mercoledì 31 luglio 2013

Salvo - Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

il cortometraggio di esordio di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, nel 2009, era "Rita". 
l'ho visto su Arte, in rete non si trova, lì la protagonista è Rita, una bambina cieca.
"Salvo" sembra il proseguimento, Rita è cresciuta, vive nel mondo dell'oscurità, Salvo fa il killer e il latitante, si incontrano e non si lasciano più. 
non c'è molto altro, ma c'è tutto, c'è la durezza di esser cieca, quella di avere un ruolo al quale non si può fuggire, se ci provi sei finito, mi piace pensare che Rita sia riuscita a salvarsi, lontano.
bravissimi Rita e Salvo (figlio del grande Mohammed Bakri), e bravissimo Luigi Lo Cascio, in un ruolo piccolo e prezioso.
cercatelo, un film da non perdere - Ismaele





…Lunghe attese, pochissimi dialoghi.
Ferite che si rimarginano senza interventi di medici.
Pasti consumati in luoghi squallidi. In angusti locali sotterranei.
Impossibilità di vivere un quotidiano luminoso, sereno, altro.
Non esiste alterità nella scelta mafiosa.
La vita è una sorta di espiazione, di costrizione ad un’emarginazione necessaria.
In questa prospettiva, parlare di Palermo, o della Sicilia, non avrebbe alcun senso.
Non sono questi, infatti, gli oggetti della narrazione, tutta filtrata in una chiave simbolica ed allegorica.
Gli obiettivi (quello della macchina da presa, e, quindi, quello narrativo dei registi) non devono, pertanto, orientarsi nel catturare un luogo, quanto piuttosto “l’impressione” di uno stile di vita. Un’ambientazione emotiva, che sia, in qualche misura, lo specchio delle angoscianti ore della vita, della gente di mafia, potente, magari, per qualche anno, ma costretta a vivere nascosta, e continuamente ossessionata dall’idea che qualcuno, prima o poi, la tradirà.
Questo fa sì che la lunghezza del film, deve servire proprio per trasferire nello spettatore, la pesantezza di una simile condizione esistenziale…

…Se non ci fosse una chiara idea di regia a supportare il film, questo senso di oppressione non verrebbe fuori, ma Piazza e Grassadonia hanno prestato un'attenzione maniacale al suono e alla fisicità dei loro attori, che premono contro i bordi di inquadrature claustrofobiche con una ribellione dapprima sommessa e poi potente, rabbiosa.
Anche se i personaggi sembrano destinati al fallimento in nome di una hybris che ha portato lontano dal seminato quelli che li hanno preceduti, per loro è possibile un doppio miracolo: riacquistare la vista e cominciare a vedere veramente, perché solo vedendo in profondità si può intervenire sulla realtà. O almeno immaginare di farlo.
Una nota di merito, infine, va agli attori di Salvo: a Saleh Bakri, che non essendo siciliano rende il suo personaggio archetipico e nello stesso tempo straniante, e a Sara Serraiocco, che negli occhi accecati da lenti oscurate ha saputo esprimere l'angoscia di un animale braccato.

On comprend rapidement que le personnage de jeune loup solitaire et sans attache est partagé entre sa mission et son désir profond de raccrocher. Mais malgré l’effet de miroir entre le silence dans lequel il se mure et la vue qui fait défaut à la jeune et belle captive, on a du mal à croire qu’un quelconque lien puisse les unir… et finalement, ce changement de rythme finit par lasser, faisant passer le film de bel essai à un polar sans grand intérêt.

Il merito dei due registi è insomma quello di aver lasciato spazio a immagini incisive e di aver permesso che il cinema fluisse senza ostacoli di sorta, lasciando le parole (superflue) a pochi personaggi, l'orrido boss o la stravagante coppia che copre la latitanza di Salvo, tanto impaurita, quanto affascinata dalla presenza del sicario in una delle loro stanze senza condizionatore. L'estrema naturalezza del risultato è in realtà il frutto di uno scrupolosissimo e sofisticato lavoro di regia; il piano sequenza iniziale che vede Rita terrorizzata dalla presenza del 'nemico' in casa riesce a mostrare la fragilità della donna, quel senso di isolamento che traspare da ogni sospiro e che avvolge anche noi spettatori. Poco altro sappiamo di lei e della sua vita. Di certo è la donna che riesce a dare concretezza alla figura di Salvo il cui volto ci viene sempre nascosto, se si eccettua per il particolare degli occhi glaciali, e che riusciamo a vedere solo quando Rita entra in campo e ritrova la vista…

Non bisogna però lasciarsi trasportare troppo dall’entusiasmo; perché, se è vero che Salvorappresenta una palese boccata d’aria in un cinema spesso ristagnante, d’altro canto non si può evitare di notare alcuni difetti che la pellicola mostra apertamente. La povertà dei dialoghi, che si alterna con le battute rumorose dei comprimari, se da una parte aiuta ad entrare nella diffidenza dei due protagonisti, dall’altra rischia di appesantire lo spettatore avvezzo a ben altra formula cinematografica. Il confine tra poesia e noia, in taluni casi, è piuttosto labile. Ma il vero punto debole della storia è la commistione di più generi: si passa dal noir al western, dalla commedia nera alla storia d’amore, quasi senza continuità. La mancanza di equilibrio tra le varie parti si fa sentire implacabilmente, spingendo la fruizione in una forsennata danza tra le varie parti messe in gioco. Nonostante questi difetti, Salvo si affaccia sul cinema italico con la sua aria innovativa, un racconto dall’impianto classico che però rinuncia agli stilemi stereotipati della drammaturgia mafiosa, restituendo una storia d’amore improbabile, in una Sicilia dove la piaga della criminalità organizzata si alterna al miracolo impossibile tra due reietti. Storia di visione, di libertà e di amore: un ottimo inizio per la carriera registica dei suoi autori.

Salvo si presenta come un film fortemente metaforico: la cecità fisica di Rita è anche la cecità mentale del protagonista, che rappresenta a sua volta la cecità, o meglio, l'omertà dei palermitani, abituati a vedere senza reagire. Così, quando Rita recupera la vista, Salvo recupera la propria umanità, la capacità di dare e ricevere affetto; lei riesce a vedere il mondo attorno a sé, lui vede lo squallore del mondo in cui stava vivendo. I dialoghi sono quasi assenti, i protagonisti in particolare pronunciano sì e no una decina di parole. A parlare molto è il boss, con parole ridondanti ma in realtà vuote e menzognere. I silenzi in questo film riescono a dire molto di più che le poche parole, gli occhi dei protagonisti sono una porta per legger i loro pensieri, e la bravura degli interpreti e dei registi riesce a farceli leggere con chiarezza…
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martedì 30 luglio 2013

Stella solitaria (Lone star) – John Sayles

un film "completo", vendetta, amore, politica, omicidi, ricerca della verità, insomma non manca niente. John Sayles coordina il tutto, attori giusti, e bravissimi, con una supersceneggiatura, coi tempi perfetti, insomma, se inizi a guardarlo non smetti.
ecco, inizia a guardarlo - Ismaele




QUI la sceneggiatura


…They're not Hollywood-style surprises -- or yes, in a way, they are -- but they're also truths that grow out of the characters; what we learn seems not only natural, but instructive, and by the end of the film, we know something about how people have lived together in this town, and what it has cost them.
"Lone Star” is a great American movie, one of the few to seriously try to regard with open eyes the way we live now. Set in a town that until very recently was rigidly segregated, it shows how Chicanos, blacks, whites and Indians shared a common history, and how they knew one another and dealt with one another in ways that were off the official map. This film is a wonder -- the best work yet by one of our most original and independent filmmakers -- and after it is over, and you begin to think about it, its meanings begin to flower.

