martedì 29 maggio 2018

The Whistleblower - Larysa Kondracki

se il cinema potesse cambiare il mondo le cose terribili descritte nel film cesserebbero subito.
al massimo si può raccontare una storia e sostenere tutti i/le whistleblower del mondo.
l'agente Bolkovac (Rachel Weisz) scopre cose che mai avrebbe immaginato, cose terribili.
e resti senza parole, dopo aver visto questo film necessario, che continuano a esistere dappertutto tutti i giorni.
intanto Pangloss, maestro di Candido, ripete che viviamo nel migliore dei mondi possibili.
buona visione - Ismaele



QUI il film completo, in italiano



Il whistleblower è colui o colei che riferisce, in pubblico o ai propri superiori, di attività illegali commesse in un'istituzione governativa oppure in una compagnia privata o pubblica che sia. Si tratta di una figura protetta dalla legislazione americana sin dal 1863. In questo specifico caso la società definita come Democra è in realtà la DynCorp International che ha continuato ad operare per il governo statunitense sia in Iraq che in Afghanistan. Ciò che però procura uno sconcerto ancora maggiore è che in tutto ciò fossero coinvolti uomini delle Nazioni Unite a diversi livelli. Il senso di impotenza di una donna che vuole proteggere altre donne dalla perversione maschile (contro la quale gli stessi soggetti istituzionali dovrebbero lottare) emerge con grande forza da un film che si basa su fatti realmente accaduti (si veda il blog della vera Bolkovac).
Ci sono scene che toccano nel profondo per un motivo molto semplice: al cinema e in televisione abbiamo già assistito più volte alle atrocità commesse durante quel conflitto. Si aveva però l'impressione di poterle quasi chirurgicamente separare da noi e dal nostro vissuto. Erano i serbi, i bosniaci, i croati a trasformarsi in belve feroci contro esseri indifesi. Qui ci viene invece detto (con la forza del cinema) che non è andata solo così, che chi è andato con la missione di pacificare è rimasto invece (in alcuni casi ovviamente) a perpetrare il crimine. Ci sono film necessari e The Whistleblower è uno di questi. È forse per questo motivo che una distribuzione a volte miope non lo ha fatto uscire nelle sale del nostro Paese.

...Film molto forte, tra l’altro tratto da una storia vera, a tratti emotivamente sconvolgente, che fa riflettere parecchio sui controsensi della vita (gli uomini di una missione di pace che si macchiano di atrocità immonde), sull’omertà imperante (nessuno è disposto a rischiare niente per salvare davvero delle vite), ma anche sulla volontà che può portare il singolo a fare cose che una gran corporazione non può conseguire.
Gran merito per la riuscita del progetto va sicuramente alla brava, e sempre tenace, Rachel Weisz, ormai abituata ad interpretare donne forti (vedasi anche “Agorà” e “The constant gardener”), regalando alle stesse sfumature umane che raramente si vedono in circolazione tutte insieme.
Per il resto l’opera regala momenti di tensione drammatica, soprattutto emotiva, la costruzione è lineare, ma asciutta e senza scene inutili, la confezione non brilla più di tanto (va poco oltre a quella di un tv movie), mentre il finale mi è sembrato poco incisivo (almeno non ai livelli a cui avrebbe potuto ambire), per quanto poi i titoli di coda a seguire facciano dimenticare velocemente tutto il resto, nel loro essere incontestabili e detestabili per il report di quanto accaduto in seguito (in sintesi i colpevoli si son salvati tutti la pelle).
Insomma rimane un film da vedere per tanti buoni motivi contenutistici (tra gli altri, anche l’ombra lunga del lato oscuro del potere), mentre il resto non spicca (Weisz a parte ovviamente), ma già così rimane a prescindere una visione obbligatoria per ricordarci di quanto possa contare l’impegno del singolo e di quanti fatti incredibilmente inquietanti si verifichino nel nostro mondo del benessere.

…A Kathryn, sola e impotente, non resta che sedersi davanti al computer e scrivere:

Al capo del personale
Commissario capo in Bosnia

"Non leggete se siete deboli di stomaco o avete la coscienza sporca. Sono un agente di polizia obbligata a fare rapporto sui crimini. Ho ricevuto denunce da donne che descrivevano le violenze fisiche psicologiche e le torture emotive. Quando arrivano in Bosnia queste ragazze vengono vendute e obbligate a fornire prestazioni sessuali. La loro clientela è costituita da forze speciali, polizia internazionale, polizia locale e impiegati internazionali. Peggio ancora, sono diventati trafficanti loro stessi. E’ ora che ognuno di voi realizzi che questa è una seria organizzazione criminale con enormi profitti. Noi siamo una forza di pace che è venuta per proteggere degli innocenti. Ma adesso li sfruttano nel peggiore modo possibile. Potremmo essere accusati di pensare con i nostri cuori invece che con le nostre teste. Ma manterremo la nostra umanità."

