martedì 30 aprile 2019

Bice skoro propast sveta (Piove sul mio villaggio) - Aleksandar Petrović

la musica (bellissima) è una protagonista del film. 
il film è ispirato a I Demoni di Dostoevskij, è stato presentato a Cannes nel 1969, è una storia di amori maledetti.

non perdetevi la musica, se vi volete bene - Ismaele






Nella colonna sonora del film serbo intitolato “Biće skoro propast sveta” (letteralmente “La fine del mondo è vicina”, mai uscito in Italia e internazionalmente noto con il titolo inglese “It Rains in My Village”) diretto nel 1968 dal regista yugoslavo Aleksandar "Saša" Petrović (1929-1994). (La trama del film – protagonista Annie Girardot - comunque non c’entra nulla con il “Porrajmos”, l’olocausto zingaro tema della canzone)
Trovo il brano ne “Il Canzoniere Internazionale dei Ribelli - International Songbook Of Revolutionary Songs” edito in Italia nel 1972 per i tipi de I Dischi Dello Zodiaco. E’ interpretato da tal Vasic Zivan Gika, oggi sconosciuto cantante zigano che all’epoca risiedeva in Francia.
Se le prime deportazioni di zingari verso i campi allestiti nella Polonia occupata erano iniziate già nella primavera del 1940, il numero dei prigionieri crebbe enormemente dopo la blitzkrieg tedesca contro il regno di Yugoslavia (6-18 aprile 1941). E infatti le disposizioni per la classificazione dei prigionieri zingari nei campi (i marchi Z e ZM, rispettivamente per gli zingari veri e propri e quelli di sangue misto) vennero diramate da Himmler nell’estate del 1941.
La resistenza partigiana in Yugoslavia cominciò formalmente il 22 giugno 1941, giorno dell’inizio dell’Operazione Barbarossa, l’aggressione nazista all’Unione Sovietica. E molti furono fin da subito gli zingari che entrarono nelle formazioni partigiane, così come racconta questa canzone…





lunedì 29 aprile 2019

The girl chewing gum - John Smith (1976) (con sottotitoli in francese)


Everybody in our family - Radu Jude

un padre separato (Marius) non ce la fa più a non vedere la bambina (Sofia) e decide di fare di testa sua.
tutti sono nemici.
poi arriverà la polizia, naturalmente.
una sceneggiatura perfetta e attori bravissimi, sopratutto Marius e Sofia rendono il film imperdibile.
buona visione - Ismaele





Le film débute comme le banal quotidien d'un couple divorcé dont le père vient chercher sa fille lors de son week-end de garde. Un détour chez ses parents nous annonce déjà la couleur. Le grand-père nous semble sympathique, haut en couleur, pour finalement devenir hystérique, faisant éclater les tensions familiales qui déteindront sur tous les personnages, excepté Sofia, l'enfant, petit être innocent qui va être le témoin impuissant de la folie des adultes. C'est surtout Marius (formidable Serban Pavlu), père désespéré à la limite du borderline, qui va osciller entre amour et haine pour finalement perdre le contrôle de la situation, quand son ex refuse qu'il emmène sa fille à la mer. Le cinéaste fait preuve d'une grande subtilité en laissant au spectateur la liberté de juger, montrant au passage que rien n'est tout noir ou tout blanc, que rien n'est plus difficile ici que de prendre parti…

La réalisation exacerbe en tout point l’hyper-réalisme de l’écriture. La lumière et le son atteste d’une abrupte justesse si bien que seul le découpage semble assoir l’hypothèse fictionnelle. Radu Jude attise la nervosité des protagonistes et met en scène leur exaltation à travers la mobilité du cadre qui apparaît être son regard sur les situations. Curieux paradoxe que cette caméra dont la présence se ressent sans cesse tout en paraissant inexistante pour les comédiens dont la justesse d’interprétation – l’incarnation – est éblouissante. C’est ici que réside le tour de force du réalisateur tant l’ensemble du casting, emporté par Erban Pavlu (Marius) et Sofia Nicolaescu (Sofia), est magistral.

