sabato 29 novembre 2014

The Long Good Friday - John Mackenzie

in questo film Bob Hoskins e Helen Mirren (futura regina di Frears nel 2006) sono di una bravura mostruosa, in più la storia è davvero bella.
in due giorni Harold passa dalle stelle alle stalle (e anche peggio), quando gli va tutto bene, e sta per fare un affare con dei mafiosi statiunitensi (nella Londra degli anni della Thatcher), succedono degli omicidi terribili e incomprensibili, all'inizio.
è un piccolo capolavoro, peccato per chi se lo perde - Ismaele

ps: per una coincidenza un personaggio si chiama Restivo, come l'assassino di Elisa Claps (secondo la Cassazione), detenuto in Inghilterra.







…Il film, diretto da John Mackenzie, costò 930.000 sterline e fu prodotto da Barry Hanson da un copione di Barrie Keeffe, con la colonna sonora del compositore Francis Monkman: fu proiettato ai festival di Cannes, Edimburgo e Londra nel 1980.
La storia originale, dal titolo "The Paddy Factor", fu scritta da Keeffe per Hanson quando quest'ultimo lavorava per la Euston Films, una sussidiaria di Thames Television, che non realizzò il film e da cui Hanson acquistò i diritti per la sua compagnia, la Calendar Films. Malgrado il fatto che Hanson avesse progettato l'opera per il cinema e che tutti i contratti furono fissati per un film e non per un accordo televisivo, la produzione fu finanziata dalla Black Lion, sussidiaria della ITC Entertainment di Lew Grade, per essere trasmessa dalla Associated TeleVision (ATV) sul network ITV. Il film fu commissionato da Charles Denton, all'epoca addetto alla programmazione della ATV e direttore operativo della Black Lion. Dopo che Grade vide il film, si dice che abbia affermato di aver visto una glorificazione dell'IRA.
Il 24 marzo 1982 fu fissata una proiezione in televisione dopo aver sottoposto il film a tagli pesanti; per evitare queste modifiche, alla fine degli anni '80 Hanson tentò di riacquistare il film dalla ITC per impedire alla ITV di mandare in onda il film. I tagli, disse, sarebbero stati "esecrabili" e che avrebbero formato "un film di 75 minuti senza alcun senso". Allo stesso tempo fu riportato che Bob Hoskins aveva intenzione di portare in giudizio Black Lion e Calendar Films per impedire la realizzazione di una versione TV per gli Stati Uniti in cui la voce di Hoskins sarebbe stata doppiata dall'attore David Daker.
Prima della messa in onda dell'ITV, i diritti del film passarono dalla ITC alla compagnia di George Harrison, la Handmade Films, per una somma pari a circa 200,000 sterline in meno del costo di produzione, compagnia che poi proiettò il film al cinema.

"The Long Good Friday," which is a masterful and very tough piece of filmmaking, eventually does answer these questions. But the point of the film isn't to analyze Harold Shand's problems. It's to present a portrait of this man. And I have rarely seen a movie character so completely alive. Shand is an evil, cruel, sadistic man. But he's a mass of contradictions, and there are times when we understand him so completely we almost feel affectionate. He's such a character, such an overcompensating Cockney, sensitive to the slightest affront, able to strike fear in the hearts of killers, but a pushover when his mistress raises her voice to him…

In his breakthrough role, Hoskins gives a towering performance. Effortlessly switching from charismatic businessman on top of the world to vicious warlord struggling to comprehend how easily his empire is crumbling beneath him, Shand is an interesting anti-hero, who barks out much of the quotable dialogue with the same ease as most people breath air. As for the quality of his final scene, it will leave you as speechless as Hoskins was when he performed it…

Bob Hoskins gives a stunning, doggedly tough yet profoundly pained performance in John Mackenzie’s London-based gangster flick The Long Good Friday that sometimes manages to elevate the picture’s generally diffuse drama to Shakespearean levels. Hoskins is perfectly cast, as his physical presence seems to be at odds with the well groomed world he’s maneuvering in here. Helen Mirren, who’s really quite elegant and beautiful here, exudes such class as his trophy wife that the feeling that Hoskins is a trespasser in the straight world is only aggrandized by her presence. He might try to look like a businessman, but it’s all too apparent that he’s a paunch little thug under the business suit. It’s a testament to the actor’s ability that the film manages to work as well as it does, since the tone is often hackneyed and cumbersome. Mackenzie stages the opening minutes without dialogue which, leaves the audience needlessly puzzled about what was shown there for much of the running time…
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venerdì 28 novembre 2014

Shiner – John Irvin

raramente capita di vedere per un film grandi lodi e stroncature estreme.
"Shiner" è uno di quei rari film.
si tratta di un boss che vuole riuscire in un'impresa speciale, fare bella figura in società e fare il gioco sporco, questa volta col figlio deludente, dal suo punto di vista.
da una storia d'imbroglio si scivola verso il dramma totale e non si salva più nessuno. 
a me è piaciuto, non è un capolavoro, ma è un film che si vede bene, e poi c'è Michael Caine - Ismaele





…Shiner vede all’opera un gigantesco Michael Caine, istrione da manuale, motore dell'intera pellicola, capace di disegnare un personaggio che, malgrado l'efferatezza, riesce a conquistare la simpatia del pubblico. In un'ambientazione originale, tra sfarzo e kitch, tipici ingredienti di ogni incontro pugilistico, il film presenta una serie di personaggi che sanno chiarire il valore del loro ruolo. E Londra non si è mai vista così, con bagliori in stile Las Vegas e tipacci di ogni risma, con i quali Caine-Billy gioca come il gatto col topo. Un noir sfrangiato e veloce, che gioca i suoi 96 minuti con ritmo incalzante, una "crime story" impietosa che Caine, doppiato stavolta da Oreste Rizzini, rende indispensabile.