…La Weisz está muy bien como Bolkovac, una mujer valerosa pero también humana, con defectos y con inseguridades, que le dan una dimensión al personaje (si hubiera sido una heroína de ficción, posiblemente el balance habría sido diferente) y la hacen empática al espectador. Y es importante que lo consiga, porque es en los hombros de la actriz donde recae el peso de la cinta y es algo muy delicado, puesto que podría caer en exageraciones y Weisz siempre mantiene su presencia e interpetación bajo control, muy al estilo de Meryl Streep en Silkwood (de Mike Nichols, que tenía una temática similar). Un reparto internacional acompaña a Weisz: Monica Belluci (totalmente desprovista de su aura sexy como una burócrata oficiosa y odiosa), David Strathairn y la monumental Vanessa Redgrave como Madeleine Reece, el principal soporte de Bolkovac.
La cinta es ágil e inteligente. Se deja ver muy bien, y es un trabajo que invita a enterarse más acerca de la horripilante realidad del tráfico de personas. Su realización es aceptable y funciona, si bien, en manos de un director más avezado, hubiera fluido mejor (uno se pregunta qué habría hecho Paul Greengrass, por ejemplo), pero cumple bien su cometido y deja perfilar una actuación excelente por parte de la Weisz, que es una de las mejores actrices de su generación, en activo hoy en dia.

…The film's director and co-writer, Larysa Kondracki, infuses the film with an atmosphere of pervading male menace, which, after all, is based on facts and court findings. In wartime, the rape of civilians is often considered one of the spoils, and no doubt it is a morale-booster for troops who feel in danger. It is also a cruel blow against enemies — but these girls are not enemies but simply and pathetically victims.
The male world in which Bolkovac moves contains many men who regard her as a sex object, and see sexual aggression as an expression of their masculinity. In this boys' club, it is expected that members will go along, participate or turn a blind eye. There is unspecified but clearly sensed danger if they don't. On one hand, they can party and enjoy sex. On the other, they can lose their jobs, their salaries, their pensions and perhaps their lives.
For 20 years the news has reported from time to time of crimes alleged by employees of paid defense contractors. These cases rarely seem to result in change, and the stories continue. We can only guess what may be going unreported. "The Whistleblower" offers chilling evidence of why that seems to be so.

Party Animal - Yorgos Zois

sabato 26 maggio 2018

Un oso rojo - Israel Adrián Caetano

chi si ricorda di Irene Menéndez Hastings?
è la giudice de Il segreto dei suoi occhi, sette anni prima è la protagonista femminile di Un oso rojo, un film d'amore e di violenza, mai gratuita.
un film tosto, ma non riesci a staccarti mai.
il regista, argentino, è bravissimo nel tenere sempre alta la tensione, e i due protagonisti (Soledad Villamil e Julio Chaves) sono superlativi.
la storia ha molti colpi di scena, che non ti aspetti.
il risultato è un gran film, da recuperare, senza alcun dubbio.
buona visione - Ismaele





Perfetto film di mafia in salsa argentina, Un oso rojo è girato molto bene dal 33enne uruguagio Adrián Caetano, qui al terzo lungometraggio a soggetto. La sceneggiatura, scritta dallo stesso regista con Graziela Speranza, è condita da una giusta dose di ironia e si fa forza di un protagonista piuttosto “bastardeggiante” ma buono a sufficienza da attrarre la simpatia degli spettatori. Soprattutto, un protagonista duro come se ne vedono di rado, al cinema.
Nel corso dei quasi cento minuti di proiezione, l’Orso non sbaglia un colpo e non perde un confronto (tranne quella coi poliziotti, che lo umiliano di fronte alla figlia), ma per tutto il film a guidarlo è l’amore per la piccola Alicia. Certo il fine non giustifica i mezzi, ma come cantava Francesco De Gregori, «al proprio destino nessuno gli sfugge», e il destino di Orso è quello di avere una pistola in mano.
Un ottimo film, sottolineato dalle splendide musiche di Mariano Barrella e Diego Grimblat e concluso da una sparatoria che merita applausi a scena aperta.

The director-writer of Bolivia, Adrián Caetano, presents a film co-written with Graciela Speranza and based on a story by Romina Lanfranchini. It comes with this old chestnut about a fierce gunman seeking revenge from those who done him wrong and then aiming to go straight because he saw the light. It works mainly because of the strong presence of the imposing figure of Julio Chaves as the Bear, in a brilliantly understated performance. He was just released after serving a seven year prison term for armed robbery where a policeman was killed in the shoot-out. The Bear hopes to reconcile with his wife Natalia (Soledad Villamil) and his eight year old daughter Alicia (Agostina Lage), who was celebrating her first birthday the day the robbery took place…

La cerveza, los cigarrillos, el dinero y el mate, son elementos que aparecen a menudo en este filme y definen, por la forma de su uso, una pertenencia de clase de los personajes. Fumar ansiosamente, beber a cualquier hora, no tener casi nunca un peso en el bolsillo y compartir el mate en las reuniones familiares, van delineando una manera de estar en el mundo de los protagonistas. Estos detalles y varios más de la puesta en escena, convierten a este policial dirigido por Caetano, en una gran película. El cuidado de la forma que se expresa en el uso original e inteligente de elementos como la música, los objetos, los primeros planos y las elipsis,  logra un impacto inolvidable en el espectador…

