venerdì 30 novembre 2018

Ovunque proteggimi - Bonifacio Angius

terzo film di Bonifacio Angius (dopo Sa grascia e Perfidia).
due storie che si incrociano, Alessandro, cantante e mezzo alcolizzato e Francesca, alla quale hanno tolto l'unico figlio, Antonio.
Alessandro e Francesca si incontrano in ospedale, reparto psichiatria.
non si può dire che i due si piacciano reciprocamente, ad Alessandro Francesca piace, infatti le chiede di fidanzarsi.
e poi sono insieme nell'avventura di prendere Antonio, da Sassari a Cagliari, contro la giustizia.
e organizzano (più o meno) anche una fuga, su una macchina presa a prestito, diciamo.
un film che ci ricorda che affianco a noi ci son persone sgradevoli, a volte, ma non possono essere solo oggetto di attenzione dei servizi sociali e delle forze dell'ordine, per non parlare dei TSO.
hanno una umanità come la nostra, sono solo più sfortunati, molte volte.
un gran bel film, da non perdere.
è in meno di 10 sale, riempitele! - Ismaele






NOTE DI REGIA
Tutte le volte che mi trovo alle prese col raccontare una storia e dei personaggi, mi scopro a ragionare sempre sullo stesso enigma. A riflettere su come sarebbe stata la mia vita se lungo la strada non avessi incontrato quella grande passione che è il cinema. Credo che il cinema, che per me è sempre stato elemento fondamentale e terapeutico per esorcizzare paure e nevrosi, mi abbia, fino ad ora, salvato la vita. E senza di esso sarei forse stato un essere umano ingabbiato in un mondo che non gli appartiene. Un mondo incomprensibile, di cui avere paura. Un mondo da prendere a pugni in faccia o dal quale fuggire, proprio come fanno gli esseri umani raccontati in "Ovunque proteggimi". È così che Francesca e Alessandro sono entrambi parti di me stesso. Lui, detentore di una passione che si allontana inesorabile, inconsapevole di essere già troppo deteriorato per poterla riacciuffare, ma ancora straripante di vita. Lei, convinta di potersi salvare scappando da una vita piena di macerie, defraudata di un figlio che ama più di sé stessa, ingannata da una società fasulla, cinica e moralista, sempre pronta a giudicare e violentare i sentimenti più puri.
Personalmente, la necessità e l'urgenza di trasmettere quello che sento nel profondo, nasce da situazioni e sentimenti che ho vissuto in prima persona. E se i personaggi da me descritti fossero sbrigativamente etichettati come "marginali", allora posso dire, con lucida sincerità, di essere marginale anch'io.
Non c'è niente di Zavattiniano nel mio lavoro. Io non pedino nessuno, non guardo il mondo attraverso buchi di serrature, non osservo gli animali nella gabbia dello zoo. Io sono semplicemente già lì, dentro la gabbia, con loro, che sono tanti, troppi, la maggioranza silenziosa che nessuno ascolta, che nella realtà dei fatti è tutt'altro che marginale, anzi, è il vero centro del mondo.
Dunque i miei sentimenti, le mie esperienze, la mia rabbia e le mie paure più profonde, estremizzate e portate sullo schermo. Quasi un modo per allontanarle, trasformarle da negative a positive, da veleno ad antidoto. Le voglio mostrare attraverso il cinema col tentativo di renderle più cristalline e comprensibili possibile, come fossero messe in scena in un film di Chaplin o in un cartone animato giapponese degli anni ottanta. Attraverso l'utilizzo di un meccanismo narrativo diretto, emotivamente chiaro, che non ha paura di mostrarsi nella sua autentica natura, e con un linguaggio figlio di un cinema, un tempo popolare, ora quasi dimenticato. Un cinema fatto di personaggi, in cui tutti gli elementi espressivi che mi hanno fatto innamorare dello schermo quando ero adolescente, sono vivi in un unico corpo. Le solitudini, il sentimento di rivalsa, i perdenti, l'amore, la follia, il melodramma, l'utilizzo della colonna sonora come elemento protagonista. Tutti fattori preposti ad un'intensità narrativa ariosa, rapida, avvincente, amara, ironica, avventurosa e dolorosa al tempo stesso.
In "Ovunque proteggimi" c'è la volontà di espandere il cuore pulsante di Alessandro e Francesca e di mostrarlo all'umanità intera, quella stessa umanità che non si accorge della loro esistenza e voglia di vivere, ma anche quell'umanità di cui loro e noi stessi facciamo parte. Una battaglia persa in partenza, che però può darci, solo per un attimo, la sensazione di sentirmi e di sentirci, un po' meno soli.