It seems odd to think that Shiner started life as a Shakespeare play but, really, that's how it happened and the end result of Scott Cherry and John Irvin's take on King Lear is the Bard does boxing.
Owing more to rhyming slang than rhyming couplets, Michael Caine shows a return to form here as Billy 'Shiner' Simpson, a "cheap little boxing promoter" on the verge of his lifetime's ambition - to have a champion, in the form of his son Eddie 'Golden Boy' Simpson (played adeptly by Matthew Marsden). The stage is set for his boy to win, but tragedy and deception loom at every turn, as the seeds he has sown in the past come to bear terrible fruit…

Un film noir, a mio modo di vedere, che non perde mai e dico mai ritmo e che segue il protagonista sommo e le pedine che egli muove, con occhio realistico e mai indulgente. Si menano, sul ring e fuori, senza speranza e forse desiderio, di redenzione. Un film che ha a che fare con la tragedia greca, il suo protagonista ricorda quei meravigliosi personaggi tragici, da un lato corre verso ciò che anela, nell’inconsapevolezza che, alle sue spalle, il destino ha già scelto. Perché la tragicità sta in questo, nel non voler accettare il proprio essere un, perennemente, destinato alla sconfitta…

Rino Tommasi usa dire che il primo Rocky è un bel film fino a quando i pugili non salgono sul ring. Shiner è un brutto film fino a quando i pugili non salgono sul ring, poi da brutto diventa osceno. Ma la boxe, pur nella sua non-credibillità, non influisce più di tanto sulla mediocrità della pellicola: Shiner è un film di gangster, di bad boys, piuttosto banale e un po’ frustrante, che forse si basa troppo sull’impatto emotivo che il personaggio protagonista dovrebbe avere sullo spettatore…

I must say that the movie is still made watchable because of one simple reason; Michael Caine. It's a role that is very typical for him and that he suits so very well. He was good in those kind of roles 30 years ago and he's still good at it now. He plays a tough ruthless boxing promoter, with questionable motives and friends, who also happens to have a son who is on his way of becoming the next big man of boxing. An over ambitious proud father, with a shady past and present is a combination that of course calls for trouble. And trouble he gets within this movie. Do we care however? I don't think so. "Shiner" is a very uninvolved movie with a too weak script to let this movie ever rise above the level of average.
A movie you can really easily do without.

lunedì 24 novembre 2014

Due giorni e una notte – fratelli Dardenne

'homo homini lupus' potrebbe essere il sottotitolo del film.
un tempo il padrone decideva cosa fare, adesso il datore di lavoro, che è democratico, lancia una polpetta avvelenata, nascondendo la mano, e i gladiatori (i lavoratori, volevo dire) dovranno scegliere cosa fare.
il film è nella corsa di Sandra per cercare di salvare il suo posto di lavoro, e bisogna metterci la faccia, ancora i lavoratori non sono macchine, si può parlare, ancora.
gli operai sono immigrati o figli di immigrati, in ogni caso sono la parte debole e povera della società, la lotta di classe non esiste, la solidarietà forse, ognuno abbassa la testa e tira a campare, finché dura. 
che Sandra costringa ciascuno a esprimersi, a guardarla negli occhi, comunque vada, è antipatico e necessario, come lo è questo film - Ismaele





Il film è di quelli che resteranno, per la sua capacità di centrare con precisione chirurgica e assoluta lucidità il problema di tutti i problemi di questo presente, di questa Europa, overossia il lavoro, la fatica di trovarlo quando non lo si ha, la paura di perderlo quando lo si ha, la crisi economica, la sua squassante ricaduta sulla vita, i corpi, le menti della gente. Film troppo didascalico? troppo a tesi? Ma vogliamo scherzare? I Dardenne non son mica dei rozzi agit prop, non son mica figli del cinema politico a una dimensione e dal pensiero unico. Le loro idee ce le hanno e ce le comunicano chiare e forti, ma sono bravi, molto bravi, nel genere sono i migliori di tutti. Per la semplice (anzi complessa) ragione che i Dardenne Brothers sono dei meravigliosi storyteller, dei narratori sublimi che sanno come arpionare lo spettatore, non mollarlo più, coinvolgerlo e interessarlo al loro, ebbene sì, messaggio…

…Altroché film neorealista neopalloso. Questo dubbio fa assumere al film dei Dardenne quasi i contorni di un thriller, capace di tenere incollati allo schermo dall'inizio alla fine. Oltre che un thriller, Due giorni, una notte assume anche i contorni del survival. No, non siamo dalle parti di The Walking Dead, per fortuna. Per mostrarci la crudeltà e la volontà di sopravvivenza degli uomini non è necessario usare la scontata e abusata metafora degli zombie. Basta mostrare il mondo di oggi, così com'è. Il tal senso, il neorealismo può essere molto più agghiacciante di qualsiasi horror o pseudo horror di sorta.
Mentre guardo la nuova pellicola dei Dardenne mi domando cosa farei io al posto di Marion Cotillard. Avrei l'umiltà di andare di porta in porta a chiedere il voto alle persone? Lei riesce a farlo, ma non con la faccia da culo del politico di turno. Lo fa perché è tutto ciò che le resta. Quella è la sua ultima speranza per tenersi il lavoro…

…Due giorni, una notte è più una dichiarazione d'intenti che un film vero e proprio (per il quale forse era meglio scomodare Ken Loach), sospeso a metà tra il cinema di denuncia e l'opera affabulatoria e semi-ricattatoria verso lo spettatore, ma fatta comunque nella più indiscutibile buona fede. Novantacinque minuti in cui il rigore morale della pellicola non viene mai meno, pur riconoscendone i difetti di cui sopra, e dove la sua splendida protagonista risulta davvero efficace e convincente: trovo assurde e pretestuose le critiche all'eccessiva (?) bellezza della Cotillard, come se le giovani donne operaie dovessero essere per definizione tutte brutte, sporche, cattive e incazzate... la Cotillard, sempre vestita in jeans e canottiera, senza un filo di trucco, capacissima di passare da un timido sorriso di speranza alla disperazione più cupa, dimostra ancora una volta di essere una delle migliori attrici del momento, nonchè perfettamente adattabile al film e allo stile dei Dardenne

…Al igual que hicieron los neorrealistas italianos durante la posguerra, Jean-Pierre y Luc Dardenne pretenden mostrar (tras una guerra muy diferente: la económica), con total verosimilitud, la realidad cotidiana. Esas imágenes que vemos a diario en las noticias, y de las que apartamos la mirada conscientemente como quien evita pensar en una grave enfermedad, “eso no me pasará a mí”, son ahora mostradas mediante una estructura semántica que resulta lo más natural posible, con un estilo formal, directo y sin imposturas ni manipulaciones técnicas o estéticas.
Cámara en mano, como es habitual en ellos, los hermanos Dardenne logran captar la esencia del sufrimiento y la desesperación que se genera en las clases sociales más desfavorecidas, y lo consiguen sin un sutil acompañamiento sonoro, ni emotivas canciones, ni tan siquiera con recurrentes puestas de sol que interfieran en la emisión de un mensaje lo suficientemente claro y contundente por sí mismo…