Noir di confine per ambientazione e rispetto al genere, che nasconde una meditazione sul senso della storia, sui meccanismi... Una metafora demistificante ad hoc per la storia degli States, ma che risulta non meno valida per la Storia in generale, e per la storia personale di ogni uomo. Nel dettaglio, per un uomo: Sam Deeds. Sam, figlio di Buddy-la-Leggenda a cui proprio oggi i cittadini dedicheranno un monumento alla memoria: Buddy Deeds, l'eroe che ha allontanato l'iniquo Wade dalla città; Buddy Deeds, il giusto che in nome dell'equità appianava ogni scarto; Buddy, la giustizia, il buon senso, la correttezza: Il Buon Americano, Lo Sceriffo. Sam indaga su suo padre: presenza ingombrante - come ogni eroe; Sam indaga su una fetta di passato: passato ingombrante - come ogni passato; Sam indaga: ed un'indagine è sempre ingombrante, scomoda. Come dice un indiano nel film: quando scoperchi una scatola non sai mai cosa puoi trovarci dentro: se poi ti trovi in un deserto puoi trovarci un serpente a sonagli... Ma solo affrontando il passato, svelandone i segreti, sondandone i misteri, si riesce a dare pace ai fantasmi, a farli scomparire. E' un rischio: ma solo così facendo si riesce ad azzerare il contatore e ricominciare da capo…

The movie is well cast, especially when considering that most of the actors who appear in this movie weren't being big stars yet at the time. This for instance goes for Chris Cooper and Matthew McConaughey. All of the actors did a great job in this movie and were given plenty of opportunity to shine in this one.
The movie at first truly feels like a Coen-brothers movie and it maintains this sort of feeling and style pretty much throughout the entire movie but it's being a bit more drama than comedy orientated. I actually do believe that if the Coen-brothers directed this movie it would had been a far better known was, as well as a better one I feel. The movie could had used some humor and entertainment in at times, since the right type of story and characters were definitely there for it.
But oh well, the movie was going for a different approach and it still is for most part being successful with it as well. It simply great, little and simple movie to watch and there is also no good reason why you shouldn't!

…John Sayles è probabilmente, assieme a Gus Van Sant, il più importante tra i registi indipendenti americani. Inversamente , la sua fama – almeno qui da noi in Italia – è ignota e sotterranea. Forse perché il suo cinema, così rigoroso, non possiede proprio nulla di ammiccante. Ben lontano dai famigerati modelli “indie” – così colorati, così simpatici, così vuoti – che ormai sono divenuti marchio di fabbrica, prodotti per uso e consumo – e consequenziale “cestinamento” -, Sayles ha portato avanti, dagli anni Ottanta ad oggi, con caparbietà e testardaggine, un tipo di cinema profondamente diverso, troppo spesso ignorato. Un cinema interessato in primis agli Stati Uniti, alla loro anima multiculturale e multietnica, alle contraddizioni della loro storia. Un cinema delle “differenze”, che rifugge qualunque tipo di banalità, per addentrarsi impietoso nel sociale, per evidenziarne gli aspetti spesso più scomodi e inquietanti.
Stella solitaria è il capolavoro indiscusso del regista. Il film in cui l’interesse radiografico per le tematiche sociali e l’integrazione razziale si intrecciano perfettamente coi dubbi riguardanti l’autenticità della Storia (quella “ufficiale”), condensandosi in un unico, grandioso ed impegnativo film. Stella solitaria è la storia di Sam Deeds, giovane sceriffo che vuole indagare sul passato del padre, Buddy, sorta di eroe della piccola comunità texana, al confine con il Messico. A spingerlo in tale impresa è il ritrovamento del cadavere di Charlie Wade, sceriffo razzista e avversario “morale” del padre di Sam…

…John Sayles demuestra dominar perfectamente el oficio de cineasta usando un lenguaje cinematográfico claro y conciso, sin grandes alardes, con un adecuadísimo uso del "flashback" que requerirá de la complicidad del espectador inteligente, reforzando los ambientes y situaciones con una serie de canciones muy expresivas y apropiadas a las distintas comunidades étnicas que veremos discurrir a lo largo de las dos horas y cuarto, ocupándose también del montaje, como es lógico en un director que sabe lo que tiene entre manos y cual es la mejor forma de contarlo.
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sabato 27 luglio 2013

Alois Nebel – Tomás Lunák

un film che è animato, ma non per bambini.
un racconto che affonda nella storia e che a partire da lì deve trovare la sua soluzione.
l'atmosfera è buia e triste, Alois è un brav'uomo, solitario è dire poco, c'è anche un gatto e Kveta, e anche amici che è meglio perdere che trovare.
a me è piaciuto molto, e così spero di voi - Ismaele





La fascination qu'exerce ce récit, doit beaucoup au traitement des décors, impressionnants de précision, valorisant chaque ombre, chaque lumière en déplacement (des phares dans la nuit qui éclairent les contours des arbres, un train qui fait briller des rails...), tout en restant d'ordre schématique, ce qui rend l'image à la fois lugubre et séduisante. La qualité de l'animation, est notamment liée au principe même de sa conception, le « rotoscoping », procédé datant de 1915, le film ayant d'abord été tourné avec de vrais acteurs, avant de faire l'objet d'un dessin par-dessus la pellicule (contrairement à « Valse avec Bachir » qui était fait de dessins purs). Selon l'auteur, cela a permis de rester proche de la trilogie des bandes dessinées dont est adapté le film.
Jouant sur l'aspect hypnotique de certains passages, avec le décompte méthodique des horaires de passage des trains dans différentes gares, l'auteur amène avec douceur les transitions vers les cauchemars de Nebel. Intense malgré son rythme plutôt lent, le film trouve son climax lors d'une nuit d'orage, ayant pour conséquence diverses inondations et le blocage de certains personnages, permettant ainsi au dessein du personnage muet de prendre place. Comme si après le brouillard (« nebel » en allemand) l’accalmie revient et la vie (« leben » en allemand et verlan de « nebel ») peut enfin reprendre, loin des fantômes d'un honteux passé. « Alois Nebel » est donc un beau projet, mêlant récit captivant, animation hypnotique et personnages complexes. Espérons que cette œuvre forte et touchante trouve le chemin des salles en France.