Il personaggio di Alessandro è spiazzante anche per la sua palese richiesta d’amore. D’altronde, come dici tu, succede la stessa cosa nella vita reale: questo tipo di esternazioni ti catalogano in senso negativo nei confronti dell’altro. Tornando all’anarchia, mi sembra che talvolta Alessandro e Francesca la esprimano anche in maniera violenta, ma comunque con una purezza fanciullesca che li rende comunque innocenti.
Si, hanno un comportamento infantile, però io ti vorrei spingere verso un altro ragionamento. Alessandro e Francesca risultano inadeguati al mondo, ma, se ci pensi, le azioni che compiono sono tutte razionali, non sono mai gesti da squilibrati. D’altra parte, la follia non mi interessa neanche come malattia psichiatrica; preferisco concentrarmi sulle reazioni a una certa condizione di vita e ai comportamenti che scaturiscono quando il mondo si dimostra ostile. Trattandosi di una storia molto personale, ho cercato di lasciare un po’ da parte l’ambiguità presente in Perfidia per raccontare qualcosa di più semplice e cristallino. Però, poi ho giocato con lo spettatore attraverso il personaggio di Francesca, che è raccontato dal punto di vista di Alessandro e, quindi, con informazioni parziali rispetto ai motivi per cui gli è stato tolto il figlio e sul perché è finita in un reparto di psichiatria. La cosa interessante, ma anche dolorosa, è stata che nelle proiezioni test alcuni – una minoranza fortunatamente! – pur avendo scarsa conoscenza su di lei l’hanno giudicata in maniera negativa: mi sono sentito dire che è chiaro che lei è una drogata e che, quindi, hanno fatto bene a toglierle il figlio. Questo la dice lunga sul tempo che stiamo vivendo, in cui una semplice accusa o una diceria è sufficiente per renderti immediatamente colpevole. Alessandro ragiona in maniera opposta: essendo un puro non ha bisogno di avere altre prove oltre a quella dell’amore materno tra figlio e madre e tra madre e figlio. Degli altri ragionamenti non gliene può fregare di meno. Considerando, poi, che il padre di questo film è un capolavoro inarrivabile come The Kid di Charlie Chaplin, serviamocene per fare un altro ragionamento: tenendo presente che il protagonista si occupa del bambino quando nessuno lo vuole fare, e poi lo rende suo complice in una serie di piccoli furti, ti chiedo da quale parte stava il pubblico degli anni trenta quando a un certo punto il potere costituito glielo vuole togliere?
Immagino che parteggiasse per il vagabondo…
E adesso, invece, per chi farebbe il tifo? Questa sarebbe la domanda da farsi…

Fedele alle sue inquietudini e a un décor dove il suo cinema nasce e si rigenera, Bonifacio Angius affronta al fianco dei suoi personaggi la paura di diventare pazzi, l'alienazione volontaria dai legami affettivi, la necessità di essere altro da sé per sopravvivere. Filma un uomo e una donna nel momento, trasfigurando la loro intimità attraverso l'immaginario cinematografico. Fisico e tellurico, Ovunque proteggimi è un'ode a quella complicità che unisce gli esseri e perdura dopo la loro separazione. Dopo uno portellone chiuso e una rotta aperta.

… Ci sono, dicevamo, tempi comici e drammatici che si susseguono uno con l'altro, e su diversi piani si fondono dando nell'insieme un senso di realismo non indifferente. Puntando alla sfaccettatura dei toni usati, infatti, il regista restituisce un bell'affresco del mondo.
Bonifacio Angius (al terzo film dopo "sa Gràscia" e "Perfidia") è un regista da tenere d'occhio soprattutto per il lavoro con gli attori e i rispettivi personaggi. La sua capacità di mettere in scena la coppia di outsider è notevole, così come anche l'uso che fa dei paesaggi sardi che fungono da specchi dell'animo umano. Il personaggio di Alessandro, su tutti, è quello che funziona meglio: l'alcool, le macchine a cui gioca, la camicia, le parole. Un conflitto tutto interiore che macera e si sfoga di tanto in tanto. Alla ricerca di una salvezza, tanto umana, lontana. E tutto il malessere sembra svanire di fronte a una donna da amare, anche in un progetto improbabile (mettersi insieme per fregare i servizi sociali), come se fosse fuori la disfunzionalità. E Alessandro Gazale lo interpreta in maniera magnifica, con una fisicità possente e delicata…

giovedì 29 novembre 2018

Troppa grazia – Gianni Zanasi




bravissima Alba Rohrwacher, in un film che promette più di quanto dà.
è un film leggerino, che ti dimentichi in fretta, e non è un buon segno.
magari non ho capito niente solo io, mi direte. 
buona visione a voi - Ismaele





Risiede proprio nella femminilità contrapposta delle due protagoniste (tre, se contiamo anche Rosa) la chiave di lettura più potente di Troppa grazia. Ma dire che il film di Gianni Zanasi, scritto a otto mani (due sole delle quali appartengono a una donna, Federica Pontremoli) sia femminista è riduttivo, perché Zanasi segue un istinto e non un manifesto: l’istinto è quello di Lucia, ma anche quello di Alba Rohrwacher, mai stata più brava (e più bella) che in questo ruolo mette a disposizione corpo, mente e cuore senza mai tirarsi indietro. Rohrwacher si abbandona al turbinio della storia e alla guida del regista con la stessa impavida titubanza della geometra abituata alla razionalità e messa alla prova dal soprannaturale. È la sua essenza luminosa a dare a Lucia quella credibilità continuamente sfidata dagli sviluppi di una trama che incalza e provoca e spiazza noi come la sua protagonista

un elemento trascendente entra nella storia che in generale mantiene un tono comico, prima di abbandonarlo verso la fine del film. Il conflitto tra la laicità di Lucia e queste apparizioni soprannaturali si risolve in alcune situazioni alquanto divertenti. Durante la conferenza stampa e la presentazione del progetto di costruzione, Lucia viene spinta e gettata sul pavimento da una forza invisibile, perché l’unica persona che può vedere questa energica “Madonna personale” è il geometra. La parola si diffonde attraverso il villaggio: Lucia ha visto la Madonna e non vuole che la Grande Onda, questo il nome del complesso edilizio progettato, venga costruita. Così sia. L’acqua è la parola chiave che porterà a un “miracolo” e in definitiva allo stato divino dell’ambiente, dalla mano devastante ma a suo modo prodigiosa dell’ex fidanzato di Lucia. L’avvertimento di Troppa Grazia è chiaro: solo una ritrovata consapevolezza della nostra terra e la cura di tutto ciò che contribuisce alla vita dell’originalità irripetibile dei nostri luoghi può aiutare a evitare il degrado, l’abbandono, la bruttezza e lo sradicamento dell’identità.

