, fermando finalmente la sua corsa estenuante. Forse la Storia inizia dove finisce il film. O forse, semplicemente, questo non è un film, ma il miglior software in circolazione.
Per portare a casa una missione può anche funzionare. Per il resto dipende, come sempre… dai punti di vista.
Game Over.

…Spogliandosi di ogni forma stilistica legata all’epica, 1917 racconterà gli orrori della guerra in un gioco di antitesi dove non c’è spazio per l’umanità. Lande desolate caratterizzate da morti in ogni dove, in cui l’unica regola che vige è quella del mors tua vita mea, come dicevano i latini. È per questo che non c’è la necessità di focalizzare l’attenzione su una storia inutilmente intricata o che lasci la guerra esclusivamente sullo sfondo. 
Mendes catapulta lo spettatore in quei paesaggi freddi, distaccati da ogni concezione di umanità, raramente presente nel contesto bellico. La morte predomina sulla vita, anche quand’essa si mostra nel sorriso di un neonato nascosto nei bassifondi di una città devastata. Non c’è tempo da perdere, quel messaggio va recapitato. E l’impresa è, per definizione, ardua. Il pericolo tedesco è dietro l’angolo, pronto a sparare o accoltellare. 
1917 è un racconto asciutto, in cui l’unico celebrato è un semplice soldato che porta un semplice ordine di ritirata. Non ci sono tiranni da detronizzare, tantomeno vittorie da conquistare. Ciò che conta è obbligare un generale a fare un passo indietro affinché si eviti la morte di 1600 soldati. 
Non un semplice esercizio di stile, la regia di Mendes, oltre a rasentare una perfezione da Oscar, trova un fedele alleato nella fotografia di Deakins, mozzafiato e ricercata più di sempre giacché riesce a restituire alla perfezione quell’idea di realismo, tanto orribile quanto crudo, legato alla guerra…

domenica 9 febbraio 2020

El secreto de Marrowbone - Sergio G. Sánchez

una storia complicata, una mamma e quattro fratelli promettono di non separarsi mai più, vivono in una casa con una presenza malefica, sarà una lotta terribile.
bella fotografia, con qualche salto temporale, e delle bambole di pezza che staranno sempre insieme.
un film strano, non ci si può distrarre - Ismaele





Sarebbe piaciuto a Henry James questo ritratto di famiglia. Il giovane protagonista che si prende cura dei fratelli più piccoli, che scrive un diario da lasciare ai posteri, che vive dentro una casa che sembra respirare dietro le sue fredde pareti. Un caleidoscopio emozionale che trascina lo spettatore lungo un cunicolo di penombre, con qualche schizzo di sangue sparso qua e là. La fotografia, elegante, consegna immagini belle, senza età. Gli attori s'immedesimano perfettamente nel ruolo e l'atmosfera è sempre densa d'inquietudine. Bel film.

El secreto de Marrowbone è un film straordinariamente ben fatto da quasi tutti i punti di vista. La narrazione, sopratutto all’inizio, è classica che più classica non si può (nel senso migliore del termine), con il flash-forward del protagonista Jack che racconta dell’arrivo in America della sua famiglia leggendo da un quaderno scritto e illustrato di suo pugno. Pochi minuti di scene calde, quasi fiabesche, con i ragazzi che parlano a un’apparentemente incantata Roccia della Strega Rossa e un fantastico pomeriggio in spiaggia dove incontrano la loro nuova amica Allie. Siamo nell’America rurale degli anni ’60, è qualcosa che abbiamo già visto (il rimando a Stand by me e a tanti, tantissimi altri film che abbiamo amato è inevitabile), ma grazie alla splendida e curatissima fotografia questo prologo ci fa innamorare immediatamente del luogo e dei personaggi…

Marrowbone è un film che, per la prima metà, impila le domande una sull’altra e dissemina misteri a più non posso, spingendo lo spettatore in una certa direzione, quella molto classica della casa infestata da una presenza maligna e vendicativa. È un film bravissimo a depistare, a spingerti esattamente dove lui vuole, per poi infliggerti la mazzata che ti mette in ginocchio, ma nel fare questo, non gioca mai sporco. E infatti, ripercorrendolo a ritroso e andandosi a rivedere un paio di sequenze chiave, si capisce che tutti gli indizi erano lì, belli pronti e a nostra disposizione. Si dice sempre che il modo migliore per nascondere qualcosa è farlo in piena vista. È così che funziona Marrowbone, come un gioco di prestigio: conduce il tuo sguardo dalla parte sbagliata, ti convince che sia quella giusta e, nel frattempo, prepara la pugnalata.
Molto singolare per un film che rappresenta la prima regia di uno sceneggiatore, Marrowbone compie questo sofisticato gesto illusionista solo tramite accorgimenti di natura visiva. Sì, è un’opera che racconta una storia lunga e complessa e ha una narrazione molto strutturata, ma la costruisce non con i dialoghi, bensì con la macchina da presa…