lunedì 30 maggio 2022

Gagarine - Proteggi ciò che ami - Fanny Liatard, Jérémy Trouilh

Youri è un ingenuo, combatte una battaglia persa in partenza, hanno deciso di distruggere le case che per molti sono le uniche che hanno conosciuto nella loro vita, e Youri, insieme a un Houssam e a Diane (Lyna Khoudri) cercano di aggiustare quello che può essere aggiustato.

quei tre sono pazzi e il mondo va avanti grazie a persone così, per fortuna.

ma alla fine tutto va secondo i piani del Capitale, distruggere e ricostruire, Youri non ci sta e si adatta a vivere lì, solo, come se fosse su una navicella spaziale, come il suo mito Gagarin.

e quando tutti si riuniscono come per il funerale di quei palazzi Diane capisce che bisogna salvare l'eroe astronauta Youri, prima che salti tutto per aria.

appare in una piccola parte anche Denis Lavant, bravissimo come sempre, la classe non è acqua.

il film è di un paio d'anni fa, e miracolosamente arriva al cinema, addirittura in 19 sale, anche se il titolo è il nome di un russo.

cercatelo questo gioiellino e godetene tutti.

buona (astronautica e terrestre) visione - Ismaele


 

 

 

 

 

È la straordinaria rappresentazione di un viaggio attraverso le conseguenze della Storia, ma è anche lo sfondo cinematograficamente ricco alle peripezie di Youri, adolescente timido però capace di sfidare gli ispettori del comune lampadina dopo lampadina, con l'obiettivo di ritardare la cancellazione del suo mondo.

Nella cronaca incessante di una diaspora invisibile, abbondano i personaggi sfumati al di là degli stereotipi così come i volti di attori subito memorabili, che siano quello nuovo del protagonista Alséni Bathily, quello già noto di Lyna Khoudri (fresca di un premio César come miglior promessa per Non conosci Papicha), o quelli della coppia Jamil McCraven - Finnegan Oldfield, che ritorna da un altro fondamentale film che esplora la gioventù francese di oggi (Nocturama di Bertrand Bonello).

Girato in toni freddo-cemento che i registi iniettano di rossi accesi - rispecchiando gli interventi con cui Youri cerca di rivitalizzare i muri che lo circondano - Gagarine sa andare oltre la semplicità narrativa di un esordio promettente per innalzare un edificio al centro dell'universo, esponendo i retaggi umani e architettonici di cui non sappiamo cosa fare, e documentando con nostalgia e speranza come di essi ci si possa spogliare. 

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 la triste storia della fine di Citè Gagarine spinge inesorabile verso la distruzione che avverrà. Ed è qui che trovato un equilibrio tra un minimo tocco marcelliano (inteso alla Pietro Marcello) con il found footage (anche del proprio doc) che si mescola alla recitazione nel presente, Liatard e Trouilh disegnano una sorta di tunnel spaziotemporale, invisibile ai più, dove l’appassionato astronomo e astronautico Youri (stesso nome di battesimo di Gagarin), vista sfuggire la sorte dei palazzoni della Cité oramai svuotati, si costruisce una specie di capsula spaziale nei meandri in demolizione tra nylon, piccole serre in vitro dove coltiva verdure e un angolino camera e cucina modello 2001 Odissea nello spazio. Il tocco scenografico in Gagarine – il film – è dirompente e immersivo.

La temperatura emotiva della dimensione da favola urbana (c’è anche un ragazzotto bianco mezzo delinquente che non vuole andarsene e resiste in quel non spazio assieme agli altri) cela un cuore politico collettivista e anticapitalista di tutto rispetto. Infine, Liatard e Trouilh in mezzo alla realtà edilizia e umana della periferia multietnica invece di scorciatoie retoriche adottano una scelta di regia straniante e fascinosa da realismo magico dove il set/cunicolo di Youri è anche angolo di ricerca formale e cromatica di un cinema trasformato e trasformabile oltre il 900. Tanti i riferimenti ai viaggi nello spazio come sogno e fuga. Onesto lo sguardo affratellato con la comunità che si disgrega. Denis Lavant, in un rapido cameo da trafficone microcriminale, fornisce poi un tocco cinefilo e naif da dropout senza casa. Insomma, una vera sorpresa negli scampoli di fine stagione.

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…Liatard ha sottolineato fin da subito il messaggio politico di Gagarine: “Volevamo proporre un altro sguardo sulle periferie parigine, mostrare gli abitanti con le loro storie vitali e bellissime e non limitarci alla solita violenza e al traffico di droga quando si parla di queste baraccopoli”. “Il film è più che altro naturalistico, ci sono alcune incursioni spaziali, ma iniziamo vicini alla terra, a quella comunità, ed è solo quando questa scompare e Yuri rimane solo che deve rifugiarsi nella sua immaginazione”, spiega, esplicitando come la vera magia di Gagarine sia il riuscire a rimanere in equilibro tra onirismo e realismo, un equilibrio che passa attraverso gli occhi del protagonista.

Si parte dalla terra, come il nostro protagonista Yuri e il cosmonauta Yuri Gagarin, in mezzo a una comunità che vive e vuole abitare, respirare autonomamente. E’ solo quando questa scompare, e Yuri rimane solo, per un attimo non più adolescente, che deve rifugiarsi nella sua immaginazione per potersi immergere nuovamente nella cosmicità del fanciullino, nell’ardore giovanile che è necessario preservare. È qui che risiede la vera ricchezza del film, nel riuscire a far convergere la dimensione materiale con quella simbolica senza appesantirle, nel sfruttare una pluricità di concetti che puntano in alto verso lo spazio ma, contemporaneamente, non smettono di ricordarsi di chi è rimasto a casa, del cuore pulsante di una comunità non più utopica, ma virtuosa e indimenticabile.

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Un’opera che soprattutto rilegge il racconto della periferia particolarmente caro e sentito al cinema francese rigettando la retorica del disagio sociale e della criminalità schiacciati sullo schermo, dove i margini della città sono spesso i tappeti sotto ai quali nascondere una polverosa coscienza e che si fanno ricettacoli dei conti in sospeso con i propri peccati di matrice storica. Gagarine sceglie di percorrere traiettorie quasi da realismo magico, restando appiccicato al suo protagonista la cui stessa esistenza è una fluttuazione all’interno di un cosmo di volti, parole, speranze sospese…

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domenica 29 maggio 2022

Gilles Villeneuve, l'Aviatore - Giangiacomo De Stefano

se uno non sa chi era Gilles Villeneuve, o non se lo ricorda bene, ha l'occasione, come è stato per me, di riscoprire quel gigante.

e non se ne pentirà.

buona (pericolosa) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo

 