"Troppa grazia" legittima la pregnante spiritualità dei personaggi zanasiani, i quali, almeno sul versante dei protagonisti, ci appaiono svuotati dei loro bisogni organici (non a caso, qui come altrove la sessualità è assente anche nel fuori campo) e, sulla scia del modello mariano, rivestiti di pura anima. Una mancanza di fisicità, questa, compensata da un surplus emotivo e sentimentale di cui l'espediente del film è materializzazione drammaturgica e insieme narrativa. In tal senso. la scelta della Rohrwacher appare più che azzeccata non solo per la bravura dell'attrice ma anche per l'eccezionalità di un ruolo che, andando contro l'immaginario dei personaggi da lei interpretati, rende ancora più forte lo straniamento della "commedia" surreale in cui la vediamo coinvolta. La debolezza di qualche nesso logico relativo alle motivazioni della protagonista e, in particolare, di quello che dovrebbe giustificare lo scarto tra l'iniziale scetticismo di Lucia e la successiva adesione alle volontà del sua interlocutrice così come una certa tendenza a divagare nella parte conclusiva della vicenda non diminuiscono la bontà del risultato né l'originalità del cinema di Zanasi.

mercoledì 28 novembre 2018

Oh Lucky Man! – Lindsay Anderson

dopo essere uscito dal college di "If...", Mick Travis (Malcolm McDowell) è entrato nel mondo reale e lavora in un'impresa nel settore del caffè.
Mick Travis fa un'ottima impressione ai dirigenti della società, e piano piano sale nella stima dei capi.
gira il mondo, vede di tutto, con quella sua faccia un po' così, che sale gli scalini del successo, come se non gli importasse.
la musica, dal vivo, è proprio come un personaggio del film.
abbi fiducia, guarda questo film, non ne fanno più così - Ismaele




Il film è grottesco, d’avventura, con una vena horror, “O lucky man!” racconta le peripezie di un banale rappresentante commerciale nel settore del caffè che, nel suo peregrinare, va a sbattere via via il muso contro il mondo della pubblicità, del nucleare “segreto”, della medicina frankensteiniana, delle assurdità di esercito e polizia, dell’ipocrisia della giustizia, dell’ambivalenza della chiesa. Terribilmente e teneramente anni ’60. Due trovate filmiche vanno però sottolineate e valgono da sole la visione. Gli attori della prima parte si ritrovano nella seconda, ma.... interpretano ruoli che non hanno nulla a che fare con quelli iniziali. Non male. Infine, l’originalità della colonna sonora: non è fuori campo! Mi spiego: tra una scena e l’altra, si vede Alan Price, leggendario tastierista degli Animals di Eric Burdon, che canta e suona insieme al suo gruppo. Le canzoni sono bellissime. Comprai l’LP nel 1973...

Le meilleur des mondes possible peut être vu comme une suite au très remarqué If… : après avoir traité du monde des collèges, Lindsay Anderson aborde cette fois l’étape suivante puisque son personnage principal, toujours interprété par Malcolm McDowell (1), est maintenant un jeune homme plein d’entrain et d’ambition qui se lance dans la vie active. C’est un peu une version moderne du Candide (le titre français reprend d’ailleurs une phrase de ce conte philosophique de Voltaire) car le jeune Mike va se heurter aux dessous du commerce, au nucléaire, au contre-espionnage, à la recherche médicale, à l’armée, au capitalisme international, à la justice, à l’Eglise, à la pauvreté, etc… Le film est ainsi une sorte d’épopée,  un parcours semé d’obstacles que notre Candide va surmonter avec un optimisme inébranlable qui lui donne un certain détachement ; il est pourtant très malmené et ne s’en sort pas toujours sans dommage, loin de là. Le meilleur des mondes possible met en relief les dessous et travers de notre société, dans lesquels brutalité et corruption reviennent souvent comme une constante. L’humour est aussi très présent. Certaines scènes sont assez surréalistes et peuvent évoquer l’approche d’un Luis Bunuel. Le film est original sous bien d’autres aspects : il est ponctué de morceaux chanté par Alan Price (ex-Animals), certains acteurs jouent plusieurs rôles successifs. Lindsay Anderson termine son film par une pirouette, un peu énigmatique (2). Durant presque trois heures, le film ne montre aucune longueur. Le Meilleur de mondes possible est un film vraiment remarquable, pas vraiment daté car son propos reste, somme toute, assez actuel.

O Lucky Man! is almost an anti-movie. Yes, Mick Travis develops in the sense that a wide eyed innocent cannot remain so for too much longer after being tortured for being a Russian spy – so he has some growing to do but as a structural beam, his journey does not serve as a foundation for a narrative – and yet it does. We have been browbeaten by what a film is and should be so much in the last 20 years that when something comes along (35 years ago, granted) that dispenses with Hollywood wisdom, punches Robert McKee in the solar plexus and puts the experience of experience front and centre, it's a breath of extra strong mint. There are ciphers and clichés and tropes and all manner of story telling crossroads and short cuts but Anderson seems hell bent on subverting almost every expectation. In turn, this keeps you guessing after every scene – politely punctuated by Anderson and his editor with a helpful two seconds of black spacing…

Alcuni anni dopo il suo capolavoro "If...",  il geniale regista inglese Lindsay Anderson ripropone il personaggio di Mick Travis che comparirà ancora una volta nel terzo capitolo conclusivo della trilogia, "Britannia Hospital", (a breve su SubSoup sempre grazie alla nostra subber Grab) di questo "eroe" immaginario che ha il volto di Malcolm McDowell. Straordinaria ancora una volta la sua interpretazione (ma bravi tutti gli attori, alcuni ricoprono più ruoli) che arriva subito dopo quella nel  film più importante della sua carriera  e per il quale è famoso: "Arancia meccanica" di Kubrick. E il suo contributo va oltre il ruolo da protagonista: il film è infatti basato su un'idea dello stesso McDowell.
Il film è grottesco, stralunato, ricco di trovate assolutamente geniali lungo le tre ore di visione. Lo spirito anticonformista di Lindsay Anderson trova sfogo in una narrazione libera dove non manca satira e denuncia sociale. Da segnalare la colonna sonora "live": tra una scena e l’altra, si vede Alan Price che canta e suona. Chi lo guarda "è un uomo fortunato!"