Nei suoi continui spostamenti porta a porta Sandra opera una "votazione itinerante" in cui l'azienda per una volta non può osservare. Il suo sforzo conduce i colleghi ad una dimensione intima, confidenziale. Sandra restituisce loro il potere della scelta etica. Il cuore del nuovo film dei fratelli Dardenne va individuato qui, e filtra attraverso lo sguardo di Sandra verso i colleghi. La sofferenza che esprime non è autocommiserazione ma dignità. Si fa largo la percezione del senso di vari termini spesso demagogici, abusati e persino fastidiosi, come la solidarietà…

…Che dire ?
Che il proletariato , o meglio che raccontare il proletariato si addice più a un Loach che ai Dardenne?
Oppure che è meglio che tornino veramente alle origini e non le simulino in questo one woman show che si trasformerà sicuramente in un ottimo veicolo promozionale per la Cotillard ma meno per il loro cinema?
Eppure non riesco a voler male a questo film, ripeto, per me una delusione abbastanza cocente, come non riesco a voler male ai Dardenne e men che meno a Marion Cotillard che continuo a considerare una dea scesa in terra…

Il est toujours surprenant de se rendre compte à quel point les frères Dardenne ont cet indéniable talent de toujours sortir d'idées simples de grands films échappant contre toute attente aux écueils dans lesquels ils pourraient tomber. "2 jours, 1 nuit" ne déroge pas à ce constat et, pourtant, il y a bien un côté répétitif dans cette quête de solidarité durant près d'une heure trente. Rien n'y fait, la simplicité et l'approprié naturalisme avec lequel les réalisateurs belges s'emploient à filmer une Marion Cotillard très convaincante dans ce rôle de femme au bord de la rupture devant pourtant se battre pour conserver son emploi nous emporte aussitôt. Elle aurait pu pécher par excès, mais l'actrice parvient à rester sur le fil de la crédibilité tout du long avec ce rôle loin d'être simple à interpréter…
  
perdant leur radicalité et sans parvenir, malgré leur tentative, à se renouveler, les frères Dardenne proposent un film peu convainquant qui se veut néanmoins profondément humain et humaniste.

Un film passionale, dunque, ed imperfetto ma cui è impossibile non voler bene, costruito attorno ad una protagonista fragile ma determinata come solo chi è abituato a lottare può essere a mantenere quello che, al giorno d'oggi, è diventato un vero e proprio lusso: un posto di lavoro fisso…
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sabato 22 novembre 2014

A che punto è la notte - Nanni Loy

oggi si chiamerebbe miniserie, questo film in due parti per la tv, 4 ore in totale, l'ultimo film girato da Nanni Loy.
tratto da un romanzo di Fruttero e Lucentini, ambientato a Torino, il commissario Santamaria (Marcello Mastroianni) indaga su un'omicidio misterioso.
la storia è piena di colpi di scena e false piste, il film non è un capolavoro, ma si vede bene - Ismaele




"Quid noctis?","A che punto è la notte?"chiede il prete dietro il quale si svolge un intreccio di affari sporchi nell'edilizia,appena prima di essere ucciso.Fruttero e Lucentini ambientarono ancora a Torino una nuova indagine del commissario Santamaria,protagonista de "La donna della domenica", Nanni Loy gira per la televisione il seguito del film di Comencini del '76,e Marcello Mastroianni ricopre per la seconda volta il ruolo dell'investigatore pratico e un pò insofferente.Come l'omonimo romanzo,anche questo adattamento dà l'impressione di perdersi in troppi discorsi,e rispetto alla soluzione finale,troppo lunga è la durata della storia. Ben girato,interpretato professionalmente,è decorosissimo come prodotto per la tv,un pò statico per un film.
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venerdì 21 novembre 2014

c’è Rosetta e Rosetta

...(la stele di) Rosetta è servita a interpretare la scrittura dell’antico Egitto, Rosetta(la sonda) servirà per capire e interpretare qualche segreto delle comete e dell’universo, Rosetta (come tutti i film dei fratelli Dardenne) ci serve per capire e interpretare il mondo (di oggi)...

mercoledì 19 novembre 2014

Il sale della terra – Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado

un film di tono agiografico, e in forma schematica.
sono molto fastidiose, o anche peggio, la preparazione delle foto, e le foto, con le tribù a rischio estinzione, quelle persone sono come degli oggetti in quelle foto artistiche.
detto questo, vedere alcune foto (dentro c'è un pezzo della storia del mondo) nello schermo del cinema, e non a casa, su una rivista, vale il prezzo del biglietto -Ismaele




Magnificamente ispirato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, Il sale della terra è un documentario monumentale, che traccia l'itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano. Co-diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, figlio dell'artista, Il sale della terra è un'esperienza estetica esemplare e potente, un'opera sullo splendore del mondo e sull'irragionevolezza umana che rischia di spegnerlo. Alternando la storia personale di Salgado con le riflessioni sul suo mestiere di fotografo, il documentario ha un respiro malickiano, intimo e cosmico insieme, è un oggetto fuori formato, una preghiera che dialoga con la carne, la natura e Dio

Mi hanno alquanto disturbato anche le visite di Salgado in nicchie etniche e tribali remote, incapsulate, senza contatti o quasi con il mondo esterno. La prima – in apertura di film – in una tribù di Papua Nuova Guinea insieme con lo stesso Wenders, la seconda in una comunità amazzonica rimasta sconosciuta fino agli anni Ottanta. Scusate, non è venuto a nessuno il dubbio che si potesse trattare di intrusioni indebite e a rischio (per le comunità visitate, ovvio)? Ma era il caso? Questa attenzione ai popoli più periferici non rischia di somigliare un po’ troppo alla voluttuosa curiosità (al voyeurismo?) del nostro Ottocento per tutto ciò che era considerata primitivo e selvaggio? Insomma, non è che si ripiomba nel solito vecchio, e per niente caro, esotismo? Scusate, ma io non ce l’ho proprio fatta a voler bene a questo film, faticando parecchio a starmene in sala fino alla fine. Fatico pure a capire che se ne parli in toni estatici come di un capolavoro assoluto. Non lo è. (Ecco, di Salgado trovo davvero meravigliose e davvero grandi, oltre che accettabili, le grandi immagini riprese da lontano, quelle panoramiche brulicanti di centinaia e centinaia di umani come in un Brueghel disperato, dico le immagini degli uomini nudi nel fango delle cave d’oro del Perù o quelle delle migliaia di uomini donne bambini nei campi di raccolta dopo la fuga dalla carestia.)