Tratto dalla grafic novel di Jaroslav Rudiš e Jaromír 99, Bílý Potok, ispirata ai fumetti americani degli anni '50, ma con un disegno tipico del realismo socialista di propaganda. Il disegno in bianco e nero rende benissimo l'atmosfera plumbea, spettrale, di desolazione della Cecoslovacchia di fine degli anni '80. Di quell'aggrovigliarsi di tensioni che venivano dal passato non ancora risolto, di quell'accumularsi di attriti e rivendicazioni che non facevano prevedere nulla di buono.
Alois Nebel vorrebbe dimenticare il suo passato, vorrebbe rischiarare la nebbia che lo avvolge. Ma per poterlo fare dovrà conoscere le cause della sua angoscia, del suo malessere, e dovrà fare i conti con questo passato.

 Desde la soledad, nostalgia y añoranza de su personaje, hasta la representación del paisaje en general, que logra expresar la atmósfera gélida, densa y cargada de esos momentos. Alois Nebel es una pieza de gran belleza, donde la narrativa, aunque es lenta y pausada, nunca deja de ser hipnótica. La fotografía de Baset Jan Strítezský es excelente; la música – creada por Petr Kruzík— que acompaña las escenas es vital para la construcción del tempo y el ambiente; los personajes están muy bien dibujados (en el amplio sentido de la palabra), culminando un todo cuyas partes funcionan como un reloj. Un cuento con alma propia que traspasa al espectador y lo contagia, lo conmueve y lo hace vivir tantas emociones que muchas películas convencionales ni siquiera llegan a rozar. Una obra de arte llena de planos magistrales, escenas impactantes por su carga de dolor, nostalgia y añoranza. Un relato en blanco y negro, que al mismo tiempo está lleno de oscuridad y luz, sobre todo con ese final tan hermoso y absolutamente esperanzador. 

Alois Nebel oscille en grande partie entre les flashbacks vers le passé de l’après-guerre et la fin du régime communiste. Même si la révolution de velours n’y est pas traitée en tant que telle, on apprend par bribes qu’une page d’histoire est en train d’être tournée en ces derniers mois de 1989.
Si celle-ci n’apparaît qu’en filigrane du récit d’Alois Nebel, ces deux pivots temporels, déterminants pour l’histoire de la Tchécoslovaquie, rejoignent la grande histoire, celle d’un XXe siècle européen secoués par de nombreux bouleversements. Jaroslav Rudiš :
'« C’est clairement une histoire centre-européenne qui est compréhensible déjà dans tous les pays environnants : la Pologne, la Hongrie, la Slovaquie, l’Allemagne. Mais je veux croire que même si le contexte historique peut au premier abord sembler peu clair, il reste l’histoire personnelle d’Alois, qui est universelle : il perd son travail, il est poursuivi par le passé, il a subi un traumatisme et doit reprendre pied. Il doit aussi tomber amoureux. Pour moi c’est aussi une grande histoire d’amour même si elle est tardive dans sa vie. Je pense que ça fonctionne. L’histoire est un peu en retrait même si elle est présente. Mais c’est aussi le récit d’une région particulière, cette région difficile qui joue un grand rôle. »
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giovedì 25 luglio 2013

La festa perduta – Pier Giuseppe Murgia

un film praticamente introvabile, finché non lo ristampano o un'anima pia lo mette in rete.
io ho avuto la fortuna di vederlo, in una copia di una registrazione di non so quando, dalla Rai, trovato in una cineteca.
è uno dei primi film sul terrorismo, e ce n'è per tutti, per terroristi e polizia, scomodo per tutti, terroristi e polizia, forse per questo è "sparito" (neanche un trailer si trova in rete).
siamo nel 1977, nel passaggio dalla contestazione alla lotta armata, ed il film è di una chiarezza e di una sincerità uniche.
ci sono molte cose interessanti dentro, delle piccole storie laterali.
peccato che il regista sia famoso per dei film inguardabili e non per questo.
è un film che merita molto, a me è piaciuto moltissimo, auguro a tutti di riuscire a vederlo, poi giudicherete - Ismaele





Vi parlo della pellicola intitolata “La Festa perduta”, diretta da Pier Giuseppe Murgia, premiato come Migliore esordiente,  nella quale il protagonista è un giovane Fabrizio Bentivoglio alle primissime prove cinematografiche. La quale è calata molto bene e con la partecipazione di un intero vissuto personale nella vera atmosfera e nei violenti avvenimenti di quegli anni, descrivendo bene la partecipazione iniziale ai diversi movimenti che oggi si chiamerebbero antagonisti, anche con le motivazioni più svariate, e lo scivolare verso la violenza, a cominciare dalle rapine di autofinanziamento come dagli “espropri proletari”, non fidandosi mai più di nessuno e tanto meno di altri gruppi o nuclei che dovrebbero essere comunque dello stesso segno, e con sempre in agguato le strumentalizzazioni dei gruppi di potere legati ai servizi segreti italiani come esteri, o addirittura nemmeno identificabili, così come dai vari potentati politici più o meno al potere; conducente molti di coloro che hanno inizialmente aderito con passione e fanatismo a questi ideali di lotta e di sovversione, alla disperazione, alla morte o a una lunghissima incarcerazione, e comunque a gettare il più delle volte un'intero futuro e l'esistenza in una strada assolutamente senza uscita. Splendido l'ultimo amarissimo, tragico bilancioautodafè di Bentivoglio, e tutta la sequenza girata anch'essa splendidamente, dell'agguato in strada a Genova, e dello scontro armato con i Corpi speciali…

Uno dei migliori film italiani su terrorismo e anni di piombo. Denota bene la partecipazioni ai cortei per motivi tra i più svariati, i contrasti talvolta violenti e la diffidenza tra movimenti dello stesso segno, fino ad arrivare a rapine per autofinanziarsi, mentre al di sotto serpeggia come il rettile più velenoso la strumentalizzazione di questi disgraziati da parte di chi sta di chi sta al potere, per poi farli arrivare in un burrone senza uscita. Tanto tremende quanto reali le ultime considerazioni di Bentivoglio.

mercoledì 24 luglio 2013

Birdcage inn (Paran daemun) – Kim ki Duk

un film apparentemente semplice, e allo stesso tempo ricco, un piccolo capolavoro acerbo di un regista che poi farà cose anche più belle.
i personaggi sono davvero ben definiti, anche possono sembrare stereotipi.
Kim ki Duk mostra il cambiamento di Hye-mi, che capisce molte cose, e sopratutto la protagonista Jin-ah è veramente un concentrato dei fioretti di san Francesco.
a me è piaciuto molto, provateci, credo che non deluderà nessuno - Ismaele