What makes the film so interesting is Caetano's sure handed direction, and his ability to subvert our expectations at all times. There are moments when you feel like you know exactly where the film is going or what the next shot will be, but Caetano chooses to take his film to an entirely different place. It's fresh and original, and that is incredibly exciting. He cuts, for instance, from the quiet atmosphere of a young girl's birthday party to the sound of bullets whizzing across the screen as we watch Bear commit the crimes he'll go to jail for in a scene that looks as though it's newsreel footage. The action is shot in a documentary style that contrasts the entirety of the film, but Caetano makes it work. His choice to shoot the opening action in this manner only makes the crimes seem all the more real, and in turn, makes Bear's attempt at redemption, after being paroled, all the more difficult…

L'histoire, les choix des personnages, leurs hésitations assurent un rythme permanent au récit et seul les scènes de violence viennent trancher dans le vif. Une violence froide, brusque et tragique, ou la vie a peu de poids face au nécessité des gens. Que ce soit lors des cambriolages ou des scènes de règlement de comptes, la caméra reste alors au plus près du héros, comme pour coller à ses doutes et à ses peurs. 

On est donc en présence d'un film classique dans son sujet, mais qui par un regard très personnel du réalisateur, un contexte explosif dans un pays miné par la crise et un acteur impressionnant, entraîne avec tristesse et mélancolie dans une inexorable spirale de violence. À la fois polar et film social( l'un aidant l'autre à se maintenir), l'OURS ROUGE reste un film prenant et tragique.

venerdì 25 maggio 2018

Sapovnela - Otar Iosseliani



"Sapovnela" means "the flower that nobody can find." We present this film without subtitles (the voiceover was forced on us by the censorship in the Soviet times but the film was banned anyway due to its ending). This was my first attempt at combining music and colors. Also, this is a story about the old florist Mikhail Mamulashvili who created wonderful compositions in his small garden. - Otar Iosseliani

La Corazzata Potëmkin in Italia: 10 punti sul caso Fantozzi – Wu Ming





La Corazzata Potëmkin in Italia: 10 punti sul caso Fantozzi – Wu Ming


Una decina di mesi fa, il corto-circuito tra il ritorno sugli schermi della corazzata di Ejzenštejn (in versione integrale e restaurata), gli appunti di visione di Wu Ming 1 e la morte di Paolo Villaggio innescò una querelle sulla memoria del film del 1925 e su quella che è probabilmente la sequenza cinematografica più fraintesa della storia del cinema italiano: la sequenza del cineforum aziendale in Il secondo tragico Fantozzi (1976).
Qualche tempo dopo, il direttore della Cineteca di Bologna Gian Luca Farinelli chiese a WM1 di rifinire il suo post, integrandovi alcuni spunti emersi nella discussione, come contributo per il libro allegato al DVD, accanto ad altri testi storici e critici.
Il DVD è uscito nel dicembre 2017, e nei mesi scorsi la nostra nave da guerra preferita è approdata in molte città italiane, sempre con grande successo popolare. Perché La Corazzata Potëmkin è un grande, esaltante film popolare. E il capitale lo sa bene, tanto che il 22 gennaio scorso Google (nientemeno) ha celebrato il 120esimo anniversario della  nascita di Ejzenštejn, dedicando al regista il suo doodle.
E così, mentre le librerie ricevono la scheda di prenotazione del nostro romanzo («La rivoluzione russa vista da un altro pianeta», c’è scritto), vi invitiamo a ri-sintonizzarvi con quella grande temperie, e proponiamo anche qui il testo di Wu Ming 1.
Ignorate i nuovi Guidobaldo Maria Riccardelli. Non fatevi dettare i gusti culturali dalle nuove contesse Serbelloni Mazzanti, che per non essere dette radical-chic fanno le gare di alitosi nei rutti. Compatite lo snobismo di chi sa solo ripetere la battuta sulla «cagata pazzesca». La loro stessa risata li seppellirà.
Oggi in tutto il mondo la Corazzata conquista le giovani generazioni, navigando nelle vaste acque delle nuove lotte sociali. Prima o poi succederà anche da noi. Siate pronti. Tutto il potere ai consigli di operai eSoldatiWM]