lunedì 26 novembre 2018

Il vizio della speranza - Edoardo De Angelis

Maria ha un solo amico, un cane. 
svolge un lavoro strano e terribile, il corriere di donne che vengono pagate per vendere il bambino che hanno cresciuto dentro, in un posto che sembra un girone dantesco, buio, triste, popolato di diavoli e poveri diavoli.
ci sono pochi uomini nel film, uno è quello che Maria sceglie per essere il padre del bambino, un uomo buono, diverso dagli altri.
Maria scopre che si può cambiare, e mai più farà il corriere, porta con sé anche una bambina nera disabile, la porterà in un mondo diverso, dove la speranza è un lusso e un vizio.
Edoardo De Angelis è anche il regista di Indivisibili, filmato nello stesso girone.
Maria è un attrice straordinaria, e l'ultima immagina sembra presa da un quadro della famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria.
un film da non perdere - Ismaele



De Angelis si sofferma a lungo, intimamente, sul suo volto indurito; e contemporaneamente esplora, attraverso lunghi piani sequenza, una scenografia quasi astratta nella sua crudeltà: il grigio pallore del cielo, il collasso architettonico, le insegne al neon che brillano su un vuoto monocromo. Non è realista, il cinema di De Angelis: è un cinema che ambisce alla spiritualità metaforica, persino ad un impressionismo “pittorico”: Maria e la natura morente sono segni; questa è la cifra distintiva di De Angelis, la sua qualità non da tutti apprezzata…

Il calvario di Maria (De Angelis non teme certo né la metafora, né l'allegoria...), che decide di portare avanti una gravidanza da lei negata ad altre donne è, “scandalosamente”, il segno di un mondo che non vuole morire, ancora. Una questione di “fede”, cui De Angelis presta il suo gesto cinematografico, a tratti turgido, a tratti lirico, che si scioglie in un'impressionante epifania finale. 
Il vizio della speranza affonda le mani in una materia incandescente e lo fa con una folle fiducia nel potere del melodramma. Il Delta diventa uno Stige attraversato da anime disperate, che sperano ancora di potere iniziare a vivere lungo i suoi argini. Edoardo De Angelis compone con Il vizio della speranza il suo film più potente e riuscito; nel quale le componenti noir di Perez e quelle melò di Indivisibili si fondono dando vita a un autentico luogo di cinema…

Lungo il fiume scorre il tempo di Maria, il cappuccio sulla testa e il passo risoluto. Un’esistenza trascorsa un giorno alla volta senza sogni né desideri, a prendersi cura di sua madre e al servizio di una donna ingioiellata. Insieme al suo pitbull, Maria traghetta sul fiume donne incinte, in quello che sembra un purgatorio senza fine.
È proprio a questa donna che la speranza un giorno tornerà a far visita, nella sua forma più ancestrale e potente, miracolosa come la vita stessa. Perché restare umani è la più grande delle rivoluzioni…

ricordo di Bernardo Bertolucci

martedì 20 novembre 2018

Senza lasciare traccia - Debra Granik

Ricorda un po’ Captain fantasticun po’ Wendy and Lucy, storie di gente che vive ai margini.
qui un padre vedovo, attraversato e vinto dai fantasmi, ha portato Tom a vivere con lui, vicino alla città, ma lontano da ogni comodità, vivendo all'addiaccio.
Will, il padre, non è giusto giusto, non sappiamo niente di lui e di Tom, probabilmente Will ha perso il senno nell'esercito di qualche invasione, l'Irak o l'Aghanistan, chissà cosa avrà dovuto vedere.
Tom fa la figlia, ma anche un po' la mamma per Will, lei non lo vuole lasciare.
un piccolo film di una grande regista, non perdetevelo, poche sale, ma vale il prezzo del biglietto - Ismaele




…Non si tratta di un’opera mediocre fino in fondo, ma fa permeare la sensazione di un film senza autonomia, una pellicola di transizione che si dota di senso solo se ipercontestualizzata, come stiamo facendo noi ora. Di transizione come i protagonisti, mai fissi in un sol luogo, nomadi per scelta. Anche contro la legge, la decisione è quella di fuggire, di vivere isolati lontano dalla gente e dall’elettricità. Il discorso di Granik coinvolge proprio il topos della fuga dalla civiltà per andare a scandagliare un sentimento che non è solo escapismo; è anche quello, ma coinvolge in sé qualcos’altro, difficilmente definibile a un primo sguardo, ma tale da perdere quasi ogni attrattiva già dal secondo. L’escamotage che meglio coglie questa differenziazione è la riscrittura in termini quantomeno neutri se non addirittura positivi dei servizi sociali, mai caricati di una funzione antagonistica. La burocrazia di cui vittime e promotori non è per questo meno asfissiante, ma il loro agire non è mai freddo, distaccato. Il fatto che la sensibilità che ostentano non sia comunque presa in considerazione da parte dei duo (specie dal padre) segnala la volontà di scappare ma non nel senso classico. Il loro non è tanto un rifugiarsi quanto un rifuggire, determinato per contrasto…

 All’oltranzismo di Will, Senza lasciare traccia risponde nei fatti con una compassione e un senso di accoglienza lontani dal ritratto oscurantista e degradato della provincia americana, alla quale, invece, l’autrice regala una bellezza selvaggia e aspra come quella della foresta attraversata dai protagonisti. Come succedeva ne Un gelido inverno, anche qui il nucleo del racconto ruota intorno al tema della disgregazione famigliare intesa non solo dal punto di vista fisico, ma anche psicologico, essendo quello di Will un deragliamento prima emotivo e poi materiale. Nel rifuggire il patetico e il commovente, Granik tratteggia il rapporto tra padre e figlia con una dolcezza che Ben Foster e Thomasin McKenzie restituiscono più con gli sguardi e i silenzi che con le parole. Rigoroso fino all’insostenibile Senza lasciare traccia fa della coerenza il motivo del proprio fascino.