Chiunque sia della “mia generazione” (anni ‘70 o giù di lì) e segue un po’ la Formula Uno non può non aver sentito parlare di Gilles Villeneuve: sono passati quarant’anni esatti da quel maledetto 8 maggio 1982, quando quel piccolo, coraggioso, indemoniato folletto canadese voluto da Enzo Ferrari in persona compì il suo ultimo volo, quello verso la leggenda delle corse. Villeneuve era sinonimo di genio e sregolatezza, talento e coraggio, caparbietà e funambolismo: i suoi (pochi) anni passati al volante della rossa di Maranello, le sue (poche) vittorie, spesso ottenute con una macchina nettamente inferiore alla concorrenza, i suoi incredibili duelli in pista, i suoi incidenti spettacolari (e terribili) lo hanno reso il pilota in assoluto più amato dai tifosi ferraristi (anche più del grande Michael Schumacher) nonostante non sia mai riuscito a diventare campione del mondo. Lo chiamavano “l’aviatore”, proprio in virtù dei suoi capitomboli in corsa, da cui usciva sempre miracolosamente illeso, quasi volesse ogni volta sfidare il destino. Fino, appunto, a quel tragico epilogo avvenuto l’ 8 maggio 1982 sulla pista belga di Zolder. E L’Aviatore è anche il titolo dello splendido documentario andato in onda la scorsa settimana su Rai 2 e ora disponibile gratuitamente sulla piattaforma RaiPlay: un’ora e mezza di struggente ricordo, di toccanti interviste ai protagonisti dell’epoca (da Mauro Forghieri, il suo team manager, al compagno di squadra Jody Scheckter, all’amico-rivale Renè Arnoux) intervallate da immagini di repertorio, raccontate con profonda emozione dalla voce fuori campo di Ivano Marescotti. Villeneuve era il diamante grezzo con cui Ferrari voleva dimostrare che l’automobilismo non è solo uno sport di macchine, ma anche e soprattutto di uomini incoscienti e coraggiosi, disposti a spingersi oltre ogni limite pur di coronare il loro sogno. L’Aviatore è quasi un manifesto della Formula Uno romantica e sanguigna di un tempo. E di cui Gilles era il suo Profeta.

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sabato 28 maggio 2022

Vivere in fuga (Running on empty) – Sidney Lumet

una famiglia in fuga, i genitori hanno fatto un attentato in un'impresa che produceva napalm per il Vietnam, e da allora sono in fuga, braccati dal FBI.

i due bambini sono cresciuti, il grande, Danny, è interpretato da River Phoenix.è uno dei meno conosciuti film di Sidney Lumet, ma è comunque un film grandissimo.

cercatelo e godetene tutti.

buona (fuggitiva) visione - Ismaele




 

Ispirato a una storia vera, Vivere in fuga di Sidney Lumet racconta la vicenda di Arthur e Annie Pope, una coppia di ex militanti di sinistra, protagonisti negli anni Settanta di un attentato a un laboratorio nucleare. Sedici anni dopo il fatto, i due sono ancora latitanti, insieme ai figli Danny ed Harry. Ogni sei mesi i quattro sono costretti a cambiare nomi, città, tingersi i capelli, questo finché Danny, il maggiore dei due ragazzi, si ribella allo stile di vita del fuggiasco, spinto dal desiderio di stabilizzare la sua quotidianità e diventare un musicista, iscrivendosi alla prestigiosa Juilliard a New York.

Vincitore nell’89 del Golden Globe per la migliore sceneggiatura, Vivere in fuga è forse uno dei più toccanti e sentiti film di Lumet, da sempre con la sua cinematografia sensibile a tematiche politiche e sociali. Il film altro non è che una rilettura di ciò che animava i movimenti sessantottini, con il regista che tenta (con successo) una riflessione sullo scarto esistente tra impegno civile ed emozioni. Ma, soprattutto, Lumet riesce a confezionare un prodotto in cui il concetto stesso di libertà, che ha mosso azioni e pensiero della generazione hippie, viene capovolto, tanto che la famiglia Pope si ritrova a campare schiava delle proprie scelte passate, dentro un circolo vizioso di clandestinità che sembra non avere più fine (e, infatti, il titolo originale del lungometraggio è Running on empty, ovvero “girare a vuoto”)…

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Nella sceneggiatura di Naomi Foner, così come nello sguardo di Lumet che abbraccia gli eventi senza retorica, prende forma il dramma dell’America post Vietnam, macchiata e imbruttita da una guerra le cui ombre avviluppano persino chi l’ha contestata. E se reduci e oppositori non possono scrollarsi di dosso l’orrore, non va meglio ai rispettivi figli, eletti a eredi involontari di colpe non loro o di una lotta che non gli è appartenuta. Il passato, dunque, è il vero ostacolo: non un qualcosa da sotterrare, da annegare nella musica come il padre di Lorna o nell’ipocrita beneficenza di sua madre, ma qualcosa che insegue e non dà tregua, con cui imparare a fare i conti mettendo alla prova la propria integrità e il senso profondo del proprio agire. Nessuna facile conciliazione, in questo film ispirato a una storia vera, ma un’attenzione sincera al disagio di una famiglia costretta ad esistere senza dare nell’occhio, rinunciando alle proprie radici come alle aspettative di un futuro brillante. La regia di Lumet l’accompagna discretamente, rivelando solo a tratti una vicinanza intimamente partecipe, interrogandosi insieme ai Pope sulla natura della vera libertà.

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The family is not really political at all. Politics, ironically, have been left far behind - that kind of involvement would blow the cover of the Pope family. The film is a painful, enormously moving drama in which a choice must be made between sticking together or breaking up and maybe fulfilling a long-delayed potential. The parents never fulfilled whatever potential they had, because of their life underground. Now are they justified in asking their son to abandon his own future? And how will they do that? Push him out of the car, and drive away, and trust that he will find a home, just as the dog did? Lumet is one of the best directors at work today, and his skill here is in the way he takes a melodramatic plot and makes it real by making it specific. All of the supporting characters are convincing, especially Plimpton and her father (Ed Crowley). There is a chilling walk-on by L.M. Kit Carson as a radical friend from the old days. And there are great performances in the central roles. Phoenix essentially carries the story; it's about him. Lahti and Hill have that shattering scene together. And Lahti and Hirsch, huddled together in bed, fearfully realizing that they may have come to a crossroads, are touching; we see how they've depended on each other. This is one of the best films of the year. 

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venerdì 27 maggio 2022

American History X - Tony Kaye

Tony Kaye è un grande regista che gira film poco adatti agli indifferenti.

ottimi attori in una storia di prigione e scuola, di violenza e riscatto. 

un bellissimo film sulla denazificazione, che non passa mai di attualità.

non perdete questo gioiellino, se vi volete bene.

buona (denazificata) visione - Ismaele

 

 

Scritto da David McKennaAmerican History X è un film che non può lasciare indifferenti: per l’intensità della storia che racconta, e per la gravità dei temi che affronta. Tony Kaye, regista britannico che era qui alla sua opera prima, ha scelto una tecnica di ripresa nervosa proprio per descrivere la tensione che si può percepire continuamente durante il film, a ogni azione dei personaggi in scena. Lo sviluppo dell’opera si può comunque considerare su due piani incrociati ma distinti.

La narrazione procede infatti tra il presente e il passato, innanzitutto con il nuovo Derek ma anche con quello di prima. I flashback lo mostrano quando guidava spedizioni “punitive” contro negozianti e individui, quando sfidava e batteva gli afro-americani per scacciarli dalle zone che frequentava, per cercare una rivalsa dopo che il padre, pompiere (e anch’egli razzista), era stato ucciso da uno spacciatore nero.