1.
«Братья!»
«FRATELLI!»
Sera del 26 giugno 2017, Piazza Maggiore, Bologna. Migliaia di persone – non meno di quattromila – applaudono in piedi La corazzata Potëmkin.
La moltitudine ha appena seguito col cuore in gola la storia del celebre ammutinamento avvenuto durante la rivoluzione russa del 1905, della solidarietà di un’intera città (Odessa) agli ammutinati, e della violentissima repressione che la popolazione subisce per mano dell’esercito zarista.
L’orchestra filarmonica del Teatro comunale di Bologna ha appena eseguito – con una forza che staccava da terra sedie e culi – la partitura composta per il film da Edmund Meisel nel 1927, e ora si gode la lunga ovazione.
È stata la serata più intensa di quest’edizione, la trentunesima, del festival Il cinema ritrovato.
Con me c’è mia figlia dodicenne. Si è emozionata, si è commossa, si è stretta a me durante le scene più violente, si è entusiasmata nel finale.
«Fratelli» è la parola chiave del film: appare all’inizio, scatena l’ammutinamento e annuncia il grande atto di solidarietà di classe nel finale.
La corazzata Potëmkin è stato una grande sorpresa per la maggior parte dei presenti in piazza. Sui lati, all’inizio, qualcuno ridacchiava, ho sentito mormorare la frase «cagata pazzesca», c’era chi pensava di fermarsi pochi minuti, farsi un sogghigno e andare via… e invece è rimasto lì in piedi per oltre un’ora, magnetizzato, e magari ha pianto, magari era tra i volti estasiati fotografati da Lorenzo Burlando durante la proiezione. Di certo ha partecipato alla lunghissima standing ovation. A quella hanno partecipato tutti.
Nei giorni precedenti, la Cineteca di Bologna ha voluto fare una piccola e divertente campagna di debunking, con video e altri mezzi. Una troupe ha intervistato gente per le vie del centro, e molti erano convinti che il film durasse tre o quattro ore, se non di più. Dura 70 minuti.
2.
E già. Molti pensano di sapere com’è La corazzata Potëmkin anche senza averlo visto. Lo associano a qualcosa che credono di conoscere, cioè l’intento di Luciano Salce e Paolo Villaggio nella celeberrima scena de Il secondo tragico Fantozzi (1976).
Quell’associazione ha tenuto a distanza il film. La corazzata Potëmkin è divenuta, a torto marcio, emblema di lunghezza e pesantezza.
Mi piace pensare che almeno 4000 persone, la sera del 26 giugno, vedendo il film, abbiano capito il vero significato della scena della rivolta al cineforum.
Salce, Villaggio e gli sceneggiatori Benvenuti e De Bernardi adattarono e trasformarono radicalmente un racconto incluso ne Il secondo tragico libro di Fantozzi (1974), a sua volta derivante da un monologo che Villaggio rielaborava da anni.
Solo vedendo La corazzata Potëmkin si capisce che ne Il secondo tragico Fantozzi il bersaglio della risata e della critica non erano – come molti credono – le cose «pesanti» e «difficili», non erano gli «intellettuali» (men che meno «di sinistra»), ma il potere – rappresentato dalla Megaditta che tutto controlla – che ingloba e svuota la cultura, anche la cultura della rivolta.
3.
È necessario un caveat: qualunque cosa abbia dichiarato nei decenni successivi (e ha detto ogni cosa e il suo contrario, anche su La corazzata Potemkin), ricordiamo sempre che all’epoca dei primi due Fantozzi Villaggio era vicino all’estrema sinistra. Nella nota biografica del libro Fantozzi (prima edizione 1971), si definiva – per burla ma non solo – «a sinistra del Partito Comunista Cinese», ed è interessante vedere come si descrisse ne Il secondo tragico libro di Fantozzi (1974). Qui l’io narrante è Fantozzi stesso che, seccato dalle attenzioni di Villaggio nei suoi confronti, scrive una Lettera al direttore amministrativo:
«[…] Paolo Villaggio lo conosco bene e non mi piace. Non mi piace quel suo impegno politico del quale io diffido, cioè non credo alla sua buona fede: so che è nato a Genova da famiglia borghese benestante […] come si concilia questa sua origine con i suoi atteggiamenti da “sovversivo”? So che a Roma frequenta circoli di sinistra. La notte di Natale [del 1970] è stato a fare uno spettacolo alla Coca-Cola con Gian Maria Volontè e altri bei tipi di questo stampo e ha partecipato a varie manifestazioni per il Vietnam prima e ultimamente per il Cile. Ha dato dei soldi varie volte a gruppuscoli di sinistra e vota sempre comunista.»