Senza lasciare traccia è l’ottimo risultato di una lunga ricerca, di un cinema che coglie l’immediatezza della scoperta (il coetaneo con i conigli) e che mostra l’interazione, la dipendenza dei personaggi con i luoghi. O, al contrario, la loro estraneità  quando soprattutto si confrontano con il progresso. Il padre di Tom rifiuta il telefono, nasconde la tv quando gli è stata affidata la nuova abitazione. Sembra quasi essere un documentario per come segue i personaggi, per la ricchezza di elementi e dettagli nel raccontare una storia. La Granik non cerca soluzioni alla Malick con soluzioni tipo la luce che filtra tra gli alberi. Tom e il padre non appaiono figure eteree ma con una solida consistenza. Hanno una storia addosso che non ha importanza di essere rivelata. Come per la Lawrence in Un gelido inverno, si entrava subito in sintonia con lei anche se della sua condizione non si sapeva nulla.
Un cinema anche sensoriale, che fa sentire addosso il freddo e la paura. In un viaggio senza meta, irregolare, come nella tappa sul bus poi subito interrotta. Ma dove due punti di vista complementari si modificano gradualmente ma in modo evidente. In un film capace di aspettare i suoi tempi, diretto, carico di calore non esibito. Come nella comunità, quasi nelle zone di Into the Wild. Che col film di Sean Penn ha una direzione, contemporaneamente, uguale e (forse) contraria.

lunedì 19 novembre 2018

In Hell / Gloria Mundi / Tortura - Nikos Papatakis

non è esattamente un film per famiglie in prima serata.
una donna si sottopone a torture per riuscire a interpretare una parte di chi deve soffrire davvero, non fingere.
e poi il film si apre, a cene e feste, e a discussioni politiche sul terrorismo e sui palestinesi.
un film così non si vede tutti i giorni e bisogna essere forti per non abbandonare il film.
una visione se la merita tutta - Ismaele





…Karlatos sobs which convincing realism. She looks hurt, she looks upset and she looks tortured. Obviously quite committed to her part, this is never the less pretty much an atrocity exhibition wrapped up in the guise of a political statement. Where Passolini was able to create something cerebrally interesting with his horror show Salo, Papatakis’ is content to simply bombard us with nastiness. To his credit, the nastiness is effective in making the viewer uncomfortable. The seediness isn’t confined to just the acts we see the participants involved in either, it spreads to the look of the film. Everything here seems unclean, dirty, as if you might catch something if you touched the wall or nicked your finger on a piece of paper on set. Again, there’s obviously something that Papatakis was trying to say here and it likely stems back to Galai’s past ties to Algerian revolutionaries. It was only a decade before this picture was made that Galai’s ancestors and possible family members would have been fighting a brutal war against the French for their independence and no doubt torture was involved in the real world version of the conflict. Given that Algerian women did play a role in the active combat of the revolution, is Galai working out her demons, trying to clean the scars left from her time in that conflict? That’s an interesting idea but the film never really makes it entirely clear…

In Hell isn’t an exercise in surrealism, but more performance art, and Karlatos is brilliant as the tormented actress who gradually loses her mind in what may be a make believe terrorist crusade orchestrated from the grave by her anarchic director / husband Hamidas. It’s a great performance by an actress better known for more commercial genre films – the spaghetti western Keoma (1976), shockers Cyclone (1978) and Lucio Fulci’s Zombie (1979) and Murderock (1984) – and a handful of TV and film appearances, notably Prince’s mother in Purple Rain (1984).
As revolting / appalling as the sexual torture may be, it is in context with the character’s shift from actress to terrorist, and Papatakis stages some brilliant sequences. The best is perhaps Galai’s bank bombing run-through, which has both wit and a mounting fear that she may err and blow herself to bits as she works out the correct blocking and performance beats.
Papatakis also makes use of some striking decrepit locations. Galai resides in a bombed out apartment block, and her building is a disintegrating by the second. The production most likely decorated a condemned, derelict building, and the omnipresent decay provides potent subtext in her scenes prior to venturing to France for financial backing. There’s also a few intriguing editorial touches, especially the zoomed-in masking of a notice informing Galai of imminent danger…

The film is rambling and incoherent at times; a cacophonous barrage of screaming, caterwauling and unabashed sobbing while images of disturbing violence engage in an almost incessant attack upon the screen. Papatakis captures grime and filth on the lens, while the dark and morbid musical score from Barbaud Brown Klein and Nico Fidenco simply add insult to injury upon an already tiring assault to the senses.
In Hell is recommended only to those with a strong constitution against what, in essence, is the unmitigated humiliation of Olga Karlatos. The actress’ incredible performance doesn’t make her celluloid snuff film any more difficult to take, yet fans who appreciated her work in Zombie owe it to themselves to attempt and sit through In Hell for a real test of what it takes to truly suffer for one’s art…

sabato 17 novembre 2018

Widows - Eredità criminale - Steve McQueen

protagoniste sono le donne, i loro compagni, mariti e fidanzati sono morti dopo una rapina andata male, non lasciano niente, tranne un misterioso e utilissimo quaderno, nelle mani di Veronica.
Steve McQueen gira di nuovo un film negli Usa, dopo 12 anni schiavo.
e i neri sono protagonisti, nel bene (poco) e nel male, male condiviso con i bianchi, sete di potere e sopratutto di denaro sono i primi comandamenti, per tutti, o quasi.
qui delle ladre rubano ai ladri, senza esclusione di colpi, e non mancano i colpi di scena.
e una parte di quei soldi serviranno a ricordare Marcus, giovane nero ucciso da un assassino bianco in divisa.
sembra un film d'evasione, in realtà razzismo, corruzione, omicidi lo fanno diventare per lunghi tratti un film politico.
un film di Steve McQueen  non si può perdere, questo è sicuro.
buona visione al cinema - Ismaele