E questo aveva scatenato l’odio razziale dell’uomo, assunto a capo di una gang come moltissime che la cronaca statunitense descrive di continuo. E certamente il film attinge dalla realtà, in particolare dai fatti che accadono nel profondo Sud degli USA dove i residui della mentalità razzista contro ispanici e neri si mescolano con derive neonaziste, rendendo invivibili le città per le minoranze perseguitate e disprezzate.

Padri che inculcano teorie distorte ai figli che a loro volta le trasmetteranno ai propri, così come per il più giovane Danny, plagiato da gente miserevole e spregevole. Ma la successiva redenzione di Derek, che tenterà di salvare il fratello, è quel barlume di speranza che qualcosa potrebbe cambiare, dopo tanta cieca violenza, verso un mondo dove il perdono per i carnefici e l’integrazione apparirebbero possibili. Nonostante le carenze delle famiglie, delle strutture scolastiche, e di una società posseduta dai demoni neri
dell’intolleranza…

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American History X è un film del 1998 diretto da Tony Kaye. Il tema principale è il razzismo, con il rischio di scivolare nel banale dietro l’angolo; d’altronde basta farsi un giro su internet per capire come “didascalico” sia uno degli aggettivi più utilizzati per criticare negativamente questa pellicola. È proprio da questa critica mossa nei suoi confronti che voglio ripartire, in quanto, sebbene a tratti il film si dimostri zelantemente istruttivo, lo fa senza essere quasi mai scontato o melenso.

In un territorio abitato da innumerevoli popoli, i colori della pelle appaiono come divise sportive per cui giocare partite al veleno contro chiunque non indossi la stessa casacca. Un match continuo carico di odio verso il prossimo e senza alcuna esclusione di colpi per cui sono convocate tutte le comunità presenti, da quella nera a quella neonazista, da quella asiatica a quella ebrea, passando per l’ispanica.

Un clima di estrema tensione sociale in cui tutti sembrano avere valide ragioni per odiare il diverso, rendendo perciò difficile capire che si sta combattendo per una causa fasulla.

Bianchi, neri o gialli, i razzisti saranno sempre una razza a parte: quella degli stronzi.

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What we get, finally, is a series of well-drawn sketches and powerful scenes, in search of an organizing principle. The movie needs sweep where it only has plot. And Norton, effective as he is, comes across more as a bright kid with bad ideas than as a racist burning with hate. (I am reminded of Tim Roth's truly satanic skinhead in “Made in Britain,” a 1982 film by Alan Clarke.) Kaye wanted to have his name removed as the film's director, arguing that the film needed more work and that Norton re-edited some sequences. We will probably never know the truth behind the controversy. My guess is that the post-production repairs were inspired by a screenplay that attempted to cover too much ground in too little time and yet hastens to a conventional conclusion.

Still, I must be clear: This is a good and powerful film. If I am dissatisfied, it is because it contains the promise of being more than it is.

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mercoledì 25 maggio 2022

L'uomo, la donna e la bestia - Spell (Dolce mattatoio) - Alberto Cavallone

durante la festa paesana le contraddizioni e le tensioni accumulate esplodono, come in un carnevale senza (troppe) inibizioni.

accade di tutto, violenze, sesso, e misteri.

allora (nel 1977) era un film maledetto, pur non essendo stato censurato, anche oggi non è una passeggiata, in tv non passerebbe mai, credo.

eppure è un film che, oltre agli eccessi, ha molte qualità.

buina (eccessiva) visione - Ismaele






 

 

“Essere estremo per me significa essere a-normale, cioè fuori dalla norma. La norma è sopore, staticità, accettazione passiva dell’esistente. La norma è immorale, perché vuole essere morale. La norma disconosce l’etica universale. Essere normali significa non progredire e accettare soltanto ciò che protegge i meccanismi dell’esistenza.
L’anormalità è desiderio di progresso, è ricerca e scoperta di nuove etiche e morali adeguate ai cambiamenti che la norma nega… Sono anormale, non estremo.”
– Alberto Cavallone intervistato in Nocturno n.4, settembre 1997, p.46

Finalmente editata in DVD quest’opera controversa e sconcertante da uno dei cineasti più radicali ed eccentrici della nostra cinematografia, per anni rimosso dalla storia del cinema a causa della sempiterna cecità dell’ingessata critica tradizionalista italica, poi riscoperto grazie all’encomiabile lavoro del gruppo di “Nocturno”. Un cinema, quello di Cavallone, che unisce forti aspirazioni intellettuali con pratiche basse e malsane in un’amalgama esplosiva di sesso, violenza, politica, analisi sociale, religione, arte, surrealismo, psicanalisi e ribellione.

Per il regista le immagini sono come proiettili, urticanti pallottole in grado di ferire gli occhi e scuotere le coscienze.

Dopo diversi anni di permanenza a Castelnuovo di Porto, paese in provincia di Roma, Cavallone decide di fare un film, ambientato durante l’annuale festa paesana in onore del santo patrono, tradizionale occasione in cui agli abitanti è permessa una scarica delle energie pulsionali, altrimenti compresse e altamente pericolose per il mantenimento dell’equilibrio sociale, momento dionisiaco in cui Eros e Thanatos si manifestano e si intrecciano in tutta la loro crudele veemenza. Cavallone, con piglio insieme documentaristico e provocatorio, realizza così un’opera complessa e sfacettata, che rimanda come approccio e onestà intellettuale all’insostenibile capolavoro apocalittico “Salò” di Pasolini (scatologia compresa).

La realtà paesana italiana viene fotografata con implacabile lucidità nei suoi aspetti più reconditi e proibiti, in un’epoca in cui la televisione non aveva ancora lobotomizzato le menti. La dice lunga sulla sincerità del regista il fatto che nessuno degli abitanti del paesino rappresentato, vedendo il film successivamente, si sia lamentato dell’immagine mostrata o abbia protestato per la terribile crudezza della pellicola.

Ciò che emerge dalla visione trent’anni dopo, molto in anticipo sui tempi per l’epoca, è una profonda angoscia esistenziale e politica che permea e si conficca nelle esistenze dei protagonisti. Come giustamente scrivono Pulici e Gomarasca, “le piccole comunità, che sono il futuro del mondo, della società, rispecchiano con anticipo ciò che il mastodonte opererà in seguito, dopo anni e anni”…

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Ero perplesso prima della visione: su Cavallone ne ho lette tante, la gente si divide tra chi lo considera genio o mediocre regista di serie B. Come al solito la verità sta nel mezzo (forse).
Spell, forse il suo film più conosciuto e apprezzato insieme a Blue Movie e Maldoror (introvabile e perduto, ma diventato leggenda) è un bel film che per fortuna non si perde nei cliché del cinema erotico anni '70 italiano.
Pur ripetendosi e risultando alla lunga stancante è certo che alcune immagini siano di una potenza surrealista e visionaria dirompente, immagini non facili da dimenticare per la loro fascinazione come quella del famigerato occhio vaginale (rimando bunueliano distorto nel messaggio sessuale?) o l'atto di coprofagia nel finale.
Sesso dappertutto quindi e in tutte le sue forme, specie le più aberranti, fino a far nascere un rigetto nello spettatore ma anche un irresistibile tentazione di continuare a guardare: incesti, macellai con quarti di bue, coprofagia, comunisti incalliti e sullo sfondo la festa di un paesino provinciale sotto ritmi orgiastici. Non è difficile scorgere nel microcosmo provinciale uno spaccato più ampio, estendibile a tutta l'Italia; Cavallone d'altronde da quel che si reperisce era un uomo di vasta cultura e questo è un film non adatto a tutti i palati. Chi lo vede troverà somiglianze impressionanti con Jodorowsky, Arrabal e leggermente Bunuel ma senza la classe di questi ultimi. Eppure con un senso del cinema come rottura altrettanto dirompente ed estremo.
Un regista tutto da scoprire, per la prima volta. E magari da ritrovare...