Birdcage inn”, inizialmente confuso, si apre poi ad un canto corale al femminile di esseri che si ritrovano e scoprono la forza morale della sorellanza che annienta tutto il resto.
La figura del capofamiglia è il simbolo di un’umanità dai molteplici contrasti, onnipresente nella cinematografia di Kim Ki-duk, perché è l’uomo silenzioso che dipinge pesci sulla parete, che protegge Jin-ah dalla violenza dei clienti, che le copre le spalle con il suo giubbino, che le sorride vedendola dipingere una farfalla gialla, ma è anche quello che la violenta in un momento di istinti feroci. Figure meno intense, meno particolareggiate di altre produzioni del regista, anche se i confini tra il bene ed il male sono sempre pura illusione. Ci saremmo aspettati una tipica forma mista di crudeltà e amore verso gli altri nella protagonista, ma non è lei ad esserlo, è il titolare del motel ad indossare quei panni. Lo stesso vale per il protettore che la ricatta, la violenta ma poi le acquista i mandarini, unico gesto di delicato amore che riesce a regalarle.
Il mestiere della ragazza l’annienta agli occhi del mondo, ma quella scena iniziale in cui raccoglie la tartaruga, in quanto unica ad accorgersene, mettendola in salvo, le proietta una luce così potente addosso da non lasciare più ombre sulla sua persona. La stessa sorte tocca ad un pesciolino rosso appartenente ad una donna che fa cadere inavvertitamente per strada. Si china, apre la borsa, afferra una bottiglia d’acqua, ne versa il contenuto nella bustina di plastica e la porge alla legittima proprietaria, rimasta durante tutta la scena nell’immobilismo più totale. Jin-ah poi acquista per sé un pesce che stritola con le unghie nel suo contenitore di fragile plastica quando il padre di Hye-mi la violenta e poi, quando tutto è concluso, lo fa scivolare delicatamente nell’acquario ancora miracolosamente vivo. Il pesciolino che simboleggia lei nel momento in cui la figura che deve proteggerla la umilia, si sente soffocare, stretto in una morsa di gelo. Anche lui troverà la libertà nel momento in cui Jin-ah non sarà più sola. Ed è splendida l’immagine finale delle due ragazze su un ponte sospeso sul mare che si tengono insieme e sorridono, mentre il pesciolino pare osservarle da sotto l’acqua. E' la loro isola…

…Siamo in un’imprecisata località marina della Corea del Sud, ma in fondo potremmo anche trovarci sulla riviera romagnola del felliniano Amarcord: il cinema di Kim Ki-duk, di una semplicità e un pudore nel sottintendere assolutamente encomiabili ma nel contempo denso e sfaccettato come pochissimi altri nel panorama attuale, punta diretto al linguaggio universale della poesia come quella palla di neve che alla fine metaforicamente rotola dalla stanza di Jin-a a quella di Hye-mi lungo il cortile della casa. E, rotolando, cambia impercettibilmente la sua forma ad ogni giro.
Forse il senso del discorso cinematografico di un autore del valore di Kim Ki-duk sta tutto in questa brevissima sequenza. Ammesso che senso compiuto possa mai esserci, nel cinema di chi, come lui, continuamente s’interroga, chiamando direttamente in causa anche lo sguardo altrui, sugli eterni e indecifrabili girotondi dell’esistenza.

…It's not that easy to have a normal viewer-movie-character-relationship with the individuals in his works as they oftentimes behave somewhat strange or rather are a bit twisted in their minds, but behind that there is always some kind of inner wound that you have to discover. And that's what turns out to be the attraction in Kim Ki-duk's movies…

Birdcage Inn est cependant avant tout le récit de l’amitié profonde qui naît entre deux jeunes filles. Toujours à la limite du candide, le film se permet ainsi des images dépourvues de toute ambiguïté, exaltant au contraire l’innocence de cette rencontre. Autour d’elles, les hommes passent et se croisent, porteur d’autant de stratégies pour résister à la toute-puissance de la beauté féminine. Car plus encore que dans Crocodile, la femme est souveraine, malgré les coups et les brutalités qu’elles subissent. En effet, le désir qu’elle suscite leur est étranger : plaisir devenu travail pour la prostituée, ou refus du sexuel pour la jeune fille, embarrassée de son education...

...Jina, a budding sketch artist, for reasons unknown to us, is forced to resort to a job as a prostitute for an inn on the coast of Korea. The inn, run by a lower class family, is made up of a relatively nice father, a brash mother, an embarrassed and bitter daughter and a smitten, virgin son. The family is barely able to pay for school and food off of Jina’s work and tensions arise when a man from her past returns and the daughter finds more reasons to detest Jina further.
As a character drama, the film hits the right points by giving its main characters well-written positives and flaws and then tying them into the script to neatly contribute to the plot. Everyone is a rather morally ambiguous character and the multiple angles make it quite difficult to place our loyalties.  The film hinges mainly on the relationships of Jina and the family, but especially that of the daughter, Hyemi, who is the most developed character and serves as a strong contrast to Jina for the film’s examination of attitudes towards sex.
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martedì 23 luglio 2013

In Dreams - Neil Jordan

film spesso distrutto dalla critica, dico subito che a me è piaciuto.
mi ha ricordato "Shutter island", per dire, mica niente.
non sarà perfetto, ma non mi sono annoiato un minuto.
forse perché Neil Jordan è uno da serie A, e anche le sue opere minori sono tutte da vedere - Ismaele






Una cittadina americana, Northfield del New England, nel 1964 è sommersa da una terribile inondazione, causata dal crollo di una diga. In pochi minuti la vita di centinaia di uomini è interrotta per l'eternità. Dopo tanti anni è rimasto solo un lago ridente, ma nei fondali quanti segreti sono custoditi… Comincia così In dreams, horror psicologico di Neil Jordan (In compagnia dei lupi, La moglie del soldato, Intervista col vampiro), intrigante nelle sequenze oniriche, ma che scorre prevedibile nella parte finale e la tensione, invece di salire, a questo punto si spegne, anche a causa di insulsi dialoghi.
Claire (Annette Bening), illustratrice di pubblicazioni per l'infanzia e madre premurosa, è ossessionata da incubi orribili in cui vede una bambina tra le grinfie di uno sconosciuto. Si tratta probabilmente di un fenomeno paranormale: Claire riesce a vedere il passato delle vittime dell'inondazione. Ma presto si rende conto che i suoi sogni sono chiaroveggenti, vedono il futuro, e per di più un futuro che la riguarda, infatti, la figlia Rebecca è rapita ed uccisa da un serial killer noto ormai da tempo alla polizia locale.
La storia è già di per sé angosciante, ma gran parte del merito va sicuramente alle scelte visionarie di regia e fotografia. Sono penetranti alcune sequenze girate con la camera a mano, come quella in cui Claire devasta la sua abitazione e in cucina fa scempio di cumuli di mele e le pareti della casa si riempiono di misteriose scritte rosse ("My father was a dollar"?).

In dreams è un thriller dalle tinte forti tutto giocato in prospettiva paranormale: per mostrarci gli aspetti inspiegabili della vita Jordan non esita a miscelare psicologia e registri da horror movie, lanciandosi in ardite (ma impeccabili) sovrapposizioni tra il piano onirico e la realtà, spesso con risultati spiazzanti per lo spettatore.