…il film si compone di numerosi momenti intensi e cinematograficamente d’effetto, come si può capire fin dalla prima scena, realizzata con un montaggio che incrocia la quiete del contesto domestico dei protagonisti con la tempesta della rapina che finirà per sconvolgerlo. Ma è una forza che intende colpire la testa dello spettatore, risparmiandogli la pancia e lasciandogli così la lucidità per cogliere non soltanto la qualità della sceneggiatura o i virtuosismi tecnici della regia, ma anche le implicazioni psicologiche legate all’importanza dei ruoli femminili e, immancabilmente, al tema del conflitto razziale. E’ il dosaggio magistrale di questi ingredienti a far sì che Widows – Eredità criminale, pur raccontando poco di originale, costituisca un film superiore alla media: qualcosa più di un thriller, senza però deviare dalla componente primaria del genere, ovvero la capacità di avvincere lo spettatore attraverso i classici elementi di trama, tensione, azione e colpi di scena. Steve McQueen è dunque riuscito a conciliare film d’autore e film per il pubblico, che viene sollecitato alle stesse riflessioni di tante altre pellicole in modo avvincente anziché tedioso…

Fantastici poi i primi piani sul predicatore nero, geniale imbonitore di folle interpretato con rara intensità da Jon Michael Hill. Anche nelle scene di violenza, perpetrate per lo più dal fratello di Jamal, il feroce e psicopatico Jatemme, c'è un'esibizione di sadismo raggelante, che non ha nulla dei ridanciani eccessi del pulp. Il film infatti in America ha avuto il codice di censura R, che impedisce ai minori di 17 anni di entrare senza l'accompagnamento dei genitori…

Le vedove dei membri nemmeno si conoscevano, sono donne diverse con idee, obiettivi e vite diverse, alcune di queste però sono messe in seria difficoltà dalla scomparsa degli uomini che frequentavano o con i quali avevano avuto dei figli. La soluzione è il libretto di uno di loro, il capo, sul quale sono appuntati tutti i dettagli del prossimo colpo, un’operazione molto facile per la quale tutto è già stato organizzato. Basta metterla in pratica.
Questo spunto nelle mani di chiunque altro sarebbe diventato una commedia o sarebbe stato quantomeno irresistibile dargli venature ironiche (donne non avvezze al crimine che devono diventare criminali e fare cose da uomini non essendo pronte, allenate o preparate). Steve McQueen invece ne fa un film grave, serio e ponderato, che affonda le mani nelle viscere di una ognuna di queste donne, uno in cui i momenti più leggeri suonano fuori posto (ed è incredibile che i personaggi stessi se ne accorgano). Quello che è accaduto è una tragedia e quest’idea del colpo potrebbe peggiorare tutto, non unirà nessuno, non creerà un gruppo di amiche ma deve salvare la vita a tutte.
Dall’altra parte c’è anche una storia di bianco e un nero. C’è un candidato al consiglio comunale membro di una famiglia ricca storicamente esponente della politica locale potrebbe non essere eletto. Il distretto cui fa riferimento è stato ridisegnato e ora include nuove zone. C’è un nuovo avversario, un nero, che ne vuole approfittare. Sembra la rivincita della classe popolare sull’élite bianca ma il nero è un ex gangster che vuole ripulire i suoi affari senza interromperli grazie all’ascesa politica. Le due storie si uniranno ad un certo punto con un punto di contatto non difficile da immaginare…

Stockholm Östra - Simon Kaijser da Silva

una mamma perde il bambino in un incidente stradale, l'investitore resterà segnato per sempre.
la coincidenza è che i due, dopo qualche anno si incontrino e si piacciano.
il bello del film è come tutto avviene senza forzature, naturalmente
il protagonista è bravissimo.
il film mi è piaciuto molto, merita - Ismaele


ps: ecco un racconto di Stig Dagerman (svedese), su cosa succede quando si investe un bambino: 