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… Paolo Mereghetti concede tre stelle: “Probabilmente il film più riuscito e originale del regista-sceneggiatore milanese che mette in scena una violenza visiva inusitata, in cui la placida provincia viene fatta interagire con un surrealismo e un erotismo che all’epoca non facevano parte dell’immaginario dei mass media. Il discorso è alogico, ma inquietante e disturbante: un viaggio nel’inconscio e nei lati più oscuri che non ha uguali nel cinema italiano. Malsano, sincero e senza catarsi”. Sequestrato e poi dissequestrato con 12 metri di tagli nella lunga scena con Paola Montenero in piena performance erotica.

Alberto Cavallone confida a Nocturno Cinema, nel corso del documentario Surrealismo o estremismo (2007), confezionato da Pulici e Gomarasca: “Vivevo a castelnuovo di porto da sei anni e avevo visto tutte le feste paesane e le processioni. Mi rendevo conto che la grande festa annuale era lo scopo di tutto ed era un po’ come il carnevale medievale: tutto sembrava permesso. Feci un film partendo da questa idea. Inoltre spiegavo la provincia e infatti e piaciuto soprattutto in provincia, perché la gente si è riconosciuta, ha trovato un po’ della sua vita. In città, invece, non è stato capito e l’hanno visto in pochi. Ho girato un scena tratta da un funerale vero e molte sequenze in presa diretta.

Ero terrorizzato all’idea che gli abitanti di Castelnuovo vedessero il film e s’infuriassero. Invece la presero bene. Tutti, tranne il prete che non digerì il fatto di aver dovuto fermare il funerale per consentirmi di eseguire una ripresa migliore. Spell è cinema surrealista al cento per cento. Per una mia precisa scelta”…

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    I. teorema (nello specchio)

l’elemento perturbante del quieto vivere italico è un giovane sconosciuto che salta fuori da un cimitero- così: senza perché, senza per come- e catalizza tensioni e pulsioni su di sé. è l’anormale (?) che straripa nel panorama dell’uomo medio e lo spinge a guardarsi allo specchio. esattamente come fa l’Arte: fotografa il presente, mette in mostra come veramente siamo. e, quasi sempre, si tratta di immagini sconvolgenti.

 

          II. banchetto di lusso (l’Eterno Ritorno)

 

una festa di paese, per il santo patrono, come se ne fanno a migliaia in tutta Italia e a cui non prestiamo più nessuna attenzione. ma, se ci si ferma a pensare un momento, ecco saltar fuori subito l’inquietante: la Festa diventa un grande, carnevalesco esorcismo collettivo: contro la morte, contro le disgrazie; per dimenticare, per non pensarci. per lasciarsi alle spalle il grigiore quotidiano e tuffarsi nell’euforia dei sensi altrimenti addormentati; per non sentire la nausea della vita che non abbiamo…

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lunedì 23 maggio 2022

Generazione low cost (Rien a foutre) - Julie Lecoustre e Emmanuel Marre

Cassandre (una bravissima Adèle Exarchopoulos) fa un lavoro di merda, in un non luogo (di lavoro), sorvolando il mondo senza vedere nulla, dormendo in residence (quasi) a ore.

Una ragazza sbattuta da un aereo all'altro, per cercare di "fregare" i clienti, come in tanti lavori "moderni", nei quali il misero stipendio può crescere un po' solo vendendo qualcosa a qualcuno.

Si tratta di lavori nei quali l'umanità e la compassione umana sono banditi e puniti, percentuali, numeri, velocità e ancora velocità sono gli dei ai quali i lavoratori e i consumatori devono essere sacrificati.

La prima metà del film racconta non la dignità, ma l'umiliazione del lavoro e dei lavoratori.

Poi il film rallenta, Cassandre viene messa in mobilità, e torna a casa, una casa vera, dal padre e dalle sorella, in Belgio, ed è costretta a vivere con l'assenza e il ricordo della madre, col dolore e la solitudine interiore.

Nel futuro, se esisterà ancora un futuro, Rien a foutre potrà essere un valido e inquietante esempio dell'involuzione della specie umana, e del conflitto di classe, sempre più simile a un rapporto fra padrone onnipotente e schiavo impotente, nel quale gli schiavi-lavoratori non si sentono più classe.

buona (low cost) visione - Ismaele 

 

 

In un registro che è per scelta piatto e ripetitivo, dal taglio quasi documentaristico, Adèle Exarchopoulos nel ruolo della protagonista è un’iniezione di star power, una presenza magnetica che aiuta a non perdersi nel senso di straniamento evocato dalla storia. La sua Cassandre è una ragazza ormeggiata in un porto lontano, il cui senso di provvisorietà si calcifica in uno scorrere insostenibile. Un ritratto generazionale che si applica agli scenari contemporanei della gig economy ma che in realtà la precede, visto che il mito degli spostamenti low-cost in giro per l’Europa catturava le menti dei più giovani già un paio di decenni fa.

Non a caso c’è una stanchezza residuale al centro di Zero fucks given, i cui personaggi non possono andare oltre il fatalismo del presente (“non so nemmeno se sarò viva domani” risponde Cassandre a chi cerca di sensibilizzarla alla causa dell’impegno operaio). Anche l’immagine del futuro è filtrata attraverso il feed di un social network, dal quale si forma il sogno di passare a una linea aerea come Emirates per le belle divise ma al tempo stesso si cerca di schivare le promozioni per evitarne le responsabilità.

I due registi integrano alla perfezione questi due elementi con uno stile che oscilla tra la cronaca indaffarata della macchina a mano incollata ai personaggi e gli inserti privati, che mimano la forma espressiva di Instagram come fossero Polaroid di un tempo lontano, re-immaginate per l’era digitale.

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Generazione Low Cost si inserisce perfettamente nel filone del cinema sociale francese, che solo negli ultimi mesi ha portato nelle nostre sale opere notevoli come Full Time – Al cento per cento e Un altro mondo, capaci di tratteggiare la progressiva erosione dei diritti e della dignità all’interno del mondo del lavoro. In questo senso, Cassandre sembra uscita da un film dei fratelli Dardenne o di Ken Loach. La macchina da presa di Julie Lecoustre ed Emmanuel Marre si incolla a lei, seguendola con uno stile lucido e realista fra sistemi di valutazione degni di una distopia fantascientifica, umiliazioni sul lavoro, promozioni imposte e colloqui in cui viene invitata a sfilare davanti alla webcam. Il desolante ritratto di una generazione per cui il futuro non esiste («Non so nemmeno se sarò viva domani», dice Cassandre), per cui l’unica prospettiva è un lavoro mediocre e mortificante con cui tirare avanti.