"In Dreams" is the silliest thriller in many a moon, and the only one in which the heroine is endangered by apples. She also survives three falls from very high places (two into a lake, one onto apples), escapes from a hospital and a madhouse, has the most clever dog since Lassie and causes a traffic pileup involving a truck and a dozen cars. With that much plot, does this movie really need the drowned ghost town, the husband's affair with an Australian woman, the flashbacks to the dominatrix mom and the garbage disposal that spews apple juice? All of this goofiness is delivered with style and care by a first-rate team; this is a well-made bad movie…

In Dreams does a very good job of creating an atmosphere. The movie opens with the story of a ghost town purposefully flooded and turned into a reservoir. Apples are also prominent, in the Snow White play and in many of Claire's dreams (Vivian hides out in an abandoned apple packing plant). Both water and apples are used as death symbols, and, against the colorful New England autumn, the whole picture reeks of death…
Bening is very good, as usual, and jumps into her mental breakdown with vigor. Downey is also very good as the recluse, except that he is given inane taunts instead of dialogue at the climax…

… The ideal conditions to watch this movie would be as a young film student on drugs and in the company of your classmates, late at night, where you have the filmmaking knowledge and structural understanding necessary to really appreciate what a total piece of psychotic garbage we are witnessing here. Others--watch at your peril, but I think only a wish to mock and degrade is an acceptable reason. Sure, there are awful movies of every available description, but this one really takes the cake just for finding new and equally appalling ways to go over the top in terms of horrificness every few minutes…

domenica 21 luglio 2013

Wisconsin Death Trip - James Marsh

in confronto a Black River Falls, Spoon River doveva essere una cittadina allegra e senza problemi.
basato su un libro di qualche anno prima, James Marsh tira fuori un film impressionante, per tema e svolgimento.
ed è il suo primo lungometraggio, tanto di cappello.
il film a me è piaciuto molto, se non si è capito - Ismaele




…Marsh says of the stories: "The starting point was definitely photographic. Start with an image, a single image, and then move - a lot of long tracking shots, to keep a sense of the still image moving." The result is that the film feels like we are witnessing the events as depicted by animated ghosts. The cinematography is intoxicating. Slowing the camera down to 30 frames per second, and shooting in stark monochrome, Marsh (and DOP Eigil Bryld) create a fluid and eerie effect that captures the essence of the original photographs. It produces the same kind of dark lyrical fairytale quality as Charles Laughton's Night of The Hunter. Combined with a score as diverse as Brahms and DJ Shadow, the effect is hypnotic.
Interspersed with these tales of grim survival are colour footage sections of modern day Black River Falls. Initially, these appear like a documentary version of the opening shots of David Lynch's Blue Velvet - strange old faces and waving children, brass bands shuffling down the middle of a wide empty street. Marsh then introduces voice-overs that question the serenity of this town that evolved from a turbulent past. Police reports of severed heads discovered in bushes and an unidentified local woman stating "Ask almost anyone here, and they'll tell you they're depressed." play over the images. Marsh has said of his intentions behind the film:
"The first choice I made (was) not to try and explain the social-political-cultural history of anything. The stories are based on a respect for these individual tragedies and disasters. If the film lacks one thing, it's a governing idea on that level--but it would have been a travesty." Despite this, Marsh seems to be suggesting that there is not such a huge difference between the current residents of small-town America and their brutal, desperate forebears…

The wonderfully stunning Wisconsin Death Trip is unlike any documentary I have ever seen, but then again, its story is unlike any ever told. The quiet town of Black River Falls, Wisconsin, seemingly like any other in turn of the century America, was suddenly and mysteriously overtaken by violence, jealousy, and hysteria. No explanation is offered, and instead of judging these folks as products of a less enlightened age, filmmaker James Marsh, at least in my interpretation, the madness that occurred so long ago. I say this not only because the film is a stunning collection of crisp cinematography, lush vistas, and well-crafted re-creations, but also out of respect for the film’s ambiguity. Had this been an attack on religious fundamentalism, or the exposure of a hideous disease, we might feel sympathy or even sorrow, but is content to present these bizarre events as if they are the most common things imaginable. Using actual newspaper reports from the 1890s, the film’s narration (provided largely by Ian Holm) is matter-of-fact, detached, and not at all pained by murder, brutality, and a rash of suicides…

If sitting in a library basement reading random newspaper articles on microfilm for two hours is your idea of a good time, then this movie has your name all over it. However, the meandering narrative, which grows quickly tedious, will be insufferable after an hour and a half, if not much sooner.

“Wisconsin Death Trip” has few peers in the world of documentary. It is partly fictional in its depictions, it is drawn without a conclusive bent and it was created to infuse feeling rather than inform. It has echoes of Peter Weir’s classic “Picnic at Hanging Rock” and the opening of P.T. Anderson’s “Magnolia” with a similar but more subdued feeling of John Borowski’s “H. H. Holmes” documentary. Incredible B&W photography, stellar editing and a sparse but effective soundtrack leave the viewer with not only memories of what they’ve seen but emotions and a sense mystical connectedness about the events in the film. However this film is categorized it is clear that James Marsh and crew have created a very strong impression. If Matisse was right then "Wisconsin Death Trip" is an expose' of the soul of Black Water Falls as well as the emotional tenor of those in the audience. From this reviewer's point of view that is a pretty impressive feat.

sabato 20 luglio 2013

L'apostolo - Robert Duvall

un film davvero spiazzante, Sonny è uno che può essere un pastore e ammazzare il compagno della moglie, è uno che riesce a dare forza e speranza a tutti e non sai se ci è o ci fa, parla con Dio, ci discute, alza la voce.
Robert Duvall è davvero eccezionale e basterebbe la sua interpretazione per non perdere un film unico - Ismaele




…Nell'osservare Sonny all'opera nel corso di una tournee religiosa ci è capitato di pensare (anche se il paragone è un po' forte) al Michael Douglas di WALL STREET se non proprio al sergente che domina la prima mezzora di FULL METAL JACKET: uomini senza incertezze, con uno scopo solo e la convinzione di raggiungerlo. Predicare è da sempre il lavoro di Eullis Dewey (l'unico flashback del film ce lo mostra giovanissimo e già impegnato in uno dei suoi coreografici show, lo stesso che poi replicherà nel pre-finale), per cui lì nulla può fermarlo. Gesù, poi, è come fosse l'amico del cuore, cui dare e chiedere, e con il quale è giusto infuriarsi quando il rapporto non è reciproco. Mentre la m.d.p. lo inquadra dall'esterno - efficace Duvall, in uno dei rari scarti rispetto allo stile pressoché documentaristico, ad isolarlo con la sola finestra illuminata nella notte - Sonny litiga letteralmente proprio col Messia, reo a suo avviso di un'immeritata punizione (è stato cacciato dalla chiesa per intemperanze e la moglie intende lasciarlo), ingiustificata a fronte di tutto l'amore dimostratogli. Sonny è un ottimista, desidera e crede in un sistema di valori chiari e di relazioni immediate: Dio ha creato gli uomini e questi devono servirlo ed essergli fedeli; Dio, anche se non se ne possono sempre comprendere i modi, sarà giusto coi giusti. Ma quando la sfera in questione è quella terrena nulla è più così diretto - o in un certo senso rassicurante - e l'omicidio del rivale in amore è per lui il momento più basso di una vita privata che non può essere assolutamente contenuta. Qui la frattura tra uomo e predicatore diventa insanabile, ed inizia il percorso "apostolico" di Sonny, nella speranza che la legge di Dio possa salvarlo da quella degli uomini…