Il sale della terra è un film di grande bellezza ma complessa. Non permette allo spettatore di avere le classiche reazioni, il pianto, il sorriso, la riflessione. Lascia interdetti perché semplicemente quello che descrivono Salgado con suo figlio e Wenders alla regia, supera il campo della parola, della spiegazione. Perché parola e immagini non sono linguaggi sovrapponibili o completamente traducibili. Ognuno ha dei confini diversi dall'altro e ognuno serve all'altro.  E se il cinema mostra il non detto allora è Arte.
Mentre Salgado spiega una brillante analogia tra un rettile che ha fotografato ed un guerriero medievale, si rimane incastrati in questo flusso di immagini e rapiti da ragionamenti di chi il mondo lo ha visto e vissuto con sensibilità elevatissima. Il sale della terra è l'uomo mentre distrugge se stesso, i suoi simili e ciò che lo circonda. Ma c'è una speranza se sappiamo che da un piccolo seme nasceranno alberi oltre i secoli. Il sale della terra è un film che ti schiaffeggia di meraviglia e terrore. Gli occhi non sanno cosa fare più. Visione consigliatissima.
da qui

una storiella con la morale

racconta Nino Manfredi:
«Un giorno d’inverno particolarmente freddo, un uccellino assiderato cade giù dal ramo di un albero. Poco dopo passa un bue il quale, non accorgendosi del povero animaletto, gli defeca addosso. Avvolto nel tepore dello sterco fumante, l’uccellino rinviene, tira fuori la testolina ed inizia a cinguettare felice: cip, cip, cip!!! Passa lì vicino un gatto richiamato dal canto gioioso e nota l’uccellino immerso nella cacca: il micio non si perde d’animo, lo ripulisce per benino e siccome è parecchio affamato a causa del rigido inverno se lo mangia in un sol boccone.
Morale della favola: se qualcuno ti mette nella cacca non vuol sempre dire che ti vuole fare del male; se qualcuno ti toglie dalla cacca non è detto che ti voglia fare del bene… ma, soprattutto, quando sei nella cacca fino al collo per quale motivo ti metti a cantare?»
qui racconta la storia Terence Hill.
(grazie a Daniele per avermela fatta ricordare)

lunedì 17 novembre 2014

What Richard Did – Lenny Abrahamson

all'inizio il film è un po' noioso, ragazzi che bevono, chiacchierano, flirtano con ragazze, se resisti, e devi resistere, il film prende quota.
succede quello che non doveva succedere e Richard (e tutti) si trova a sostenere quel peso da solo,o quasi.
il padre è Lars Mikkelsen, bravissimo (fratello del più famoso Mads).
è un film che mi ha ricordato molto "Boy A", l'occhio del regista è per un "colpevole", che diventa "vittima" (con tutte le differenze del caso).
non adatto per chi guarda solo le favole - Ismaele






…il peso sempre più insopportabile di un groppo in gola che lentamente ti soffoca, ma che pian piano riesce ad essere ingoiato nel sotterfugio e nella menzogna. E la morte rimane anonima, nonostante la volontà di costituirsi sfiori il giovane, quantomeno per placare l'angoscia interiore che brucia dentro e riesce a tratti ad invadere lo spettatore: aspetto positivo quest'ultimo, segno di una regia coinvolgente e di una scrittura che lascia il segno, qualità in entrambi i casi per nulla scontate…


 C'est lors dans la deuxième partie, une fois l'irréparable commis, que Richard se révèle, que l'histoire prend toute son ampleur en évoquant l'éloignement de ses amis, les doutes de sa famille. Lars Mikkelsen, qui joue le père de Richard démontre en une seule scène qu'il n'a rien à envier au talent de son petit frère Mads. Confronté aux conséquences d'une situation qui pourrait bien compromettre son avenir, Richard cherche une porte de sortie mais se confronte à un choix moral et les multiples ellipses bien senties d'Abrahamson laisse une incertitude loin d'être désagréable face à un film aussi élégamment maitrisé.
da qui


…La solida scrittura di Malcolm Campbell e lo sguardo acuto del regista sono sottilmente malinconici, senza tuttavia scadere mai in una ambigua empatia o nella deriva pedagogica o in inutili psicologismi. La narrazione risulta ricca di sfaccettature e accumula progressivamente motivi e dettagli. Mescola sapiente descrizione ambientale, vertigine drammatica e calma angosciante, grazie ad un abile gioco di inquadrature e di montaggio. Le relazioni tra i personaggi sono complesse, ma non artificiose…


…Abrahamson condemns Richard’s act of stupidity (which I won’t describe here) but not Richard himself, precisely because we see him suffer, not through guilt rather shame. As parents and teachers sometimes say to children, ‘you let yourself down.’ Shame is a valid form of self-mortification if you feel it truly, rather than guilt which is iterative. Guilt should apply to pre-meditated acts; shame, which Richard feels, is for excessive force, going too far. The film invites us to think about how we process the injuries that we cause to others…


Un film sull'assunzione di responsabilità, e sulla solitudine che l'uomo vive quando deve affrontare autonomamente decisioni cruciali per la propria esistenza. Un film importante, rigoroso, bilanciato giustamente fra compartecipazione e sguardo distaccato. Una fotografia netta e limpida, una camera spesso fissa e dai movimenti sull'asse. Una regia discreta che lascia spazio agli attori. Un montaggio invisibile per far spazio alla storia…

sabato 15 novembre 2014

Lo sciacallo (Nightcrawler) - Dan Gilroy

lo dico subito, questo è un film straordinario, il tempo (che è signore) dirà che è un capolavoro.
come per "Locke", uno sceneggiatore di serie A passa alla regia, per un'opera prima, e ne esce un film di una grandezza d'altri tempi.
un grande merito va a Jake Gyllenhaal, ormai uno degli attori migliori.
e uno di quei film che prende quota ogni minuto che passa e alla fine è davvero interstellare, cinico e cattivo, Lou è uno dei peggiori del mondo, ormai di successo, ma sa che il sorriso, la gentilezza, l'insistenza, il cinismo, la mancanza di scrupoli, di tutti gli scrupoli, sono le carte da spendere per il successo.
è un uomo che si fa da sè, nella giungla della vita, che lui contribuisce a rendere più giungla per tutti.
ognuno vede tante cose, la critica a certa tv, la critica al mondo in cui viviamo, ci sono molte cose dentro, certamente, ma sopratutto è Cinema.
vuoiti bene, vai al cinema, poi capirai perché - Ismaele