Un’esistenza sintetizzata dai social della stessa Cassandre: Instagram come memoria storica del tempo trascorso in un’azienda e il nickname carpediem come unico possibile approccio ai legami sentimentali, con uno spirito ben più rassegnato di quello del Professor Keating e della sua Setta dei poeti estinti. Proprio quando crediamo di averlo inquadrato, Generazione Low Cost cambia pelle sotto ai nostri occhi, trasformando il ritorno in famiglia di Cassandre in un viaggio fra traumi irrisolti e lutti insuperabili.

Dall’universale al particolare, la vita senza fissa dimora e senza affetti stabili della protagonista diventa così anche e soprattutto reazione al dolore, disperata fuga da un tormento in grado di trovarla in ogni angolo del mondo. L’ormai iconico broncio di Adèle Exarchopoulos assume così sfumature di profondo turbamento, e la stessa fotografia vira su toni più caldi, per stringerla in un abbraccio e per fornirle quella sensazione di protezione che crede di non poter più trovare…

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…È interessante, Generazione low cost è un prodotto evidentemente assemblato con un linguaggio chiaro, e per nulla didascalico, che utilizza una spontaneità che pare sempre al limite della disorganizzazione fuori controllo mentre, al contrario, nel suo stesso stile narrativo spiega ciò che vuole dire. Nella prima parte della storia tutto è quasi caotico: Cassandre è inseguita dallo spettatore nelle sue giornate da hostess vissute come l’alunna ribelle di un liceo. Ma la realtà che viene mostrata è presa da un piccolo mondo in disparte, molto comune nella sua apparente originalità, dove giovani donne animate dal desiderio di evasione, mascherato da amore per i viaggi, gettano le basi per diventare adulte ciniche e disilluse.

La bravura di Julie Lecoustre e Emmanuel Marre sta nel non scivolare mai ad assecondare tali sentimenti, ma nello scorrere oltre e mostrare di più con una punta di sarcasmo. Continuando a seguire i passi e la faccia imbronciata della protagonista, s’innamorano del modo in cui lei stessa, l’attrice Adèle Exarchopoulos, racconta del proprio accennato distacco sulle cose accompagnato da picchi emotivi, che vive ridacchiando sotto i baffi, ma cercando il supporto affettivo della sua famiglia (Mara Taquin e Alexandre Perrier) per ricomporre se stessa, o iniziare ad imparare a farlo.

I registi mantengono, dunque, quello stesso sguardo un po’ adolescenziale che spera in un domani gettandosi in avanti non preoccupandosi troppo dell’equipaggiamento che si ha con sé. Ma lo fanno con un grande uso della cinepresa: sfruttandone la capacità di frugare nei volti, nelle storie, trasformandosi da oggetto indagatore a strumento narrativo.

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La protagonista di Lecoustre e Marre si fa mimesi di una generazione di viaggiatori che non riesce ad avere una destinazione e il film rappresenta un riuscito spaccato sulla precarietà e il disorientamento. Non esistono più punti di partenza e d’arrivo. Per questo la coppia di registi sceglie una messa in scena che fa largo uso della macchina a mano e segue da vicinissimo la propria hostess, come a voler documentare la vuotezza di questa vita. La stessa Cassandre risponde più volte quando le chiedono di protestare che non sa nemmeno se domani sarà viva. Si gode il momento, non ha nessun obbiettivo a cui arrivare. Il viaggio è diventato l’attraversamento stesso rinchiuso all’interno delle fotocamere dei nostri smartphone, proprio come nello smartphone di Cassandre che sul finale testimonia il suo nuovo passo in avanti. Ma il sospetto che rimane è che quella sia un’ulteriore maschera, indossata per fuggire nuovamente al dolore che non ha mai smesso di cercarla. Le fontane, le luci e la musica pop illuminano il suo volto. La intrattengono nuovamente, ma allo stesso tempo rimane come al solito quella donna sorridente in disparte e sotto i riflettori. Proprio come in New York Movie di Hopper davanti ai nostri occhi si apre l’illusione di un mondo colorato, mentre sulle ombre del nostro volto rimangono solitudine e desolazione.

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domenica 22 maggio 2022

Spartaco – Riccardo Freda

il film ebbe qualche problema con la censura, oggi passerebbe senza problemi alla tv dei ragazzi, se esiste ancora.

film più d'amore che politico, di sicuro avventuroso.

poi ci fu Spartacus di Stanley Kubrick, i negativi del film di Freda furono distrutti (ma pare che una copia si sia salvata) e il film quasi dimenticato.

non è certo un capolavoro, ma si può vedere ancora con piacere.

buona (sopravvissuta) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, in italiano

 

 

 

Spartaco, soldato romano, per aver disobbedito al suo centurione cade in disgrazia. Venduto come schiavo, si afferma da combattente nell'arena; poi fugge, organizza un esercito di gladiatori e arma la rivolta contro Roma. L'insurrezione sarà soffocata nel sangue.
Già filmato in epoca del muto da Oreste Gherardini (1909) e Giovanni Enrico Vidali (1913), rifatto con successo internazionale da Stanley Kubrick con Spartacus (1959-1960), è un classico tra i film storici di produzione italiana in attinenza al mondo romano degli anni '50 (qui di compartecipazione francese), dove invenzione e approssimazione storica abbondano, ma lo spettacolo è comunque garantito, attraverso l'impostazione avventurosa e d'azione, curata nel particolare da un Riccardo Freda in gran forma, con due scene su tutte: quella dei ludi (girata nell'Arena di Verona, diretta dal non accreditato Mario Bava) e la sequenza di battaglia, abbastanza credibile, filmata in riva al fiume Aniene, nei pressi di Roma. Considerata l'epoca di realizzazione, nel film non c'è traccia di resoconti collettivi e l'inclinazione politicizzata è rivolta soltanto all'asserzione anti-romana, in linea con i suntuosi prodotti americani girati a Cinecittà nel primo e secondo dopoguerra, dove la romanità era sempre equiparata al trascorso negativo del ventennio fascista. Per questo motivo e non solo (diverse scene di velata allusione erotica furono eliminate nel montaggio definitivo), il film andò incontro a diverse noie con la censura. Cast di lusso, con nomi noti dell'epoca e gran successo al botteghino, anche americano, distribuito dalla RKO con titolo Sins of Rome. Nel 1959, quando, in concomitanza all'uscita dell'americano Spartacus, la Rialto pensò bene di fare la riedizione del film per le sale, con sottotitolo 'Il gladiatore della Tracia', la Bryna Productions riuscì a bloccare la diffusione dopo solo due giorni di programmazione (31 Marzo 1959). Lo studios di Kirk Douglas acquistò dalla produttrice italiana i negativi del film per 56mila dollari, con il solo scopo di distruggerli e far sparire la pellicola dalla circolazione, per sempre. Dallo sfacelo si salvò una sola copia (comunque priva della scena di battaglia nella sua lunghezza originale, 9 minuti), conservata nella Cineteca di Tolosa e, pare, pochissime altre, per lo più amatoriali (l'edizione francese consegnò anche gli acetati del sonoro), ma il film non fu mai più riproposto.