“The Apostle” has become something of a legend in independent film circles, because Duvall was so long in getting the movie made. The major studios turned him down (of course; it's about something, which scares them). So did old associates who had always promised help, but didn't return his calls on this project. As he waited, Duvall must have rewritten the script many times, because it is astonishingly subtle. There isn't a canned and prefab story arc, with predictable stops along the way. Instead, the movie feels as alive as if it's a documentary of things happening right now…

It is a testimony to Duvall's reputation in the business that he was able to gather such an impressive cast for a low-budget, low-profile motion picture. In addition to Duvall, key roles are filled by Farrah Fawcett, Miranda Richardson (as Toosie, a woman who is drawn to Sonny's magnetic personality), country star June Carter Cash (as Sonny's mother), John Beasley, and Billy Bob Thornton (as a racist troublemaker). These five actors, not to mention the rest of the troupe, are in top form, but none steals the spotlight from Duvall, who is truly at the height of his powers as Sonny. In his long and distinguished career, only his Oscar-winning performance in 1983'sTender Mercies was this raw. Duvall becomes Sonny. The energy and passion of a preacher are all present…

…Duvall gives a strong performance. I felt this may be his signature role and that comes after a long line of already brilliant performances.  I enjoyed his running ‘conversations with the Lord’ that he has when he is alone or just walking down the street.  The conversation that he has with the police is amusing as is the final scene that is shown over the closing credits...

…Ma L'apostolo è un film sulla ricerca di Dio e della vera fede, e quindi il ritratto di una società ad alto tasso di spiritualità o - come apparirà ad occhi più scettici - la denuncia della seduzione religiosa? Il personaggio di Robert Duvall è in ogni caso un concentrato delle ambiguità e delle contraddizioni a cui assistiamo nel film, a partire dalla prima scena, che lo vede pronto ad assistere spiritualmente due vittime di un incidente stradale per poi mollarle senza dare un solo aiuto pratico nel momento in cui il suo scopo religioso è stato raggiunto.
Sarà vero che "la parola di Dio può uscire dalla bocca del diavolo?" Ai laici il film sembrerà il ritratto di un folle, vittima di un eccesso di spiritualità mal organizzata. Ai religiosi il ritratto di un uomo tormentato dal conflitto tra gli ideali e il senso di colpa. A chi ama il grande attore Duvall, la prova che è strepitoso (il film gli ha conquistato il suo quinto Oscar) e che è un regista di grande qualità.

Per tutti i protagonisti, ma in particolare per Sonny l'Apostolo, l'improvvisazione è un carattere essenziale. Più che a dei classici sermoni i suoi discorsi si avvicinano a dei veri e propri saggi di recitazione. La funzione domenicale come spettacolo rutilante lontano anni luce dalla mesta e noiosa rigidità del cerimoniale cristiano cattolico. Il corpo si dimena, balla, salta, la voce cambia in continuazione ritmo e tonalità. Musica, danza, ritmo. Nasce quasi spontanea quindi l'assimilazione del "mestiere" del predicatore a quello dell'attore. La capacità di improvvisare una espressione del volto, di aggiungere una battuta alla sceneggiatura, è ciò che distingue un buon attore da un grande attore. L'altare come palcoscenico ristretto, la chiesa come una grande sala cinematografica dove recitare dal vivo. L'attore come il predicatore deve essere in grado di comunicare con tutto se stesso forti emozioni al pubblico. Senza alcuna distinzione di razza, sesso o età. Una recitazione monocorde, una predica sonnacchiosa allontanano i fedeli dalla chiesa, il pubblico dalle sale cinematografiche. Il pieno coinvolgimento della folla è essenziale alla riuscita dello spettacolo. L'Apostolo risulta così essere un film sulle varie sfumature della fede, sulle tribolazioni dell'animo umano, ma anche un grande esperimento di cinema nel cinema. Sostituendo alla chiesa la sala cinematografica, all'altare il palcoscenico teatrale, il film risulta essere un perfetto vademecum sull'arte del recitare. Al cinema, a teatro, sull'altare. Nella vita di tutti i giorni.
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venerdì 19 luglio 2013

Cashback - Sean Ellis


Gorbaciof – Stefano Incerti

Toni Servillo fa Toni Servillo, e lo fa bene, potrebbe (non) fare il testimonial contro la dipendenza del gioco d'azzardo.
truccato come una maschera del teatro giapponese, o forse è così davvero, la fine assomiglia a quella de "Le conseguenze dell'amore",  una donna resta in inutile attesa, il caso (se esiste) ha vinto.
un film con Toni Servillo, come perderlo? - Ismaele



Interpréter Gorbaciof est une entreprise périlleuse, tant le personnage est taillé à la serpe. Incarner un homme d’une telle envergure est un véritable défi de composition qui peut très facilement déraper vers la parodie caricaturale et vulgaire. En résumé, c'est là un rôle en or pour Toni Servillo ! Très grand acteur de théâtre, il est plus connu en France pour être un des acteurs fétiches de Paolo Sorrentino (« Il Divo », « L’uomo in più »). Homme aux mille visages, il s'imprègne de ses personnages comme s'il avait toujours vécu comme eux, au point de changer physiquement. D’ailleurs cela surprend toujours de voir l’acteur au naturel, tant il est différent dans chacun de ses films. “Gorbaciof” apparaît alors comme le film idéal pour décliner toutes les facettes de son talent… à se demander si le film n’a pas été spécialement écrit pour lui. Malheureusement, malgré une fin originale, le scénario n’est pas à la hauteur de son interprète. “Gorbaciof” est donc un film à voir... principalement pour Toni Servillo!

Gorbaciof parla poco. Mi Yang viene dalla Cina e parla solo cinese. Sono proprio una bella coppia. Gorbaciof lavora nell’amministrazione di un carcere, ha il vizio del gioco e per pagare le perdite sottrae – temporaneamente - del denaro dalle casse del carcere. Il giro però si deve interrompere e Gorbaciof deve risolvere un problema più grande di lui. Nonostante i suoi problemi riesce ad innamorarsi della ragazza cinese. E’ proprio con lei vuole creare il suo piccolo mondo per uscire dalla sua mediocrità, anche lui vuole una vita: vuole prendere l’aeroplano e fuggire con lei. Gorbaciof non è Stefano Incerti, Gorbaciof è solo ed unicamente Toni Servillo. Incerti è inutile. Il film potrebbe dirigerlo chiunque. Il problema del film subentra quando non veniamo il ghigno di Gorbaciof – scontroso impiegato del carcere – ma vediamo Servillo che fa Gorbaciof – scontroso impiegato del carcere. Il suo ruolo è superiore a quello di un attore. Qui l’attore non è un significante è tutto il film. Questo da un grande beneficio alla storia, bella e tragica, ma meno alla pellicola nel suo complesso. Gli applausi alla fine sono tanti, ma tutti per l’eroe. Gli altri vanno nella sua scia inconsapevoli della incombente tragedia.