UCCIDERE UN BAMBINO - Stig Dagerman (1948)
E’ una giornata mite e il sole splende obliquamente sulla pianura. E’ domenica, tra poco suoneranno le campane. Fra i campi di segale due bambini hanno scoperto un sentiero che non avevano mai percorso e nei tre villaggi della piana luccicano i vetri delle finestre. Gli uomini si radono davanti a specchia appoggiati su tavoli da cucina, le donne canterellano affettando il pane per il caffè, e i bambini si abbottonano le camicette. E’ la mattina felice di un giorno infausto perché in questo giorno nel terzo villaggio un bambino sarà ucciso da un uomo felice. Il bambino è ancora seduto sul pavimento e si abbottona la camicetta, l’uomo che si sta radendo la barba dice che oggi faranno una gita in barca sul fiume mentre la donna canterella e mette il pane appena affettato su un piatto blu.
Non vi sono ombre nella cucina e l’uomo che ucciderà un bambino si trova ancora vicino a una pompa rossa della benzina del primo villaggio. E’ un uomo felice, che guarda dentro una macchina fotografica e nell’obbiettivo vede una piccola automobile blu e accanto all’automobile una ragazza che ride. Mentre la ragazza ride e l’uomo scatta la bella fotografia, il benzinaio stringe il tappo del serbatoio e annuncia che avranno una bella giornata. La ragazza si siede nell’auto, l’uomo che ucciderà un bambino estrae il portafoglio dalla tasca e spiega che arriveranno al mare e al mare affitteranno una barca e poi andranno a remare al largo, molto al largo. Attraverso i finestrini abbassati la ragazza sul sedile anteriore sente quello che dice e chiude gli occhi e ad occhi chiusi vede il mare e l’uomo accanto a lei nella barca. Non è certo un uomo cattivo, è felice e contento e prima di salire in macchina si sofferma un attimo davanti al radiatore che splende al sole a godere di quel luccichio e dell’odore di benzina e di biancospino. Nessuna ombra si proietta sull’auto, il paraurti splendente non ha nessuna ammaccatura né la minima traccia rossa di sangue.
Ma nello stesso momento in cui nel primo villaggio l’uomo dell’auto richiude la portiera di sinistra e tira verso di sè il pomello dell’avviamento, nel terzo villaggio la donna nella cucina apre la dispensa e si accorge che non c’è più zucchero. Il bambino, che ha finito di abbottonarsi la camicia e si è allacciato le scarpe, è in ginocchio sul divano e guarda il fiume che serpeggia tra gli ontani e la barca nera tirata in secco sull’erba. L’uomo che perderà il suo bambino ha finito di radersi la barba e piega lo specchio. Sulla tavola ci sono il caffè, il pane, la panna e le mosche. Manca solo lo zucchero e la madre dice al suo bambino di correre dai Larsson a chiederne in prestito qualche zolletta. E quando il bambino apre la porta l’uomo gli grida di far presto, che la barca è sulla spiaggia che aspetta e che devono remare più lontano di quanto non abbiano mai remato. E mentre corre attraverso il giardino il bambino non fa che pensare al fiume e alla barca e ai pesci che guizzano e nessuno lo avverte che gli restano soltanto otto minuti da vivere e la barca rimarrà dov’è per tutto quel giorno e per molti altri giorni ancora.
I Larsson non abitano lontano, appena dall’altra parte della strada e mentre il bambino l’attraversa correndo, la piccola automobile blu entra nel secondo villaggio. E’ un piccolo villaggio di casette rosse e di gente appena sveglia che siede in cucina colla tazza del caffè in mano, e vede l’auto che sfreccia al di là della siepe sollevando dietro di sè un’alta nuvola di polvere. Viaggia a gran velocità e l’uomo al volante vede i meli e i pali del telegrafo incatramati di fresco sfilargli accanto come ombre grigie. L’aria dell’estate soffia attraverso il parabrezza mentre escono sfrecciando dal paese e procedono veloci e sicuri al centro della carreggiata, sono soli sulla strada – per ora. E’ meraviglioso viaggiare così soli su una strada ondulata e larga, e in pianura è ancora più bello. L’uomo è felice e forte e col gomito destro sente il corpo della sua donna. Non è certo un uomo cattivo. Non farebbe male a una mosca ma tra qualche istante ucciderà un bambino. Mentre sfrecciano verso il terzo villaggio la ragazza chiude di nuovo gli occhi e, per gioco, dice che non li riaprirà fino a che non si vedrà il mare e sogna, al ritmo del dondolio dell’auto, quanto le apparirà splendente.
Perché la vita è congegnata così spietatamente che un minuto prima di uccidere un bambino un uomo felice è ancora felice e un minuto prima di urlare di terrore una donna può chiudere gli occhi e sognare il mare, e nell’ultimo minuto di vita di un bambino i suoi genitori possono stare seduti in cucina ad aspettare lo zucchero e a parlare dei suoi denti bianchi e di una gita in barca e il bambino stesso può chiudere un cancello e cacciarsi attraverso una strada con delle zollette di zucchero avvolte in carta bianca nella mano destra, e per tutto quest’ultimo minuto non vedere altro che un lungo fiume scintillante con grandi pesci e una grande barca coi remi silenziosi.
Dopo è troppo tardi. Dopo c’è una macchina blu di traverso sulla strada e una donna che urla si leva una mano sulla bocca e la mano sanguina. Dopo un uomo apre la portiera di un’automobile e cerca di reggersi sulle gambe nonostante l’abisso di orrore che ha dentro di sé. Dopo vi sono delle zollette di zucchero bianche assurdamente sparse nel sangue e nella ghiaia e un bambino giace inerte sul ventre con il volto brutalmente schiacciato contro la strada. Dopo accorrono due persone pallide che non sono ancora riuscite a bere il loro caffè e si precipitano verso un cancello e quello che vedono non lo dimenticheranno mai. Perché non è vero che il tempo guarisce tutte le ferite. Il tempo non guarisce le ferite di un bambino ucciso ed è molto difficile che guarisca il dolore di una madre che ha dimenticato di comperare lo zucchero e manda suo figlio dall’altra parte della strada a chiederlo in prestito; ed è altrettanto difficile che guarisca l’angoscia di un uomo un tempo felice che ora l’ha ucciso.
Perché chi ha ucciso un bambino non va più al mare. Chi ha ucciso un bambino guida lentamente verso casa, in silenzio, e accanto a sé ha una donna muta con una mano fasciata e in tutti i villaggi che attraversano non vedono più un solo uomo felice. Tutte le ombre sono cupe e quando i due si separano sono ancora in silenzio e l’uomo che ha ucciso un bambino capisce che quel silenzio è il suo nemico e che gli ci vorranno anni della sua vita per sconfiggerlo gridando che non è stata colpa sua. Ma sa anche che questa è una menzogna e la notte nei suoi sogni si struggerà di poter avere indietro un unico minuto della sua vita per far sì che quest’unico minuto possa essere diverso.
Ma la vita è così spietata con colui che ha ucciso un bambino che dopo è troppo tardi per qualsiasi cosa.