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Ridotto in schiavitù, il trace Spartaco tenta la fuga più volte, stimola e capeggia la rivolta dei gladiatori, è ferito, ama teneramente Sabina, figlia del suo ex padrone Licinio Crasso che, dopo una prima sconfitta romana, promette la libertà per lui e i suoi seguaci. In sua assenza, si decide un dissennato attacco frontale. Occultata la dimensione sociale degli avvenimenti (Spartaco come il Cristo pugnace della tradizione proletaria e socialista), Freda e i suoi sceneggiatori puntano sul versante avventuroso e spettacolare con risvolti erotici che gli attirano il severo giudizio del Centro Cattolico. Il personaggio era già stato portato sullo schermo all'epoca del muto nel 1909 e nel 1913.

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Una pellicola di tutto rispetto, abbastanza spettacolare, mai noiosa e che ha il coraggio di non concludersi in modo positivo.....
Ben realizzato dal punto di vista tecnico, bravo come al solito Freda dietro la macchina da presa, soddisfacente anche l'interpretazione del cast.
A me è piaciuto, una visione gli si può concedere tranquillamente.

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sabato 21 maggio 2022

Liberi - Gianluca Maria Tavarelli

la critica non è stata clemente con questo film, ma non sono d'accordo.

attori bravi, una storia un po' triste, ma così va il mondo.

Vincenzo (Elio Germano) va a fare la stagione al mare, aiutocuoco, la mamma, già lì, gli ha trovato il lavoro.

Vincenzo padre è un disoccupato, depresso, lavoratore socialmente utile, resta solo nel paesetto nella montagna abruzzese.

è poi c'è anche l'amore, per l'aiutocuoco.

non è certo un capolavoro, ma un bel film sì.

buona (tormentata) visione - Ismaele


 

 

 L'utilizzo della voce fuori-campo non è poi un mezzo, come lo utilizza Virzì, di parlare di se stesso, ma al contrario un'insopprimibile esigenza di parlare e di far parlare gli altri personaggi. Così le traiettorie disordinate di Vince, gli spostamenti nell'ora assolata ora notturna città abruzzese diventano il modo per aprire i personaggi, per mettere a nudo la loro coinvolgente disperazione (i brevi momenti dei licenziamenti e degli scioperi hanno una verità che non possiede Il posto dell'anima di Milani in tutta la sua durata) o per inseguire i loro istinti da dove sembrano fuggire provvisoriamente dalla sceneggiatura scritta. Nella scena in cui Cenzo si arrampica sull'impalcatura di un palazzo in costruzione per poter vedere Anita (che si è legataa un altro uomo) e poi, una volta sceso, si sfoga col figlio, prefigurandogli un futuro uguale al suo, rappresenta il cuore di un "cinema paterno/filiale" e contro un cinema dei padri, che non si vergogna di mostrare l'ultimo ballo tra il padre e la madre, di far urlare "I Will Survive"e di staccarsi con decisione dalle zone paludate del cinema italiano più sicuro. Un cinema che si ama con lo stomaco più che con gli occhi, fragile e libero.

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Quarto lungometraggio del quarantenne regista torinese da molti apprezzato nel ’99 con Un amore, questo Liberi è in realtà un film davvero mediocre, che mai avrebbe meritato la vetrina del Festival di Venezia 2003 ma che solo con una vetrina simile può sperare di attirare l’attenzione di stampa e pubblico, vista la sua pochezza.

A dir la verità, l’inizio del film è più che convincente: il modo in cui la situazione viene presentata è infatti piuttosto efficace, ma tutto si spegne molto in fretta, in un accavallarsi di rimandi più o meno evidenti, più o meno voluti, ad altri film (da Muccino a Radiofreccia, a Virzì).

Tecnicamente, il film non ha praticamente nulla di valido. Belle le musiche, di repertorio e di composizione, che sono però utilizzate in maniera troppo didascalica. Gli attori sembrano tutti mediocri con l’esclusione di un eccezionale Luigi Maria Burruano. I dialoghi sono spesso ridicoli, sempre finti, e la voce fuori campo risulta fastidiosa fin dall’inizio. La fotografia appare sciatta e la confezione generale è del tutto indecorosa. Ripensando alla sceneggiatura viene da chiedersi quanto in basso possa ancora cadere il cinema italiano…

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Le storie e i destini incrociati di Cenzo, buttato fuori dalla fabbrica; Vince, suo figlio che sogna di andar via mentre Elena, la sua ragazza, ad andar via da Bussi, il paesino vicino Pescara dove vivono, non ci pensa nemmeno; Genny fa la cameriera in un ristorante a Pescara dove sua madre Anita fa la cuoca. Tra spiagge affollate, liti, amori, treni presi e treni persi, un'estate passa portando ai nostri la scoperta di cosa significhi essere liberi… Dopo qualche pellicola carina ma fragile, Tavarelli sembra voler tentare il salto di qualità: temi forti, sguardo intergenerazionale, radicamento nella realtà. Ma lo fa con sciatteria e timidezza, sovrapponendo disoccupazione ed educazione sentimentale, con molto didascalismo (alcuni dialoghi sembrano discendere dal peggior Brecht) e una regia incerta su toni e ritmo da tenere. E certi passaggi vagamente onirici lasciano il tempo che trovano. Si intuisce del talento: ma andrebbe disciplinato. Insignificante.

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venerdì 20 maggio 2022

Custodes Bestiae - Lorenzo Bianchini

uno storico trova la soluzione a un mistero diabolico, il problema è che quella stirpe diabolica è ancora in salute, e pronta a colpire per sopravvivere e lo storico soccombe.

un giornalista e un allievo dello storico riescono a ricostruire tutta la storia e la loro vita è a rischio.

il bello di questo piccolo grande film è che riesce a fare paura a chi guarda, la sceneggiatura tiene fino alla fine, svelando il mistero che arriva dai tempi dell'Inquisizione. 

non perdetevi questo gioiellino, non ve ne pentirete - Ismaele 




"Custodes Bestiae" è un film superbo...Rozzo, certo, ma divinamente armonico; un horror "nientemezzisoloidee" che ha il merito di funzionare, cosa non sottovalutabile se si considera la qualità dei prodotti propinatici negli ultimi anni.

Merito dell’umiltà di Bianchini? Chi può dirlo…Quel che è certo è che il giovane talento friulano non gioca a fare l’artista. Costruito il “giocattolo artigianale” ne evidenzia, con saggia ironia, gli aspetti più caserecci (vedi l’uso del dialetto) anziché tentare di celare il tutto dietro ad artifizi superati in stile “Italian Trash”…
L’amore che il regista nutre per la sua opera è a dir poco contagioso: esso trasuda dalle immagini mischiato al clima di costante tensione che avvolge tutto il film.