Pellicola decisamente monotona, che ha dei momenti di vuoto paurosi. Come si diceva prima, se non ci fosse stato Servillo presente, con le sue maschere e movenze risolute, non ci sarebbe stato alcun motivo per seguire questo lavoro che Incerti aveva in cantiere da parecchio tempo. Partendo da un titolo molto curioso, il regista ha elaborato una vicenda che ci mostra le solite connotazioni della fauna umana napoletana (l'arrangiarsi con i sotterfugi e i traffici), condendola con molta malinconia perché il suo protagonista è un uomo silenzioso e schivo (il film è quasi muto, le parole dette sono pochissime), la fotografia è sempre oscura e il sogno d'amore disperato si vede come una chimera impossibile; purtroppo, però, la vicenda drammatica. che ha buoni elementi di base. non decolla mai veramente, si vive di sguardi e di azioni che paiono isolati da un contesto fluido di narrazione, si gira a vuoto e si «pesa» decisamente su chi guarda. Sembra che il prodotto voglia rivolgersi solo a chi vuole cercare un'estetica esasperata che mostri senza esplicare chiaramente, tipica del film che si specchia e si compiace con se stesso usando uno stile innegabilmente intrigante…
da qui

As she doesn’t speak Italian, their romance is based largely in gestures, and so it is through his kind treatment of her that the young woman gradually allows the besotted man to become a part of her life.  That she fully understands what he is saying when he suggests they run away together is doubtful, but to this end, Gorbaciof’s idealistic ideas lead him to taking ever greater and more illegal risks to be with the woman he loves.
Filmed around the streets of Naples with often dizzyingly fast camerawork, there is constant movement in most of the shots lending an anxious energy to the film overall.  The moments of stillness are experienced in the increasingly dangerous space around the card table, where excessive close-ups of cards and cash fetishise the players’ desperation for success.
A moody and fairly interesting character portrait, Gorbaciof reveals little that hasn’t already been covered in numerous other films, yet with another immersive performance from Servillo, it holds the attention in the same way as Napoli itself; blasting you with noise and constant movement, allowing you mere glimpses of romance and stillness beyond the blur!

Pacific Rim - Guillermo del Toro

quando Mako Mori bambina corre inseguita dal mostro mi è venuta in mente la bambina vietnamita che corre colpita dal napalm,
solo che nel film i cattivi non si sa chi siano, i Kaiju, o quelli che hanno fatto della terra un posto adatto per i Kaiju.
io sono entrato in sala come se avessi 12 anni, e il film mi è piaciuto molto, spettacolare e tutto, ma un film per ragazzini, appunto, con forza e retorica, i cattivi da una parte e i buoni dall'altra.
aspetto "Elysium", di Neill Blomkamp, quello di "District 9", penso sia un film spettacolare e per "grandi".
intanto "Pacific Rim" vi aspetta, due ore avventurose senza respiro - Ismaele




Pacific Rim is not a very good movie. That’s not to say that a lot of people aren’t going to have a lot of fun watching it. If you are in touch with your inner twelve year old and can check your brain at the door, you are going to have a great time…

…L’onestà dietro la recensione di un simile oggetto di piacere (che potremmo anche definire, con un senso letterale più ampio, pornografia) la si nota quando il commento è anche critico-analitico, per cui non ci si limita a sostenere il mi sono divertito COMUNQUE, ma si evidenziano le criticità a prescindere dal mi sono divertito COMUNQUE.
La disonestà si nota quanto il mi sono divertito diventa fonte di una cornucopia di deliri entusiasti riassumibili in capolavoro o è già un classico, neanche fosse riportato un comunicato stampa della produzione e con il fraudolento (quanto, questo sì, classico) scopo di vendere la merda per cioccolato.
L’unica recensione a mio avviso ammissibile per Pacific Rim è quella che sintetizza l’alternarsi, purtroppo scarso, di fantasmagoriche scene di lotta megarobot-megamostri (e nessuno metta in dubbio che non mi sia esaltato e si fotta Newton) a scene degne di una programmazione alternativa di Disney Channel rivolta a bambini che sniffano Ritalin…

Pacific Rim dietro e oltre la confezione da blockbuster nasconde passione e gli si perdona un gruppetto di personaggi pericolosamente vicini allo stereotipo e magari quel filino, anche qui si fa per dire, di retorica che lo percorre trasversalmente…

…Un film che riesce a farti tornare bambino, a catapultarti in una dimensione onirica e temporale come ai tempi della fantascienza spettacolare e un po' naif degli anni '80. Un film che ti sembra di avere comunque già visto, magari molti anni prima, ma che riesce a tenerti sempre incollato allo schermo e a trepidare per gli eroici terrestri che cercano di salvare il mondo. Improponibile? Forse, ma ci si diverte da matti. E non è poco…

giovedì 18 luglio 2013

La banda Baader Meinhof - Uli Edel

un film lungo, ma che non annoia di sicuro, attori buoni e una storia da conoscere, per capire allora e oggi.
da non perdere - Ismaele



Le réalisateur délivre un récit réaliste, sur fond de guerre froide, de façon objective, sans chercher à minimiser ou à amplifier les faits des protagonistes. Il nous montre comment cette utopie qui animait et que recherchaient les principaux membres de la Rote Armee Fraktion (RAF) se transforma bien vite en une véritable spirale de violence. Le jeu de Martina Gedeck (Ulrike Meinhof) vue dans « La vie des autres », Moritz Bleibtreu (Andreas Baader) vu dans « Cours Lola Cours » et « Les particules élémentaires », Johanna Wolkalek (Gudrun Ensslin) est bluffant, et apporte un éclairage humain et distant à leurs personnages. On en oublierai presque qu’il s’agit là d’un film. Et on finit à la fois révolté, bouleversé, résultat de deux heures de grand suspense.