Radu nos presenta de forma objetiva todas las caras de la moneda: la de una madre harta de un marido que no hace nada y le abandona, la de un marido que solo busca desesperadamente poder pasar unas vacaciones con su hija, la de una niña metida en medio de un problema matrimonial y que, pese a su corta edad, parece tener más cabeza que nadie y la de el nuevo marido, que ni pincha ni corta más que para empeorar la situación. Todos los ingredientes para un buen drama que no cae en los sentimentalismos ñoños y trata con crudeza un tema que de por sí ya lo es. Sazonado con diálogos soberbios basados en la mismísima cotidianidad que junto a la cámara en mano destaca el factor documental que no hace más que echar leña al fuego....

Con uno stile asciutto ma personalissimo Jude prende una situazione famigliare piuttosto banale facendola precipitare in una spirale di violenza con una naturalezza che lascia spiazzati e a tratti increduli. Quella che inizialmente sembra essere una semplice introduzione al viaggio di un padre con la figlia finisce per diventare il film, con il protagonista Marius intrappolato dalle contorte dinamiche famigliari post-divorzio e vittima dei suoi madornali e psicotici errori. Quello di Jude è un film che riesce ad inserire momenti di grande violenza all’interno di un’atmosfera mantenuta sempre e comunque leggera, quasi da commedia. Scontato vedere nel protagonista l’immagine di un Paese, la Romania, sull’orlo di un collasso nervoso tra problemi economici e sociali insanabili. E non siamo di fronte a zingari o gente che vive ai margini: quella che vediamo è la middle class in piena crisi…

domenica 28 aprile 2019

Austerlitz - Sergei Loznitsa

Loznitsa mette una camera fissa e guarda.
Guarda i turisti che visitano un campo di concentramento (quello di Sachsenhausen), guarda le facce, i comportamenti, ascolta le voci.
come si visita oggi un campo di concentramento, c'è un modo giusto e uno sbagliato?
buona visione - Ismaele






Un árido golpe a la indiferencia con la que lidiamos la historia reciente basado en una serie de planos estáticos en blanco y negro que registran los movimientos de turistas en un campo de exterminio nazi. El viajero, en su afán por registrar cada recuerdo, parece olvidarse dónde se encuentra, lo que está viendo y lo que allí ha ocurrido. Loznitsa, apostando una mirada limpia y sencilla, la del que observa sin emitir juicio, apenas con una cámara y varios planos, captura momentos reveladores sobre la facilidad con la que desatendemos a la memoria histórica, banalizando monumentos que siguen siendo la representación de una atrocidad que parece que ya no nos afecta. Desde el cuestionable dogmatismo o indiferencia de algunos guías, hasta el momento de un turista imitando la posición de los torturados para la fotografía de familia, pasando por la necesidad acuciante de tomar las fotos en nuestro móvil. La cuestión es registrar nuestras vivencias con el automatismo ciego y veloz del visitante.

La vía más evidente para abordar esta propuesta es la de la visión moral, esa que censura la frívola decisión de visitar un campo de concentración como si de un parque de atracciones se tratara. El documental deja atrás cualquier grosor expositivo y, aunque ponga en entredicho que esta sea la manera más adecuada de visitar los campos de concentración, no enfatiza ninguna de las ideas de fondo que propone, como si aspirara a ser un retrato carente de ideología. No es que dicha frivolidad no se manifieste -es más, está presente en cada plano-, pero Loznitsa prefiere que la reflexión se genere en la mente de cada espectador, como una manera de abrir todavía más el debate acerca de un tema tan espinoso como el que aborda. Una afortunada decisión que evita la tentación de limitarse a indicar lo inmoral que es entrar a una cámara de gas exclusivamente para hacerse un selfie.