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giovedì 19 maggio 2022

Ho fatto splash - Maurizio Nichetti

dopo il miracolo di Ratataplan Maurizio Nichetti gira un altro gilm, senza che lui dica una parola.

è il protagonista, naturalmente, come un comico del cinema muto, non poteva parlare.

e il film ha una storia, di ragazze che cercano un posto nella vita, e anche Maurizio Nichetti lo cerca, fra tante gag superlative.

tutti bravi, in una storia bella e un po' folle, che parla dei tempi moderni.

non perdetevelo, tra l'altro il biglietto è gratis.

buona (semiseria) visione - Ismaele  

 

 

 

QUI il film completo

 

 

Tre ragazze sopravvivono dividendosi un appartamento in attesa della grande occasione.
Arriva invece il cugino di una di loro, che si è risvegliato dopo aver dormito 15 anni!  Nichetti, ancora una volta senza parole per tutto il film, affronta una realtà che non può conoscere. La pubblicità, il matrimonio, il grande Strehler sono miti che vanno in frantumi davanti all’agire ingenuo del giovane dal sonno pesante.

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A un anno di distanza da Ratataplan, Maurizio Nichetti prosegue quasi obbligato dai produttori il suo discorso cinematografico con Ho fatto splash. Questa volta il regista, pur non rinunciando alla consueta autoreferenzialità del suo personaggio che mantiene le stesse caratteristiche del film d’esordio, decide di concedersi maggiormente all’immediatezza e a un pubblico meno esigente. Ho fatto splash si caratterizza infatti con una sceneggiatura più robusta e dialogata e con personaggi quasi realistici, non sempre semplicemente abbozzati a icone clownesche.

Il protagonista non è infatti Nichetti, lo è in parte e sullo sfondo, ma è un trittico femminile di amiche che dividono un appartamento della vecchia Milano: Angela, Luisa e Carlina, i personaggi hanno gli stessi nomi dei protagonisti…

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il film scorre molto piacevolmente sul doppio binario della commedia realistica brillante, sostenuta dalle tre ragazze, e dal comico surreale e clownesco di Nichetti, che si avvale con rispetto ma anche con creatività dei modelli del cinema comico del passato, mettendo insieme le occhiate complici di Oliver Hardy alla fisicità acrobatica di Buster Keaton e alle invenzioni mimiche di Tati. Con Tati condivide l'idea del mutismo ostinato, interrotto da una sola frase, che dà il titolo al film. La cosa buffa è che né a Hulot né a Maurizio nessuno chiede mai perché non parlano. Lo schema prevalente è quello della distruzione involontaria dell'ordine costituito: il set pubblicitario, la cerimonia in chiesa, il pranzo nuziale, la Tempesta al Piccolo Teatro. Nichetti disordina l'ordinario, ma sempre con l'arma dell'ingenuità. Bravi tutti gli attori, anche quelli di contorno. Gradevoli le musiche di Detto Mariano.

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mercoledì 18 maggio 2022

L'ospite – Liliana Cavani

girato a Pistoia qualche anno prima della chiusura dei manicomi, il film racconta una storia come tante, di una ragazza (Lucia Bosè)  rinchiusa senza pensarci troppo.

e poi dopo vent'anni esce, mal sopportata da chi la ospita.

uno scrittore (Glauco Mauri) l'ha conosciuta e si interessa alla sua storia, chissà se lei lo saprà mai.

un film che forse non ha visto le sale, ma anche in tv dev'essere passato poco e male, e invece merita molto.

non è perfetto, ma è un gran film.

buona (sofferta) visione, se riuscite a trovarlo - Ismaele

 


 

Uno scrittore, ottenuto il permesso di frequentare un ospedale psichiatrico per preparare il prossimo romanzo, nota diverse carenze sia mediche sia sociali nel trattamento dei degenti, ma le sue critiche non vengono bene accolte dai medici. Il letterato ha inoltre l'opportunità di conoscere Anna, una donna ormai guarita, che viene affidata al fratello. II reinserimento nella famiglia e in società si rivelano però difficili e Anna, terrorizzata da un approccio aggressivo da parte di un giovane, fugge nella casa dei defunti zii. Lì rivive il passato in chiave fantastica, prima di venire presa in consegna dalla polizia.

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La Commissione di revisione, per la “tematica del film e l'ambiente in cui si svolge (il mondo dei malati di mente e i manicomi)”, viene ammesso alla proiezione in pubblico, con il divieto di visione per i minori degli anni 14. Il film non concorre ai premi governativi.

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Ricoverata in manicomio giovanissima, Anna (Bosè) viene dimessa dopo vent'anni e ospitata dal fratello, evidenziando ovvi problemi di reinserimento. La Cavani contribuisce alla discussione già allora ampiamente aperta sui manicomi (e che porterà sette anni dopo alla legge Basaglia) colpendo forte lo spettatore con la scelta di girare in un manicomio vero: decine di pazzi autentici filmati nel loro abbrutimento, nel loro totale estraniamento da ogni realtà per soffermarsi a coglierne volti, espressioni, parole e ottenere un effetto più vicino alla realtà di un documentario.

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Per raccogliere del materiale per il suo prossimo romanzo Piero (Glauco Mauri), un intraprendente e tenace scrittore, chiede al direttore della struttura di poter frequentare un ospedale psichiatrico ed, aggirandosi per i padiglioni, rimane colpito dalle disumane condizioni nelle quali versano i ricoverati, chiamati democraticamente “ospiti”, ma abbandonati di fatto al loro destino. Un giovane psichiatra gli accenna alle difficili condizioni nelle quali sono costretti ad operare e l’informa che alcuni ricoverati svolgendo, a scopo terapeutico, dei lavori molto umili come rastrellare foglie, servire a tavola, fare le pulizie, guadagnano qualche lira al giorno ed usufruiscono del permesso di poter uscire dalle loro stanze per qualche ora. Dopo aver cercato, invano, di scuotere il giovane psichiatra del reparto, ormai rassegnato e demotivato, Piero rimane colpito da Anna (Lucia Bosè), una donna ancora giovane e bella, ricoverata da vent’anni in quella struttura, a seguito della morte del cognato del quale era innamorato

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martedì 17 maggio 2022

A classic horror story - Roberto De Feo e Paolo Strippoli

film pieno di citazioni, con tante ispirazioni.

un gruppo di persone che non si conoscono fanno un viaggio in camper verso la Calabria, e succedono tante cose, che si sommano le une alle altre.

un rito nascosto (nato da tre fratelli fondatori della 'ndrangheta, Osso, Mastrosso e Carcagnossoha bisogno di umani freschi, e quelli arrivano.

ma non tutto va come dovrebbe, e qui sta la sorpresa del film.

buona (sanguinosa) visione - Ismaele 

 

 

 

...Decisamente ben girato e molto curato esteticamente, A Classic Horror Story non convince dal lato narrativo e metatestuale. Sembra un film in ritardo di almeno un decennio e butta via una serie di idee, spunti e suggestioni estremamente interessanti, facendole confluire in una critica superficiale, didascalica e moralista che gira su se stessa. È un peccato, perché il materiale di partenza era buono, il coraggio non manca e nemmeno, credo, la passione. Forse, quello che serve, è un po’ più di consapevolezza in più che possa andare oltre l’omaggio verso ciò che si ama. Ricordate? «Tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile».