…La pellicola è inattaccabile, ogni scelta porta a un elogio: colpisce per l’intreccio; per la performance dei suoi protagonisti, in particolar modo quella di Jake Gyllenhaal (il cui sguardo a tratti induce soggezione); per la fotografia che rende ogni inquadratura la versione in movimento di un quadro di Hopper; per i dialoghi freddi, intelligenti ed equilibrati nella lunghezza e nella scelta lemmatica, velati di squisito sarcasmo; e per la colonna sonora, le cui note sono il tocco definitivo in un quadro da brividi.
“Lo Sciacallo” è un film notturno, cupo e buio. Catalizza lo spettatore e stimola la discussione. È un crime-thriller allarmante, è un noir angosciante, è un dramma dal triste realismo. È talmente bello da farci venir voglia di tornare in sala soprattutto quando scopriamo che il regista, Dan Gilroy, è uno sceneggiatore di successo qui alla prima esperienza dietro la macchina da presa.
Evviva il talento, evviva chi osa ed evviva la fantasia, che, talvolta, ci regala gran belle storie.

El cálido retrato que teníamos de la soleada california es desmitificado por completo, gracias a una acción que discurre íntegramente bajo la luz de una sempiterna luna llena. Las tomas diurnas son, en su mayoría, en interiores y tienen una función narrativa premonitoria —al igual que el amenazante acompañamiento musical—. La mayor parte de las elipsis se producen, por tanto, durante las horas solares, dejando que la noche marque el tempo entre luces artificiales difuminadas por la gran profundidad de campo con la que Robert Elswit, asiduo colaborador de Paul Thomas Anderson y oscarizado por Pozos de ambición (There Will Be Blood, 2008), ha dotado a su fulgurante fotografía. Es precisamente este aspecto visual, aparte de las más que obvias secuencias de conducción de un deportivo a gran velocidad por las calles de Los Ángeles, lo que nos hace reencontrarnos con otra de las posibles fuentes de inspiración del realizador: Drive (2011) —seguimos con palabras mayores—. Estableciendo que la cinta de Winding Refn analizaba, a través de Ryan Gosling, la figura del ángel salvador, perseguidor de las causas justas y nobles, Jake Gyllenhaal podría estar representando a su antítesis en una nueva y perturbada personificación de la muerte. “Me gustaría decir que si alguien me ve, es porque está teniendo el peor día de su vida”, afirma, como si de la misma Parca se tratara, un espectacular Gyllenhaal en la cima de su carrera, consiguiendo hacer justicia a esa elocuente falta de signos de puntuación de la que hablábamos al comienzo con una interpretación sobresaliente y sobrecogedoramente persuasiva, tan convincente como su verborrea amoral —sin pausa entre palabras— y tan desquiciada como esa inquietante mirada inyectada en sangre que no hemos sido capaces de ver pestañear en las dos horas de duración. | ★★ |

É molto bella la maniera in cui l'imprenditore invasato di sogno americano di Jake Gyllenhaal parla con gli occhi spalancati, ascolta quel che gli viene detto, fa tesoro di ogni batosta e ogni insegnamento per arrivare al proprio traguardo. Uno svantaggiato che non ha avuto un'educazione vera e propria ma che ha imparato a trovare su internet tutte le nozioni di cui ha bisogno. Si applica, studia e lavora senza sosta, è insomma concepito come l'ideale statunitense Louis e appare a tutti gli effetti come un personaggio positivo, non fosse per quel dettaglio della mancanza di scrupoli e della sete di ambizione che ci viene rivelata fin dalla prima scena….

Il film ha certamente imperfezioni. Le potenzialità del rapporto fra Lou e Nina non appaiono pienamente sviluppate; nella seconda parte, non tutto appare perfettamente controllato e in generale a Lou sembra tutto troppo facile. Si tratta di limiti benvenuti a fronte soprattutto del ritratto di una Los Angeles più nera che mai, che si aggiunge alla fosca galleria di pellicole ambientate in una città che, sin dagli anni '40, il cinema statunitense ha eletto a scenario privilegiato per rappresentare la brutalità metropolitana.

…Gilroy mette in scena la voracità del mondo del lavoro, dei media, degli stessi lavoratori, smascherando l’animo nero dell’informazione televisiva, la sete di sangue e scoop, di indici di ascolto. Il punto di non ritorno, un collasso morale che coinvolge l’intera catena dell’informazione, a partire dagli spettatori affamati di carne umana, vogliosi di avere paura, di trovare un possibile nemico o pericolo.
È in questo humus imputridito che Louis Bloom (Gyllenhaal) può crescere a dismisura, sospinto dallo stesso sistema: talento e mostruosità coincidono, fertili e oramai inarrestabili. Un self made man sotto acido, ultimo stadio del sogno americano, dei quindici minuti wahroliani, dell’informazione fatta (solo) con una videocamera.
L’uomo con la macchina da presa ha incontrato l’occhio che uccide.
Un po’ meccanico in certi snodi narrativi e accompagnato da una colonna sonora a volte un po’ troppo invasiva,Lo sciacallo – Nightcrawler può contare sull’ottima performance di Jake Gyllenhaal, allucinato, ferino, costantemente borderline. Un predatore notturno di carcasse.
Gilroy restituisce i tempi folli dei montaggi televisivi ma riesce anche a costruire la tensione dilatando i tempi, immergendo lo spettatore in queste notti di caccia, prive di qualsiasi moralità. Più che interessanti le sequenze della rapina e della sparatoria, quando lo sbandato Louis Bloom è oramai diventato metteur en scène della realtà e delle notizie. Metalinguaggio secco, diretto, depurato da qualsiasi orpello.

…Anche l’esordio di Dan Gilroy farà nascere queste domande nella mente del pubblico poiché, con grande sapienza, plana dall’alto su dati quesiti, combinando l’atmosfera al cardiopalma del film, piena di dialoghi brillanti e senza punti morti, con la descrizione del personaggio di Lou Bloom. The Nightcrawler infatti, non è solo una sorta di denuncia di un ambiente senza scrupoli, ma anche un affresco della mente malata di un personaggio sui generis.
In conclusione, se desiderate vedere un thriller insolito, con un protagonista da brividi, questa è la pellicola che fa per voi: vi terrà incollati allo schermo fino all’ultima, sorprendente scena.