Tutte cose vere e verificabili. Villaggio votava PCI (o almeno così diceva), ma faceva scorribande alla sinistra del partito, anche finanziando organizzazioni rivali.
Ancora nel 1987 Villaggio si candidò alle elezioni politiche con Democrazia Proletaria.  Il creatore di Fantozzi era un intellettuale di sinistra. Cosa che dagli anni ’90 in poi lasciò cadere e in parte rinnegò. Le sue rievocazioni di quell’epoca sono segnate da continui “aggiustamenti”, e sono interessanti anche per questo: la storia usa come fonte non solo la testimonianza, ma anche il progressivo alterarsi della testimonianza.
4.
A forza di sentir dire – anche da Villaggio in persona – che la famosa scena prendeva in giro la cultura dei cineforum di sinistra, ci si è dimenticati che quello rappresentato nel film non è un cineforum di sinistra: è il cineforum della Megaditta, rivolto non a compagni ma a colletti bianchi “apolitici”.
Guidobaldo Maria Riccardelli non è un compagno né un intellettuale di sinistra: è anzi un dirigente della Megaditta, talmente organico a quest’ultima da presiedere la Commissione Assunzioni.
L’unico militante marxista che appare nel mondo di Fantozzi è la «pecora rossa» Folagra. Se nell’episodio del cineforum Villaggio et alii avessero voluto prendere di mira gli «intellettuali di sinistra», e caratterizzare il cineforum stesso come «di sinistra», sarebbe stato naturale riproporre la figura di Folagra, già apparso nel primo film, e dargli un ruolo in quel contesto. Il secondo film è pieno zeppo di personaggi ripescati dal primo, tanto che oggi consideriamo entrambi – insieme ai successivi, sempre più brutti e banali – parte di un continuum, un unico flusso di storie dove appaiono Filini, Calboni, la signorina Silvani…
Invece no: al presunto “cineforum di sinistra”, manca proprio l’unico personaggio caratterizzato come di sinistra.
5.
La corazzata Potëmkin narra una rivolta, ma nel film di Salce – dove il titolo è storpiato in «Kotiomkin» – quella rivolta è addomesticata, disinnescata, la cornice del cineforum aziendale e la modalità di fruizione la sviliscono, e la visione stessa è sminuzzata, non c’è più l’insieme, solo dettagli svuotati di ogni senso: «L’occhio della madre… La carrozzella…»
Tutta la teoria critica radicale del dopoguerra, dalla Scuola di Francoforte ai situazionisti a Pasolini, aveva come premessa il fatto che il capitalismo mercificasse la rivolta e la rivoluzione stessa, e la borghesia recuperasse per proprio tornaconto le istanze rivoluzionarie. Decine di saggi e performances e film dell’epoca si occupano esattamente di questo, da La società dello spettacolo di Debord ai testi di Marcuse, passando per i comunicati degli Yippies, fino agli Scritti corsari.
Emblematico di questo processo – e pienamente nella temperie degli anni ’70 – il destino del comunista Ejzenstein nel cineforum della Megaditta.
Nella Megaditta la parola «comunista» normalmente fa tremare i vetri, eppure un film sulla rivoluzione girato dal più noto cineasta rivoluzionario è proiettato più e più volte, senza che i vetri tremino, perché l’opera è stata recuperata e depoliticizzata. Villaggio mostra la parabola di un film rivoluzionario divenuto innocuo e addirittura tedioso per mano della cultura borghese, in un’azienda-che-si-fa-mondo, un’azienda il cui megapresidente si dichiara «non proprio comunista… Diciamo “medio-progressista”».
Lo “scatto”, il colpo di genio consiste in questo: il film è stato cooptato, asservito, svilito, eppure riesce, in modo paradossale, a ispirare la stessa rivolta di cui narra. A insorgere sono infatti gli impiegati, e poiché regista e autori sanno il fatto loro, la rivolta contro il film ripete quella nel film.
6.
L’episodio del cineforum è un remake del film di Ėjzenštejn, un’allegoria a chiave che ne ripercorre tutti e cinque gli atti:
– il cineforum è la corazzata;
– Fantozzi è il marinario Vakulenčuk che per primo grida la verità su quel che sta accadendo;
– gli spettatori sono i marinai insorti;
– l’odioso Riccardelli è il corpo degli ufficiali spodestati;
– la sala occupata è Odessa;
– la polizia che «s’incazza davvero» ha il ruolo dei cosacchi che reprimono.
E la partita dell’Italia? Anche quella è parte del remake. Se intorno alla Corazzata Potemkin è in corso la rivoluzione russa del 1905, alla quale i marinai vogliono prendere parte, intorno al cineforum aziendale è in corso la visione collettiva della partita, alla quale gli impiegati vogliono prendere parte. In entrambe le storie vengono introdotti a bordo materiali clandestini che permettano di collegarsi a quel che avviene fuori: testi di proclami rivoluzionari nel film parodiato, radioline e televisorini nel film parodiante.
A rendere l’intera allegoria una vertiginosa mise en abyme, il ruolo della carne marcia imposta ai marinai è assegnato al film dove si narra la rivolta.
Il finale del remake è tuttavia molto diverso: gli insorti non hanno scampo e sono condannati a mettere in scena e subire ad nauseam la repressione zarista/aziendale. Nessun grido liberatorio segnala una catarsi.
7.
Siamo di fronte a una parodia colta e, al fondo, per nulla anti-intellettuale.
Chi non ha mai visto il film di Ėjzenštejn non può rendersene conto.
Se non tutti, svariati spettatori del 1976 lo avevano visto.
L’episodio, per il pubblico di allora, aveva una carica critica ad alto voltaggio, che però col tempo si è esaurita. Non poteva che esaurirsi: il contesto che rendeva l’episodio comprensibile in tutti i suoi aspetti e livelli – l’Italia degli anni Settanta, dei movimenti radicali, delle grandi lotte operaie -, quel contesto non c’è più.
8.
Cosa rimane di quella critica, oggi, nell’interpretazione corrente del film e della famosa scena? Pressoché nulla. L’episodio, tolto dal suo contesto, rivisto e ri-rivisto da solo quando non ridotto alla sola scena madre, citata e stracitata come semplice gag, col tempo ha cambiato significato: oggi è evocato per rigettare la cultura stessa e tutto ciò che è «difficile», in nome del parla-come-magni (detto quasi sempre da gente che mangia malissimo) e del solito «E fattela ‘na risata!»
L’eterna ripetizione della gag ha diffuso l’idea che La corazzata Potëmkin duri molte ore e altri miti che il film manda in frantumi, se solo si supera il pregiudizio. Ma il pregiudizio c’è ed è futile negarlo. Un danno culturale c’è stato. L’arma della critica è stata girata e puntata contro la critica stessa, allo stesso modo in cui Riccardelli, gerarchetto della Megaditta, aveva girato e puntato il cinema di Ėjzenštejn contro i suoi sottoposti.
9.
Dice veramente molto sul nostro presente, su com’è stata distorta se non capovolta la ricezione della satira fantozziana, il fatto che molta gente oggi creda quel cineforum un cineforum «di sinistra», e Riccardelli un «intellettuale di sinistra». Dice moltissimo sull’egemonia ideologica dell’aziendalismo il fatto che le colpe dell’azienda, in una torsione allucinata ma non casuale, vengano oggi date alla «sinistra».
Questa visione retroattiva di una sinistra che negli anni ’70 avrebbe avuto il controllo della cultura è nata con il revanscismo di destra dell’epoca berlusconiana. Le prime campagne sui «cinquant’anni di egemonia culturale della sinistra» le fece nel 1993 L’Italia settimanale, periodico diretto da Marcello Veneziani.
Tale ricostruzione di comodo dimentica alcuni “piccoli” dettagli, e cioè che il ministero della pubblica istruzione fu per cinquant’anni ininterrottamente in mano alla Democrazia Cristiana; che fino al 1977 la Rai rimase quella democristiana su cui Bernabei e i suoi esercitavano un controllo soffocante (la Rai che aveva cacciato Dario Fo e Franca Rame e aveva una lunga lista di artisti che non potevano comparire nei programmi); che i periodici più diffusi non erano certo i Quaderni piacentini ma i reazionari Oggi e Gente, oltre alle riviste di fotoromanzi; che i libri di saggistica più venduti erano i volumi della Storia d’Italia di Montanelli e Cervi [oggi, non per niente, il Corriere della Sera li rimette in circolazione in riedizione acritica, N.d.R.]. Nell’Italia che da trent’anni mandava al governo la DC, gli “intellettuali” (insegnanti, professori, giornalisti ecc.) non di sinistra erano la maggioranza.
10.
Oggi l’obbligo contro cui ribellarsi non è quello di guardare La corazzata Kotiomkin. Semmai, al contrario, è quello di non prendere mai nulla sul serio. Il «farsi una risata» come risposta a tutto, l’essere sempre ironici per non mostrarsi mai troppo coinvolti in nulla, perché coinvolti equivale a vulnerabili, e dunque ironia sempre, cinismo e disincanto, non devi dare mai l’impressione di credere fino in fondo a quel che dici. Soprattutto, fai vedere che ti stanno sul cazzo gli «intellettuali». Risulta molto più facile se adotti l’espediente di chiamare «intellettuali» tutti quelli che ti fanno sentire vulnerabile. Chiama «pippone» qualunque cosa scrivano o dicano.
In un simile clima culturale – che mi auguro venga spazzato via al più presto da un’immane tormenta – un film come quello di Ėjzenštejn, che mostra la fratellanza nella rivolta e a volte fa sarcasmo sul potere ma mai ironia sulla rivolta stessa, deve per forza essere considerato una «cagata pazzesca». Vige l’obbligo di conformarsi alla lettura più decontestualizzata e banale dell’episodio fantozziano.
È contro quest’obbligo che dobbiamo ribellarci, proprio come Fantozzi si ribellò al cineforum aziendale.
E gli applausi di Piazza Maggiore non saranno durati 92 minuti, come quelli riservati all’insorto Fantozzi/Vakulenčuk, ma bastano a convincerci che siamo nel giusto.
«Братья!»
Bologna, giugno – settembre 2017