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Il soggetto è molto semplice. Nel Sud Italia, cinque persone condividono un viaggio in camper per raggiungere una destinazione comune. Nel corso della notte, il veicolo esce di strada e si schianta contro un albero. I passeggeri perdono i sensi, per poi svegliarsi malconci in mezzo a un bosco, lontano dalla strada in cui si trovavano e soprattutto incapaci di fuggire da un luogo pieno di pericoli, che sembra attrarli a sé. Il risultato è un’opera che attinge a piene mani dallo slasher e dal folk horror (La casaScream e The Wicker Man sono i riferimenti più evidenti), per poi imprimere al racconto una svolta che sarebbe delittuoso svelare.

A Classic Horror Story a questo punto travalica i confini dell’horror, dando vita a una pungente critica al panorama audiovisivo nostrano, che rifugge dal cinema di genere perché troppo cupo e violento, per poi accettare di buon grado le approfondite cronache di terribili efferatezze e dolorosi drammi personali sul piccolo schermo. Roberto De Feo e Paolo Strippoli mettono quindi in scena la risposta italiana al seminale Quella casa nel bosco di Drew Goddard, dando nuova linfa all’asfittico cinema di genere nostrano e dimostrando al mondo intero che nel Paese di Mario BavaDario Argento e Lucio Fulci è ancora possibile fare horror di qualità e dal respiro internazionale, grazie alla visibilità e alla promozione (ampiamente meritate) che Netflix sta garantendo a questo progetto…

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Molti autori italiani sono spesso colpiti dalla medesima esterofilia febbrile del quale il pubblico è preda e piegano la poetica del nostro Cinema verso angoli a noi alieni, sviluppando opere la cui artificiosità è tale da schiaffeggiare il cervello dello spettatore come un brutto VFX a che ci porta nella famigerata Uncanny Valley.

In A Classic Horror Story De Feo e Strippoli non commettono questo terrificante errore e il film non cerca di trasformare una storia ambientata in Italia in qualcosa che non è, sfruttando il territorio, le suggestioni folcloristiche e i regionalismi senza renderli macchiettistici e sopra le righe.

Il film sfrutta bene tutto quello che ha a propria disposizione e gioca con i suoi interpreti sfruttando meravigliosamente Francesco Russo e Matilda Anna Ingrid Lutz, una perfetta regina dell’urlo nostrana.

De Feo e Strippoli, lavorando con il direttore della fotografia Emanuele Pasquet, costruiscono alcuni quadri visivamente molto suggestivi e in linea con il tipo di poetica horror che vogliono portare sullo schermo, lavorando sia per avere una coerenza narrativa rispetto al concept della storia tanto quanto al genere seminale scelto per la prima parte del film…

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A Classic Horror Story non è una ventata d’aria fresca, ma un vero e proprio tornado che scardina gli ammuffiti portoni di un intero sistema. Significativa in questo senso la scelta di utilizzare due dei brani più rassicuranti e poetici della canzone italiana, La casa di Sergio Endrigo e Il cielo in una stanza di Gino Paoli, in contrasto a sequenze di estrema violenza, in cui si possono facilmente riscontrare le influenze di Sam Raimi e Tobe Hooper. Un avvincente e sanguinolento viaggio nel meglio del cinema dell’orrore che abbiamo visto, che fa aumentare i rimpianti per quello che invece non abbiamo potuto vedere, perché mai realizzato. Un horror che riesce a essere al tempo stesso lacerante esplorazione del mito, pungente critica sociale e caccia al tesoro cinematografico, inequivocabile testimonianza del fatto che con Roberto De Feo e Paolo Strippoli abbiamo trovato due veri autori.

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A Classic Horror Story è un film che nasce come atto d’amore nei confronti del genere , attraverso la voluta riproposizione di topoi e citazioni dai classici  (Non aprite quella portaLa casaHostel, tra gli altri): un citazionismo insistito ma mai banale, che trova la propria ragion d’essere in un carattere meta-cinematografico che sarà fondamentale per lo sviluppo della storia – pensiamo a quando l’aspirante regista Fabrizio dice che “fare cinema in Italia è difficile”, oppure a quando i protagonisti iniziano a dissertare sul cinema horror. Esauriti i convenevoli – la presentazione del gruppo (fra cui spicca la bella e carismatica Matilda Lutz, quella di Revenge), il viaggio, l’incidente causato da un animale morto (sempre foriero di sciagure, pensiamo ai recenti The Invitation e Get Out) –, il film entra di prepotenza nella parte più consistente e di maggiore impatto, quella epicorica, con il progressivo disvelarsi dei macabri rituali pagani. Prima, i tre feticci nel bosco accompagnati da cinque teste di maiale, poi i disegni dentro la casa (una tetra abitazione a forma di tempio pagano), spiegati dal protagonista: si tratta di una vera leggenda calabrese, quella dei tre fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, esseri malvagi coperti da mostruose maschere che praticano sacrifici umani e che sono considerati i fondatori delle Mafie (uno non vede, uno non sente e uno non parla). La bambina con la lingua mozzata e rinchiusa in soffitta segna l’inizio delle atrocità, che esplodono in modo dirompente con la tortura praticata a Mark dai tre lugubri figuri, con maschere lignee come nei disegni: De Feo riprende l’efficacissimo espediente della musica a contrasto, già utilizzato in The Nest, e fa subire al ragazzo le peggiori violenze (i piedi spezzati con le mazze, gli occhi cavati con un diabolico strumento) sulle allegre note de La casa di Sergio Endrigo – ricollegandosi così al prologo, quando una ragazza veniva torturata col sottofondo di Il cielo in una stanza di Gino Paoli.

Una scena che è a sua volta un preludio alla lunga e terrificante sequenza notturna del sacrificio umano, con il feticcio di vimini stile The Wicker Man e i malcapitati che vengono seviziati e privati di occhi e orecchie (anche quando c’è da mostrare il sangue, la regia non si fa scrupoli, con effetti speciali di prima classe), in mezzo a fuochi che crepitano e a una folla con maschere lignee e zoomorfe. A preparare il tutto ci sono le luci rosse abbaglianti, la colonna sonora con gli archi che stridono, le sirene che vibrano nel buio, ma la paura non si esaurisce con la notte, visto che la congrega satanica compare poi di giorno riunita attorno a una tavolata, senza maschere e comandata da Cristina Donadio (la Scianel della serie-tv Gomorra), ma in grado di sprigionare un’aria altrettanto malsana e terrificante. A questo punto, A Classic Horror Story cambia, diventa qualcosa d’altro, ma senza snaturarsi, e i colpi di scena si susseguono ininterrotti: spiegare di più è impossibile, ma basti dire che entriamo in un territorio affine al mondo degli snuff-movie, e il film riprende quel carattere meta-cinematografico che aveva solo momentaneamente accantonato; si entra, cioè, in un cortocircuito  che ricorda Quella casa nel bosco, ma senza sfociare nel fantastico, bensì rimanendo ancorati a un orrore immanente.

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