La tragedia più grande è quella di sopravvivere ai propri figli. Il dolore è tale da avere la sensazione di non riuscire nemmeno a percepirsi. Quando a tratti ci si scopre ancora vivi si vorrebbe annegare nell’oblìo, ma l’esistenza per quanto crudele prosegue. È quanto accade a Anna e al marito che perdono la figlia in un incidente d’auto. La sofferenza non sempre però accomuna, anzi più è straziante più è capace di amplificare qualsiasi distonia e di far sprofondare ognuno nel proprio isolamento, creando distanze e generando fastidi. E poi ci sono i sensi di colpa di Johan, l’uomo che involontariamente ha causato la morte della bambina e che nel vedere il volto terreo di Anna mentre esce dal pronto soccorso sente di dover fare qualcosa per lei. Ma cosa?..

Vittima e carnefice, causa ed effetto della loro stessa (in)felicità.
Semplice e lineare la pellicola di Kaijser da Silva scivola davanti agli occhi, alternando momenti insipidi ad estasi di gusto. La ricetta sta’ nella sceneggiatura imprevedibile e ben strutturata della giovane Pernilla Oljelund. Una storia la sua che può fare la differenza, eppure il regista potrebbe sfruttarla meglio.
Il montaggio troppo serrato, alla continua ricerca di un diverso punto di vista, allontana lo spettatore dall’intimità dei protagonisti. Aleggia un senso di sospeso e irrisolto, inconcludente ma allo stesso tempo affascinante, per uno spettatore che ama ancora lasciarsi emozionare dal cinema.

Patinato e appesantito da un accompagnamento musicale ridondante, Stockolm Ostra è stilisticamente affine all'estetica televisiva: primi o primissimi piani, totale assenza di messa in scena su scale più larghe, un montaggio incoerente ed effettistico, capace di inanellare flou e ralenti totalmente ingiustificati nell'arco di due minuti, per poi rinnovare il dispositivo ogni qualvolta la situazione (critica) lo richieda: flashback di momenti topici (l'incidente), agnizioni inverosimilmente tardive annunciate con sotterfugi visivi da soap opera americana riveduta e corretta in chiave Arty.

martedì 13 novembre 2018

Le mele di Adamo - Anders Thomas Jensen

ci sono momenti esilaranti, altri drammatici, che non permettono di rilassarsi e divertirsi.
sembrava un film comico, invece è un film serissimo e profondo.
bravissimo, come sempre, Mads Mikkelsen.
buona visione - Ismaele



QUI il film completo, in italiano




Il film di Anders Thomas Jensen si muove con passo felpato su un terreno minato e pieno di insidie. Lo fa con grazia e stile, unendo capacità attoriali ad una perfetta gestione dei tempi narrativi, generando una commedia nera che è da seguire col fiato sospeso e il cuore in gola. Non si fa in tempo a ridere di gusto che subito si torna a contorcersi lo stomaco per i disadattati, strambi personaggi alle prese con la tragicità dell’esistenza. Le mele di Adamo è un film che va al di là del bene e del male, frutto – è proprio il caso di dirlo – di un nichilismo che addolora e sfinisce. Non genera risposte, ma domande ossessive alla ricerca di un qualsiasi appiglio che difenda dalla crudeltà del reale. La verità, sussurrata come commiato, lascia intendere che forse un Dio esiste, ma nulla può in un mondo di poveri diavoli.

...il punto interessante è la provocazione che, nonostante il tono apparentemente leggero, è possibile cogliere dal film, che non si riduce alla manicheistica questione se il male provenga da Dio o da Satana (che poi, chissenefrega, sempre male resta, o no?) ma riguarda soprattutto cosa te ne fai tu, uomo, del male che ti capita. Se la circostanza negativa è la gabbia o è la prova o, addirittura, è la possibilità che qualcosa di positivo accada. 
Si può tentare di sopravvivere ignorando la realtà o si può cominciare a guardarla con altri occhi, confidando in una grazia (o in una provvidenza) che si manifesta sempre in modo diverso da come ce lo aspettiamo noi. 

Il regista sembra dire che c'è una componente sovrannaturale (o potremmo dire misteriosa) ma innegabilmente presente nella realtà che potrebbe rendere la realtà stessa diversa, potrebbe trasformarla se soltanto si manifestasse, ma anche quando così non fosse, è in grado di cambiare ugualmente chi ormai l'ha scorta così come al contrario è in grado di scandalizzare chi non è disposto a riconoscerla (il medico insegna).
Perché il nostro sguardo si sofferma insistente sulla cicatrice dell'uomo di fronte a noi? L'essenziale è invisibile agli occhi.

…Nella vita, tutti abbiamo a che fare con il dolore. Perché il dolore nasce dal male e il male è dappertutto intorno a noi. E ognuno di noi cerca di difendersi come può dal dolore. Per esempio, Ivan ha scelto di negare la realtà e di fingere che il mondo sia tutto buono e bello. L'illusione è il suo scudo contro il dolore. Ivan ha scelto così perché la sua vita è stata piena di sofferenze: a un certo punto, non ne ha potuto più e ha inventato di vivere in un mondo perfetto. Adam, invece, ha scelto di reagire al dolore con la ribellione violenta.

Purtroppo, non c'è una difesa efficace contro il dolore. Difendersi dal male negando che esista, come fa Ivan, non funziona. Perché la realtà è più forte di noi e, prima o poi, impone la sua evidenza. E neanche la violenza ci difende dal dolore. Infatti, la scelta di Adam l'ha portato solo alla galera. Cioè ad altro dolore.

Neppure la bontà vince il male. Infatti, porgere l'altra guancia, come fa Ivan, è inutile. Non a caso, Adam dirà a Ivan: "Io sono cattivo e tu non puoi farci niente". Non a caso, i metodi buoni di Ivan sono un fallimento: nessun ospite della sua comunità diventa migliore. Restano tutti cattivi…