giovedì 24 maggio 2018

Vidas secas - Nelson Pereira dos Santos


tratto da un grande romanzo di Graciliano Ramos (qui), Nelson Pereira dos Santos ne fa un film indimenticabile (infatti i golpisti brasiliani ne vietarono la visione).
il pappagallo, il cane Baleia, Fabiano, Vitoria e i due bambini fanno una vita da schiavi o servi della gleba, ma con meno sicurezze.
il grande sertão ospita quella famiglia, come tante, il cielo dà la pioggia e la siccità, i militari sono detestabili, i tranelli aspettano Fabiano, catapultato dalla campagna desertica al paesetto della festa, che diventa un paese dei balocchi, con i mangiafuoco, carabinieri, prigione compresi.
dopo i film sugli eroi, sui nobili, sui guerrieri, ecco il cinema nuovo, che racconta il mondo dei poveracci, con gli occhi degli ultimi, il cui unico patrimonio è la speranza, e l'idea di cambiare il mondo non esiste, per la famiglia il cui orizzonte temporale è il domani.
gran film, grande musica, grandi attori, grande fotografia, piccola grande enorme storia, grande regista, ecco un capolavoro da non perdere - Ismaele





QUI il film completo, con sottotitoli in inglese

qui un ricordo di Nelson Pereira dos Santos (morto nel 2018)