…la estrella mayor de esta constelación es Lou, un tipo que es sin duda un producto de la sociedad en la que vive, pero que posee la suficiente codicia y falta de escrúpulos para convertirse en el proveedor perfecto del engaño mediático, respaldado por una “educación” a base de Internet y de libros de autoayuda de la que se siente orgulloso (buen golpe a toda esa mierda pseudo motivacional).
¿Y quién mejor para encargarse de él que Gyllenhaal, quien se encuentra en una racha impresionante de ‘performances’ complejas y desafiantes que incluyen sus intervenciones recientes en “Prisoners”, “End of Watch” y “Enemy”, y que bajó considerablemente de peso para darle un aspecto reptiliano a este cuestionable ser de la madrugada?
En cuanto a las locaciones, fuera de las oficinas del canal de televisión y de algunos puntos de encuentro, “Nightcrawler” nos lleva en un viaje electrizante por parajes de la ciudad de Los Angeles que no han sido normalmente mostrados en el cine, y los rodea de elementos visuales distintivos que podrían generar un carácter de culto, como en el caso del Mustang rojo de Louis, que se convierte en un fiel compañero de sus aventuras; unas aventuras que, en desmedro de sus innumerables faltas éticas -o quizás debido a ellas-, despertarán sin duda la atención de los espectadores. Apaga la tele y entérate de la verdad con esto.
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venerdì 14 novembre 2014

Interstellar – Christopher Nolan

all'uscita della sala mi è venuto in mente che Christopher Nolan è inglese, ma qui ha fatto un'americanata, bellissima, spettacolare, a tratti commovente, ma resta un'americanata.
la storia è complessa, e però anche semplice, c'è un problema, arrivano i nostri e tutto torna come si deve.
certo, il come la storia viene rappresentata è importante, il vortice di effetti speciali, relatività, tempo, gravità, ti prende nella sua ragnatela, ma credo sia proprio la storia un po' debole, il deja vu ti aspettavi  di trovarlo dietro l'angolo, e appena svoltavi l'angolo, non sempre, ma spesso, il deja vu era lì.
ecco la delusione.
e poi è tutto casuale, la terra muore, ma perché non si sa.
e il settimo cavalleggeri, non a cavallo, ma con navi spaziali, prova a salvare il mondo.
la parte più bella è il contatto fra Jessica Chastain e il padre, attraverso la parete.
insomma,  è "solo"un bel film; 
dice il saggio: "chi non si aspetta nulla non sarà mai deluso" - Ismaele






…resta il fatto, oggettivo, che Interstellar sia un'opera discontinua, poco malleabile, che alterna momenti epici a scene di imbarazzante ingenuità. Nolan ci spiega tutto, fa commuovere, fa trepidare, fa gioire, fa discutere: io però tutta questa filosofia non ce l'ho vista, se non quella che 'l'amor move il sole e le altre stelle', come diceva Dante. Un po' pochino.
Intendiamoci: il film merita la visione. E certe sequenze, come detto. da sole valgono il prezzo del biglietto.
Ma, per favore, Kubrick lasciamolo stare.
Interstellar non cambierà la storia del cinema, neppure di quello di fantascienza. Però tutti ne parleranno, lo sezioneranno, lo analizzeranno come un vero fenomeno mediatico. Merito di un regista ambizioso e poco incline ai compromessi che è stato bravissimo a costruirsi un'immagine da 'guru'. E che, ci mancherebbe, aldilà del gusto personale sa muovere da Dio la cinepresa…

…Affascinante, coinvolgente, efficace nel montaggio che alterna le vicende dello spazio a quelle umane sulla terra, Interstellar è cinema grande e coraggioso.

Interstellar è un inno all’istinto di sopravvivenza umana, alla grandezza della nostra specie, capace di compiere incredibili meraviglie quando coopera e concentra i propri sforzi verso obiettivi comuni (e purtroppo di tragedie immani in senso contrario). È qui che ci intravedo la positività spielberghiana tanto decantata, o meglio ipotizzata negli scorsi mesi guardando i trailer e con le poche informazioni in mano. Non quanto nello stile narrativo o registico, anomalo anche per lo stesso Nolan. Abituati ad una regia molto pulita, quasi maniacale, in particolar modo nelle sue ultime tre  pellicole (Inception e gli ultimi due capitoli de Il Cavaliere Oscuro), Interstellar è un film di grande emotività: piani ravvicinati, più camera a mano del solito, e spesso si segue il punto di vista del protagonista piuttosto che cedere ad angolature che forse sarebbero state più spettacolari, ma allo stesso tempo avrebbero fatto perdere empatia e il contatto con Cooper (sempre saldo, nei sorrisi così come nelle lacrime)…

Se dovessi soffermarmi razionalmente su Interstellar, ultima opera di quel geniaccio di Christopher Nolan, probabilmente farei notare quella parte iniziale un tantino dispersiva, oppure quella seconda con un paio (o forse più) di buchi neri nella sceneggiatura, o ancora quella chiosa un tantinello illogica. Ma non ha senso star lì a razionalizzare quando si hanno di fronte opere del genere, pellicole in grado di destabilizzarti durante e dopo la visione…

...Il film tuttavia non è solo cibo per gli occhi, ma anche per la mente. Sono tante infatti le tematiche che Nolan decide di affrontare, partendo dall'idea che l'uomo per natura è esploratore, piuttosto che semplice guardiano conservatore, e che bisogna osare per materializzare i propri sogni. E d'altronde si sa, solo il tempo può vincere lo spazio! Contestualmente però, Nolan identifica nei legami il potente collante che tiene insieme l'universo, nonché la spinta decisiva per compiere qualsiasi impresa. "L'amore è l'unica cosa che trascende il tempo e lo spazio"

Qui l'uomo è il centro assoluto, l'essere che ha distrutto il proprio mondo per stupidità ma che riesce a reinventarsi per una semplice cosa: l'amore. L'amore è quello che supera ogni trascendenza, che permette di rinnovarsi e, in qualche modo, di non morire mai. L'uomo stesso è la causa della propria dannazione così come lo è della propria salvezza. Discorso forse vagamente buonista ma che, nella mani di un regista capace, ci regalano delle scene di bellezza assoluta, forse quelle più riuscite di tutto il film e che ne danno la giusta chiave di lettura. E succederà che in mezzo a tutti quegli scenari magnifici, a quelle discussioni quantistiche, a quei viaggi e a quei sfasamenti temporali, quel micro finale rivelatore sarà la cosa che si ricorderà più di tutte. Perché anche il vuoto dello spazio si può riempire con una piccola luce…