. Nella logica dell'accumulazione stravince così la perversione commerciale della semplificazione estrema di tutte quelle istanze che la RAF portava avanti - insieme a tutti i gruppuscoli marxisti che fiorirono tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta - e il film si perde in una miriade di parentesi aperte e mai richiuse, tra personaggi e generazioni che si succedono (mentre la prima generazione è in carcere, quella appunto dei due protagonisti che danno il titolo al film Andreas Baader e Ulrike Meinhof, la seconda e la terza intensificano i loro sforzi bellici) ma che non collidono, né tra loro né con lo Stato…

Chi ha accusato Edel di aver fallito l'obiettivo dichiarato di smontare il mito della RAF o di essersi magari soltanto limitato a questo, non ha intuito l'insistenza su una prospettiva altra, più profondamente umana e lucida. Non ha avvertito il dolore costante che attraversa il film e che pesa sulle spalle dei suoi straordinari interpreti, sulla morte "per fame" di Holger Meins e sull'epilogo, l'omicidio a sangue freddo dell'industriale Hanns Martin Schleyer eseguito dalla "seconda generazione"…

La durata può essere guardata in cagnesco da alcuni spettatori, ma davvero non si doveva sforbiciare nulla dal racconto per renderlo valido; anche l'inserimento dei filmati di repertorio, alcuni in bianco e nero, implementa e non disturba. Per poter leggere interamente lo scenario andava raccontato tutto quanto, vedrete. Il piacere della visione rimane costante tutto il tempo, niente noia o disinteresse, ci sono continuamente delle cose su cui ragionare e la scaletta delle aderenze storiche messa in modo che si possa guardare come un viaggio nel passato che si muove su vari piani, vivacizzando le cose, e non come una veranda statica. Le interpretazioni sono tutte pregevoli, l'unico vero appunto è il tono un po' da fiction tv, ma questo effetto si nota parecchio per la scelta di farlo diventare una cronaca, quindi non una vera colpa. Belli anche i parametri tra terroristi filosofi (non meno colpevoli, ovviamente) e quelli puramente esaltati.
In definitiva un film soprattutto da cineforum (la vicenda degli anni di piombo tedeschi non sappiamo quanto possa interessare in Italia, ma è un gesto davvero masochistico e superficiale negarne la visione per questo motivo: le propaggini intellettuali di cui è composto vanno ben oltre tempo e luogo), bello per come presenta la situazione senza immettere nessuna variante inutile e immotivata in modo da renderlo più appetibile (anche le scene di nudo presenti, tra l'altro soprattutto maschili, servono per mostrare la base naturista). Se approfondirete sul web il discorso si possono anche notare le analogie con il terrorismo italiano e il rapimento Moro. Non è facile trovare al giorno d'oggi un film di pura cronaca tanto ben interpretato (i protagonisti come persone tedesche la vicenda la sentono davvero e non la inscenano solamente), che può favorevolmente far riflettere e conoscere una cosa morta nella fazione ma non nella sua esistenza mondiale. La lunga permanenza del film non si restringe al cinema ma continua all'esterno con entusiasmo, e questo è un merito innegabile.

…a prescindere dal discorso politico e ancor più della comunque interessante ricostruzione del periodo, il film merita di essere seguito dagli amanti del cinema europeo perchè perfetta dimostrazione della ormai evidente bravura della "meglio gioventù" tedesca (a cui si unisce il solito straordinario Bruno Ganz) : tutti i giovani attori - dai più noti Moritz Bleibtreu e Martina Gedeck alla scoperta Johanna Wokalek - sono perfetti ad incarnare dei personaggi pericolasamente fascinosi, dei "rivoluzionari" che ammirano e citano il Che e che - forse incosciamente - proiettano su loro stessi l'urgenza e la necessità di non commettere più gli errori e gli orrori delle generazioni precedenti. 
E' grazie alle loro eccellenti interpretazioni che il film non corre mai il rischio di rendere troppo umani questi terroristi, ma riesce nel difficile compito di mostrare le loro contraddizioni, la loro caduta da eroi popolari a semplici ed esecrabili criminali.

…The unifying character, supplying a sort of focus, is Horst Herold (Bruno Ganz), the top law enforcement officer in West Germany, who makes an attempt to understand the terrorists' thought processes. He patiently tries to argue why some police tactics are futile and counterproductive. He certainly doesn't agree with Baader-Meinhof, but he comprehends them. That's the Sherlock Holmes theory: Understand the mind of the criminal.
Ganz effortlessly brings all the weight of his distinguished career to this role. There is a quality in his face that adds authenticity to everything he says. Hard to believe this is the same actor who played the trembling, disintegrating, paranoid Hitler. As event piles on event, he serves as an observer who assists us.
There's the suspicion that Uli Edel finds some sympathy, in abstract principle, anyway, with the causes of the gang. Yes, but their tactics are murderous and futile. At the very beginning, after it is agreed that no guns will be used in a bank robbery, one conspirator brings one and kills someone, and after that murder becomes part of the Baader-Meinhof charter. I submit that it is insane to judge an ordinary citizen as directly responsible for the activities of his government. Yes, we all "share some blame" for what our nations do, but to set off a bomb is to execute a random passerby. That is the evil of terrorism in general, although of course in the classic theory of anarchism, it is theoretically justified. I understand anarchy expressed in art, literature or film that seeks the downfall of an establishment. But to take a price in blood? You must be very full of yourself…

The Baader Meinhof Complex certainly has some positive aspects.
This is largely due to the outstanding cast. Eichinger has engaged some of the best representatives of the current generation of actors, who strive to create a nuanced portrayal of their characters. Above all, the scenes in Stammheim are played outstandingly. The main participants have walled themselves into a political dead end. They suffer the consequences of solitary confinement, argue bitterly with each other, their personalities disintegrate; they rebel desperately against their situation, and are monitored and watched round the clock.
A further plus is the care and attention to detail with which the historical events are reconstructed. The production invested much effort and money to this end. The film was largely filmed at the original locations and received subsidies of €6.5 million.
Nevertheless, the film remains essentially superficial and flat. There has been an obvious endeavour not to cause offence in any quarter. It provides an uncritical, conventional view of the events and avoids any awkward questions…


Although the events portrayed in The Baader Meinhof Complex dates back to the 60s and 70s, this look back at West Germany's struggle with political extremism and armed resistance holds some relevance in today's terror threats, given that it's never always just about tackling the issue as an independent silo, but there's this inter-connectedness with events around the world that shape rationale, objectives and outcome.
Director Uli Edel has crafted an engaging political action-thriller if you might, from Stefan Aust's book about the founders of the 
Red Faction Army (RAF), one of Germany's violent left-wing anti-capitalist group, whose logo is a combination of a Red Star and an MP5 sub-machine gun. It captured quite succinctly the coming together of the group in their armed push to get their ideologies through to an audience. It doesn't set to glamorize the group, but puts forth the events as they happened, from founding right up until the demise of the first generation leaders, in a trial recorded as Germany's most expensive to date, and the controversial end to it…

…The Baader Meinhoff Complex could have easily been shortened by an hour, the storytelling tightened and more focused to a laser-like precision. We see the potential for a very German movie about the RAF as the unfortunate inheritors of a strong national tradition of principled and moral defiance of unjust rulers. The bloat also obscures a darkly humorous noir procedural about an Agency man trying to capture and thwart a group that has lost its way despite its high principles, while half-realising his own government has lost its moral authority and purity through the downright dirty actions of its politicians, judges, and police. Quentin Tarrantino himself might have directed an 80 minute dark comedy about the botched training, botched plans, botched leadership, and botched thinking of a wannabe-terrorist group.
If not for the historical importance of his subject and its enduring significance to our times, this bloated and undisciplined movie would certainly try the patience of most audiences.
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