If the main aim of Brazil’s Cinema Nôvo movement was the decolonization of the medium, then its two main firebrands, Glauber Rocha and Nelson Pereira dos Santos, could be viewed respectively as its bedeviled bulldozer and its humanist architect. Both directors were bent on unchaining the country’s film industry from an exoticism dispenser with eyes set on overseas markets to an instrument of inner inquiry and political activism—Rocha by literally dismantling the frame, Santos by contemplating a people’s acceptance of its own oppression. Widely considered a landmark of the nation’s cinema, Santos’s Vidas Secas is no less radical a cultural examination than Rocha’s Black God, White Devil the following year, yet where Rocha gets Godard-medieval on the camera’s ass, Santos keeps his lenses squarely focused on the barren lives of his characters, the gaze as concentrated as the sun blasting the arid expanses of Brazil’s northeast.
Graciliano Ramos’s acclaimed novel was often compared to The Grapes of Wrath, so it’s fitting that the narrative begins in 1940, the year of John Ford’s film version of the Steinbeck novel. Fabiano (Átila Iório) and Sinhá Vitória (Maria Ribeiro) are first seen walking the parched backlands with their young sons (Gilvan and Genivaldo Lima) and faithful dog Baleia, a journey, we soon deduce, that is neither just beginning nor close to an end. Dialogue is sparse, and Santos shapes the family’s struggle as blunt moments of survival against the landscape—their parrot gets curtly cooked over a fire for food; one of the sons collapses under the heat, and the father tries to rouse him by poking him with his rifle; an empty hut offers refuge for the night, only to be reclaimed by the local wealthy landowner. Fabiano finds work as a cowhand and the family lays claim to a tiny patch of land, giving hope to their dreams, namely owning a leather bed, the possession that would solidify their status as “real people.” However, a squabble with a petty policeman and nature’s own merciless grip set the characters back on the road.
Noted upon its original release for a documentary style readily linked to Italian neorealism, Vidas Secas, with its telling compositions, subjective shots, and atomized overexposed lighting, now seems relentlessly subjective, keyed to the unarticulated anger of a people aware of its exploitation yet politically too embryonic to consider revolt. Santos’s expressive montage braids the two, with Fabiano reeling from his welts in a cell while his boss enjoys the folkloric dance outside; the next morning, his cellmate offers him the chance to join up with armed guerilla riders, but Fabiano’s family responsibilities and political docility send him back to square one.
Like Ford’s The Grapes of Wrath, another oft-misread seditious text, the film seems primed for a revolution, yet Fabiano is never to become an active force of rebellion like Henry Fonda’s Tom Joad—the trajectory is across plateaus of increasing awareness, though the growing consciousness is the audience’s rather than the characters’. (A mordantly hopeful sliver of awareness is injected for the next generation; playing with the dog after being chided for asking about hell, the older son looks at the inhospitable grounds all around and sees no difference between home and the mystical purgatory.) The desert stretches endlessly, yet the battered dignity etched on the characters’ faces attests to their unity as both family and culture, endlessly roaming for survival, mirroring neocolonial Brazil’s search for an identity and cinema of its own.

Fra Stroheim e Pasolini, un film iperrealista capace, nei momenti più torridi, di assumere una qualità quasi visionaria. Il contenuto politico non è ancora esplicito, tuttavia pare evidente come la struttura del racconto tenda a costituire un'allegoria della Storia umana: dalla lotta dell'Uomo contro la Natura si passa ben presto a quella dell'Uomo contro l'Uomo, orchestrata da sfruttatori ai danni degli sfruttati. Prima del marxismo di Rocha, tuttavia, solo il Cristianesimo si offriva ai cine-eroi carioca come arma di riscatto (o quantomeno fonte di speranza): Fabiano è un uomo buono, umile, ingenuo, volitivo; Vitoria è una donna forte, aspra, ma estremamente devota. Notevole come il punto di vista della vicenda passi, di volta in volta, dal cane ai bambini agli adulti. Film complesso nei risvolti psicologici, al di là delle apparenze; con accenti brechtiani e un finale di alta retorica, inquadrature cariche di un epos affine a Rocha (il vaccaro con la staccionata alle spalle, prototipo dei futuri Antonio Das Mortes), le consuete aperture documentaristiche, sobrie metafore animali e vegetali: un capitolo fondamentale nella rappresentazione di quella "estetica delle fame" che ha costituito la cifra stilistica più importante del Cinema Novo.

…dos Santos reveals that Vidas Secas was the first film in which he was able to convey that the film’s lighting was “the clear result of an aesthetic position.” His attributes this to his cinematographer, Luiz Carlos Barreto, who was a “follower of the Cartier-Bresson school of thought.” Says dos Santos: “It was a shocking experience, revolutionary radical, to film without a filter, with naked lens, to shine the light directly on the characters’ faces.” The effect is both moving and chilling.
In fact, the film was banned after Brazil’s 1964 military coup for its depiction of horrific poverty and police brutality. In March of that year, the military junta under Humberto Castello Branco overthrew the bourgeois government of João Goulart. A second coup in 1968 brought stronger censorship and harsher repression. It was in this period between the coups that Rocha penned his polemic, in essence, calling for a cinematic style that would express the “real” Brazil as a paradigm of failure of hope.
In Vidas Secas, hope remains intact with a revolutionism, although embryonic, contained in the iron will of dos Santos’s characters. At some point, as consciousness emerges, the human forces to which they belong will be welded into an indestructible force.