Visivamente bellissimo (come budget e capacità registiche e visive di Nolan lasciavano presagire) con delle sequenze davvero intensissime aiutate da una colonna sonora maestosa e imponente (come già fu con Inception), Interstellar è, anche, puro spettacolo visivo.
La prima scena in questo senso notevole, credo, è la partenza da casa di Cooper, con quel conto alla rovescia che lo accompagna in automobile. Anche se sempre con la stessa automobile avevamo già goduto all'inizio con quell'incredibile "fuga" attraverso il campo di grano.
Poi siamo nello Spazio.
E lì Nolan ci delizia con un'altra delle sue destrutturazioni, con un altro dei suoi labirinti e dei suoi rompicapi, stavolta basato sulla relatività del tempo.
Restiamo affascinati da quelle teorie, dal pensare a quel padre lassù che mentre vive poche ore sa che i suoi figli stanno vivendo anni e anni della loro vita.
La vicenda ci prende, il destino degli astronauti e con loro dell'Umanità è in bilico. Ma anche se, come scritto sopra, i sentimenti personali prevalgono su tutto, Interstellar resta comunque un fantastico film di fanta-scienza, con tanta scienza dentro.
Poi l'ultima mezz'ora, che so già diventerà boccone troppo ghiotto per i demolitori Nolaniani, diventa qualcosa di straordinario…
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giovedì 13 novembre 2014

Fantasma – Lisandro Alonso

in un cinema si proietta un film di Lisandro Alonso, e il protagonista Florentino Vargas, in attesa del dibattito sul film, passeggia all'interno dell'edificio che ospita il cinema.
la macchina da presa segue Florentino Vargas, silenzioso, quasi imbarazzato, lui abituato agli spazi aperti, in attesa.
intanto lui vive nel film proiettato nella sala, che è anche lei protagonista di questo film.
la sala era protagonista anche qui.
non è il primo film per iniziare con Lisandro Alonso, ma è un film speciale, da non trascurare - Ismaele




Lo scenario è atipico per Lisandro Alonso: un ambiente cittadino chiuso, un dedalo di spigolose architetture in vetro, metallo e cemento, anziché gli sterminati spazi aperti e selvaggi delle altre sue opere. Tuttavia il protagonista – interpretato dallo stesso Argentino Vargas de Los Muertos – nel vagare attraverso scale, stanze e corridoi, non appare meno perso e disorientato rispetto a quando, nel precedente film, percorreva a piedi la giungla o risaliva in canoa il fiume. Anche adesso, mentre il ritmo stanco ed uniforme dei suoi passi lo accompagna in un cammino apparentemente casuale, l’uomo sembra non sapere chi sia, né cosa ci faccia in quel posto, a cui lo àncora, però, l’attesa di qualcosa che sta per accadere, e che, comunque vada, lo riguarda da vicino…

Fantasma è il cinema, cinema di se stesso, primo-piano allo specchio, riflessivo e intensivo, cinema che si slega dal cinema, esprime il cinema come propria essenza, come principio della propria esistenza, e simultaneamente si fa cinema.

Questo quanto pare è un omaggio ai protagonisti dei primi due film di Lisandro. Perciò non so se può essere considerato un vero e proprio film.
Mi è piaciuto l'autoironia del regista mostrando le sale del cinema praticamente vuote. Ciò che manca in questo film è la natura, che però è compensata da un'ottima fotografia che tira fuori il massimo da questi locali claustrofobici.
Consigliato solo ai fan hardcore di Alonso (tra cui mi conto).

the element which elevates Fantasma to the level of minor masterpiece is Alonso's astonishing use of sound: if there's a "story" to be somehow divined here, it's to be found in the subtle symphony of human, mechanical and even animal (whose is that dog?) noises – which are so diverting that never for a moment notice the fact that there's hardly any dialogue in the movie at all. Alonso meanwhile bookends the "action" with two blasts of loud electric-guitar music which provide suitably mood-enhancing punctuation. The cumulative effect is stunning and spellbinding: a spooky, darkly witty journey around a "cinema" that's also a bold journey around, into – and perhaps even beyond - cinema itself.
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martedì 11 novembre 2014

Sils Maria (Clouds of Sils Maria) – Olivier Assayas

film d'attrici, Juliette Binoche, non ha bisogno di presentazioni, Kristen Stewart (già "Twilight", "Panic room" e "Into the wild") e Chloë Grace Moretz (già Isabelle in "Hugo Cabret").
tutte e tre sono bravissime, ognuna a suo modo.
la sorpresa per me è Kristen Stewart.
momenti importanti sono un'apparizione e una sparizione, il film è una finzione al quadrato, in certi momenti distinguere fra realtà e finzione, fra recitazione e vita vera è davvero ostico, e qui sta il gioco e il fascino del film.
ma ancora mancava qualcosa, e ripensando al film, l'indomani, mi è venuto in mente che nei titoli di coda, fra gli interpreti, mancava un personaggio importante, il Tempo.
non sarà fra i film più memorabili dell'anno, ma è comunque una visione che non fa rimpiangere i soldi del biglietto e il tempo utilizzato, sicuro.
e come sempre il cinema rende più giustizia al film che non il salotto di casa, se non dovete fare due ore di strade di montagna per raggiungere la sala - Ismaele 





…C’est un questionnement humain relativement commun auquel doit faire face Maria mais délicatement capturé par la caméra d’Olivier Assayas qui parvient à réunir un duo impensable mais finalement convaincant entre Juliette Binoche et Kristen Stewart.

Le nuvole di cui parla il titolo sono quelle che si addensano sulla vallata del passo del Maloja, ma sono anche quelle che si insinuano subdolamente nelle esistenze dei personaggi, che siano protagonisti o comprimari. La spropositata ambizione di Assayas si scontra con l'inconcludenza delle scelte narrative, con l'estenuante effetto "ripetizione" delle situazioni riprese, oltre che con un'eccessiva astrazione degli eventi reali che si succedono sullo schermo. Ne viene fuori un'opera anodina, senza una forma ben precisa, eccessivamente intellettuale e, per questo, al confine con l'inconsistenza. Restano negli occhi, certo, i momenti di lancinante bellezza che la macchina da presa di Assayas riesce come sempre a immortalare, gli attimi più emozionanti scanditi dalla avvolgente colonna sonora e il colpo d'occhio notevole di quelle cime lontane e irraggiungibili. Ma oltre a questo, il senso profondo dell'opera rimane nascosto dietro un velo di superflua complessità. La grandezza del regista francese è stata sempre nel riuscire a scogliere per chiunque la complessità della vita: stavolta, invece, la sua opera di interpretazione e semplificazione non è riuscita.