Austerlitz è invece un film davvero tosto. Ma è anche implacabile, modernissimo nella descrizione del presente senza Storia. Dove un campo di concentramento è assimilato a un luogo turistico da Lonely Planet. Quasi un parco-divertimenti, una Disneyland sulle macerie della Storia. Attraversato dal passo lento e svogliato, infradito strascicanti, assembramenti collettivi per mangiare prima di spostarsi pigramente da un’altra parte. Forse Loznitsa, quando ha filmato queste immagini, non era consapevole della portata tragica, anzi esplosiva, nel momento in cui le ha messe insieme. Perché questo è uno dei film più tragici sulla Shoah. Dove solo il volto di una ragazza con gli occhiali da sole tondi, che viene filmata a lungo e forse si commuove, può rappresentare una delle rarissime connessioni emotive col passato. E qui ci può essere lo scarto tra quella che può essere l’inquadratura rubata o l’inquadratura ricostruita. Perché forse, anche in questo sospetto esaltante, si muove Austerlitz. È solo documentario. Ma poi ci sono altre immagini che non si vedono. Sono migliaia. Negli scatti e video degli smartphone. Dove però spesso, chi l’ha fatta, si sovrappone e ne diventa protagonista. La nuova estetica del selfie. Con il sorriso ebete sullo sfondo della tragedia e del dolore. Come quella fatta dalla famiglia per ben tre volte sotto la scritta Arbeit macht frei. E magari anche con la suoneria alta che si sente…

…Tutto il film di Loznitsa è centrato sull'atto del guardare, e sulla connessa coscienza di ciò che si guarda. Sta qui forse il rapporto segreto con il romanzo di Sebald. Lì il tema di fondo era il rapporto della coscienza con la memoria e con l'oblio (Sebald rimanda a Proust per stile e temi); nel film il regista documenta nei visitatori - e vuole provocare nello spettatore - il rapporto con qualcosa di visibile e presente (il campo di concentramento oggi), la cui attualità ha lo scopo di conservare la memoria (collettiva) e stimolare la coscienza (individuale).
Dice Loznitsa nelle note di regia: L'idea di fare questo film mi è venuta perché visitando questi luoghi sentivo come se la mia stessa presenza fosse eticamente discutibile e avrei voluto davvero capire, attraverso il volto delle persone, degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d'animo. Ma non nascondo di esserne rimasto, alla fine, abbastanza perplesso. Da cosa scaturisce questa perplessità è facile capirlo: per tutto il corso del film non facciamo che vedere persone che non appaiono turbate né meditabonde né tantomeno sconvolte. Sembrano assolutamente serafiche: visitano un campo di concentramento come visiterebbero un museo, addirittura un parco a tema. Da spettatori, ci chiediamo più volte se Loznitsa intenda con il film formulare un capo d'accusa alla superficialità di sguardo dei turisti, fra i quali beninteso potremmo anche esserci noi. E allora ci mettiamo lì, alla ricerca di qualcuno che appaia più partecipe e coinvolto: e non trovandolo ci sentiamo di ipotizzare, non a torto, che il limite sta nel mezzo. È la mdp ad essere fallace, incapace di cogliere i moti interiori e gli stati d'animo. Nessuno ci autorizza a pensare che, almeno qualcuno, fra questi "turisti", non sia intimamente scosso, e non stia facendo un'esperienza che lo segnerà nel profondo…