Il neorealismo italiano attecchisce anche in Brasile, dove, insieme ad altre correnti, germoglierà fino a confluire nel Cinema Novo brasileiro e Nelson Pereira Dos Santos sarà uno dei profeti di maggior successo.
Questo film, terzo della sua filmografia dopo i pregevoli Rio, 40 gradi e Rio Zona Norte, narra del pellegrinaggio disperato di una famiglia brasiliana nella zona Nord-est del Paese.
La terra è secca, inadatta ad essere coltivata, ciò costringe la miserabile famigliola a peregrinare senza metà, nè speranza, in cerca di un lavoro per il capofamiglia Fabiano che dovrà districarsi tra stenti ed umiliazioni per consentire la sopravvivenza della propria famiglia.
Fabiano è un uomo ingenuo che subisce continuamente soprusi da parte del padrone e delle autorità, poco furbo e troppo poco istruito per poter uscire da quella che appare la sua naturale collocazione sociale.
Opera arida in tutto e per tutto, dove si possono riscontrare anche elementi innestati, come il continuo rivolgere la telecamera al cielo, la ricerca della luce e del Creatore.
Film tratto da un romanzo di Graciliano Ramos (scritto 30anni prima, eppure contemporaneo a causa delle incapacità governative) riceverà vasti consensi nelle platee internazionali anche grazie alla partecipazione al Festival di Cannes del 1964.

martedì 22 maggio 2018

Kader (Destino) - Zeki Demirkubuz

Bekir, un tipo senza qualità, sposato, con una figlia piccola, passa il tempo fra un lavoretto e il bar, con degli amici brutta gente.
capita che sia stregato da Ugur, e poi non capisce più niente, la vuole, ma lei non è disponibile, e inizia uno stalking, che la metà basterebbe per una dura condanna in tribunale.
amore, se è amore, ma forse è solo voglia di possesso, amore maledetto e impossibile, Bekir è proprio da ricoverare.
il tutto accade in una Turchia fredda, invernale, senza speranze, neanche un pezzettino.
un film dove non c'è niente da ridere, interessante - Ismaele







Prequel di Masumiyet, un film sulla solitudine dei due protagonisti Bekir e Ugur. I sentimenti piacevoli sono sepolti da tempo: per Ugur un legame ritenuto “indissolubile” per uno di quei criminali autentici, che ha una facilità nel dare la morte ad altri al pari di altre azioni “ordinarie”, mentre per Bekir un'anaffettività che ha radici lontane, sconosciute. Per entrambi un equilibrio irrealizzabile a priori, sono servi del “loro” destino, una riformulazione del concetto, in verità, un inferno non solo a cui arrendersi, ma da alimentare con sofferenza, frustrazione, pane quotidiano della Turchia che Demirkubuz descrive, un paese senza pace.
E' proprio Bekir a definirlo “kader”, destino, questo legame con la distruzione che si dipana come filo conduttore del contatto tra i personaggi. Una strana accezione che sintetizza l'onnipotenza e la vulnerabilità all'unisono: l'uomo ma sarebbe più appropriato "il maschio" diviso tra una profonda incapacità comunicativa e un'oppressione di affermarsi, che è più “facile” attraverso la distruzione, l'ossessione, guidate a loro volta dalla concezione che una donna deve essere posseduta. C'è un macigno che grava su queste esistenze e ne determina le coordinate, e alla rivendicazione della libertà di Ugur la risposta sarà sempre “sei una puttana”, sullo stesso piano di “sei l'amore della mia vita”. L'amore è stato sostituito già da tempo, nell'universo soffocante delle metropoli dei film di Demirkubuz (qui Istanbul, in Masumiyet Ankara) e quando Bekir mangia l'asfalto con la sua auto per raggiungere ovunque Ugur, ci viene restituito il vero corso di questa parabola discendente, in un tempo che non importa affrontare, perché in questa narrazione è sostituito dai cambiamenti del personaggio protagonista: la barba cresce, poi viene tagliata, le cicatrici non visibili, il racconto di un amico ad altri ragazzi, la parlata più sciolta e volgare…

 Bekir (Ufuk Bayraktar) is an apparently ordinary bloke in his early twenties, working in a city-centre carpet emporium. One day a flirtatious, slightly younger woman wanders in – she's Ugur (Vildan Atasever), and Bekir rapidly falls head-over-heels in love with her. Indeed, he struggles to contain the extent of his passion – with disastrous, violent, and wildly melodramatic consequences for both…
   Destiny is constructed as a series of brief-ish, discrete episodes, set around several different locations around Turkey, and which propel us forward through the chronology of Bekir and Ugur's on-off relationship at a disorienting speed. There's never any attempt to identify exactly when the various events are taking place, but the changes to the main characters' appearances indicate that considerable periods of time are elapsing between the segments. By the end, the hapless protagonists have both suffered at the hands of their unfortunate fate – or is it merely the flaws in their characters that have brought them so much misery?
   Ambitious stuff, but unfortunately neither multi-hyphenate Demirkubuz (who produces, directs, writes, edits and also pops up in a minor supporting role) nor his two main actors are quite up to the task of carrying it off. There's certainly no shortage of incident (much of it bloodily violent), and the picture is given a certain meaty, doom-laden intensity by the extremity of the inarticulate Bekir's dire (and largely self-inflicted travails). But in the end Destiny – a suitably portentous title, by the way – feels like a rather flimsily-constructed idea for a narrative, a gimmicky structure which buckles under the burden of Demirkubuz's fondness for weighty philosophical and psychological themes.