Il film procede con una calma invidiabile, con la sicurezza di chi sa come dire quel che gli preme e come lasciar sospeso ciò che desidera scatenare. Tra diverse scomparse (alcune per la fine della vita, altre misteriose ma spiegabili) la vita di questa grande attrice arrivata nella fase della maturità si scontra, stride e poi, in un finale che non è troppo diverso da quello bellissimo e conciliante di Clean, sembra distendersi di fronte all'inevitabile. Un piccolo contrasto durante le prove e finalmente quel ruolo che sembrava non incastrarsi bene con la sua vita le calza a pennello e tutto è in armonia, con un sorriso che ha il sapore della grandissima chiusa.
Nella Binoche che con pochi sguardi sembra tornare a comprendere il mondo che abita, il momento che vive e quel che l'aspetta c'è una serenità contagiosa, perché davvero come l'acqua le mille idee di Assayas sono ormai entrate ovunque senza che ce ne accorgessimo.

…Sils Maria è un film quasi perfetto da un punto di vista narrativo, dove introspezione psicologica, dramma e anche una certa eleganza formale si fondono, creando uno spettacolo davvero piacevole. Juliette Binoche è in splendida forma e non è escluso che, per questo ruolo, possa addirittura ambire all'Oscar. Ma se delle qualità della Binoche eravamo tutti abbastanza certi, la grande sorpresa, stavolta, è rappresentata da Kristen Stewart, la cui impeccabile e incredibilmente intensa performance l'ha trasformata nel perno delle ossessioni della protagonista. Completa il quadro Chloë Grace Moretz (Jo-Ann) specchio di una nuova generazione di adolescenti, di cui è l'idolo per eccellenza. "Specchio" è proprio la parola adatta per definire il gioco di riflessi in Sils Maria, che culminerà in una sparizione, scena chiave del film. Infine, Maria riuscirà a superare le sue nevrosi, abbandonando ciò che è stata per entrare, al meglio, nella sua nuova parte (e stagione della vita)? Fondendo realtà e finzione Assayas tenta una risposta alla domanda, che però rimane incerta o, meglio, oggettiva, racchiusa negli occhi di chi guarda, nel film, così come tra il pubblico.

…L’approche esthétique est admirable tant chaque élément est vecteur de sens. Olivier Assayas parvient notamment à transcender l’énergie et l’émotion de ses protagonistes – à l’instar de Valentine dont l’effervescence est manifeste d’entrée de jeu. Nourrissant les effets de mise en abyme en recourant de manière plurielle à différents médiums, il acte non sans humour de la révolution engendrée par Internet et la numérisation.
Les jeux de miroir nourrissent sa dramaturgie jusque dans la mise en scène. Le cadrage, où les effets d’opacité, de reflet, de translucidité ou de surimpression sont loin d’être anodins, permet au réalisateur d’exacerber une multitude de sentiments. L’emploi de la musique participe à un même mouvement sensible. L’ensemble peut-il paraître rhétorique qu’il atteste de la part d’Assayas d’une pleine maîtrise des possibilités offertes par le médium cinématographique.
Si Juliette Binoche est magistrale dans un rôle taillé sur mesure, Chloë Grace Moretz, qui est détestable à souhait, n’est pas moins excellente. Toutefois SILS MARIA révèle proprement Kristen Steward qui trouve enfin un rôle à la mesure de son talent.

…Risulta davvero arduo riuscire a trovare una motivazione forte alle spalle di Sils Maria: il racconto della diva in crisi perché l’autore con cui aveva esordito è morto e la pièce che deve riportare in scena a distanza di trent’anni la vede impegnata nel ruolo antagonista a quello che interpretò appena adolescente procede seguendo semplici meccaniche della narrazione, accumulando situazione su situazione in una reiterazione pressoché infinita del medesimo schema. Non giova al film l’annullamento del mondo esterno a favore di uno sguardo focalizzato interamente sul Maria Enders e la sua fedele assistente Valentine, che la segue in mezzo alle montagne, nel rifugio in cui la donna spera di trovare l’ispirazione necessaria a superare tutti i suoi dubbi e i suoi traumi inespressi

Dans Sils Maria, les actrices, délivrent autant leur vision du Cinéma, par leur jeu hyper précis et juste, que le réalisateur y livre la sienne.
Il s’agit d’une réelle communion actrices/réalisateur.
Juliette Binoche est absolument exceptionnelle, dans son interprétation (?) de Maria Anders. Personnage certes écrit, mais habité. L’empathie ou plutôt la compréhension de ce personnage complexe est immédiate.
Kristen Stewart, la plus surprenante, adopte un ton neutre qui laisse pas mal de zones d’ombres et de doute sur son implication psychologique dans la vie de Maria Anders. Séduction? domination? Attitude résolument professionnelle?
Enfin, Chloë Grace Moretz en Jo-Ann Ellis à le dur rôle, de représentante d’une génération dépréciée par Maria Anders (par Olivier Assayas?) ; elle lui donne pourtant une présence crédible et respectable, qui existe par son mal-être, sans autre limite que celle de la reconnaissance médiatique. Une composition également troublante car pleine de contradictions assumées….

Juliette Binoche, particulièrement à l’aise dans cet exercice (on se souvient de sa prestation dans "Copie conforme"qui brouillait également brillamment les pistes), forme un impeccable duo avec l’inattendue Kristen Stewart qui nous sort un jeu aussi subtil que le film. Elle incarne l’assistante jeune, connectée, dévouée et parfois même confidente, à la perfection. C’est celle qui renvoie à la face de Maria à quel point elle peut être en décalage avec son époque ou pleine d’idées préconçues comme, par exemple avant sa rencontre avec la jeune actrice montante qui lui donnera la réplique (Chloë Grace Moretz, elle aussi excellente).
Rythmé par d’excellents dialogues et enveloppé de mystère par une réalisation maitrisée préparant, tout au long de récit faussement ordinaire, une pointe de fantastique qui ne se révèlera qu’à la fin, "Sils Maria" soutient finalement bien mieux la comparaison avec le chef-d’œuvre de David Lynch, "Mulholland Drive", que le dernier film de Cronenberg.
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