Non una parola di commento da parte del regista, niente voce fuori campo, zero interviste. Niente musiche, solo lo scalpiccio incessante della folla e il suo rumore di fondo. Non sappiamo chi siano gli uomini, le donne, i ragazzi, le ragazze che sciamano tra un forno e un luogo di tortura e di impiccagione, ci tocca indovinarlo dalle loro posture, dal body language, dall’abbigliamento, che qui diventa il mezzo principale, la mappa dei segni attraverso cui loro comunicano se stessi e noi possiamo intuire chi loro possano essere. Le uniche parole che sentiamo (peraltro raramente) sono le spieghe date da qualche guida al rispettivo gruppo, utilizzate dal regista per darci indirettamente qualche essenziale informazione. Non diversamente dal Frederick Wiseman di National Gallery il quale, in ottemperanza al suo credo rigorista e antididascalico del mostrare e soltanto mostrare, ha sì piallato via ogni indicazione dei vari quadri esposti al museo – che cosa siano, di quale pittore siano -, salvo reintrodurle surrettiziamente attraverso le dettagliate spiegazioni fornite ai turisti proprio dalle guide. In Austerlitz si sente, in quello scarso parlare, perlopiù lo spagnolo, poi l’inglese. Tedesco zero. Rivelando (forse) quale nazionalità dei visitatori sia prevalente e quale assente, sempre che non si tratti di una selezione operata in fase di montaggio. Ogni guida non solo fornisce informazioni diverse, ma adotta anche strategie comunicative diverse. Con ricorso massiccio allo storytelling. Scarne le informazioni generali, ancor meno vien detto della cornice storica in cui collocare e contestualizzare la stagione nerissima dei campi di sterminio, mentre si abbonda nel racconto di singoli episodi, in narrazioni drammatiche e raccapriccianti, in aneddotica, puntando sulla carica emozionale e mirando più alle viscere del visitatore che alle sue cellule cerebrali. Si scuote, si colpisce, si punta a inorridire, più che a suscitare un approccio razionale e conoscitivo. Ed è questo l’aspetto più allarmante. Il lager diventa, più che un luogo di orrore, un luogo horror, in un’affabulazione non troppo dissimile da una qualsiasi storia di paura, cinematografica o letteraria. Molte recensioni di Austerlitz sottolineano la cifra accusatoria verso il turista-massa, verso il visitatore ottuso e indifferente che tutto divora e appiattisce e consuma nel suo formicolante muoversi da una meta all’altra, accumulando senza distinguerli Disneyland e il campo di sterminio. E grande è stato il disgusto su stampa e web di fronte a questi turisti della camera a gas ciabattanti in infradito, inzainati, indossanti shorts orrendi e ancora più orrende T-shirt con scritte perlopiù sceme. Dissento. Austerlitz non mostrifica la sua folla. Lo sciame umano filmato con sguardo neutro da Loznitsa non sgomenta per la sua sciatteria, la volgarità dei modi o per l’irrispettosità dell’atteggiamento. Se si guarda il film senza pregiudizi, ci si rende conto di come nessuno sghignazzi, si lasci andare a comportamenti scomposti (tranne una cretina che scemeggia facendosi fotografare con una bottiglia in testa). Tutti son seri e abbastanza concentrati, evidentemente una qualche consapevolezza di dove si trovano ce l’hanno. Certo, cedono alla tentazione di farsi un selfie di fronte all’Arbeit Macht Frei dell’ingresso, ma nessuno in quei selfe sorride. Bisogna riconoscerlo. Se poi si ritiene che che il selfie sia in sé colpevole e brutale, allora si deprechi pure. Invece a inquietare davvero è che – questa almeno la mia impressione – pur con tutta la loro buona volontà i turisti dei forni crematori e delle camere a gas non ce la facciano a penetrare minimamente quell’abisso che è stato lo sterminio su scala industriale del nazismo. Come se da quel tempo non solo siano cambiato il mondo e il reale, ma lo stesso apparato mentale per decifrarli. Cresciuti in un Occidente di benessere che ha fatto di tutto per rimuovere il tragico, e anche il connesso senso del sacro, dal proprio orizzonte per cullarsi in una bolla di falsa e vacua positività, non ce la fanno proprio a percepire la dimensione e il senso dello sterminio, né tantomeno come sia potuto accadere. Forse (forse) così si spiegano i tanti sguardi perplessi e smarriti del film. Il turista di Loznitsa (che poi, a una visione più attenta, si rivela non uniforme e composto semmai da più sottotipi) non è da stigmatizzre per le T-shirt che indossa o per gli shorts (ma scusate, se si va noi a far visita a un lager in piena estate, ci vestiamo forse in un altro modo?), ma per la sua totale estraneità a quanto sta vedendo, perfino per il deficit cognitivo che gli impedisce di decodificarlo. Nella visita sembra esserci spazio solo per l’orrore e il brivido, lo stesso orrore che si può provare di fronte a un filmaccio cabin-in-the-wood in 3D o a un videogioco splatter. In questo, e ancora una volta, il cinema di Loznitsa riesce ad essere un cinema profondamente morale.

Austerlitz è un documentario che ci stimola ad acuire il nostro sguardo, ci offre strumenti per continuare a indagare, ricordare, studiare. In “una tranquilla e calda giornata d’estate”, Loznitsa decide di avvicinarsi ed entrare a suo modo in un “luogo in cui esseri umani furono sterminati”, un “luogo della sofferenza e del dolore”.
Non percepiamo mai, esternamente o internamente al campo di concentramento, nelle scelte estetiche e narrative di Austerlitz, la soffocante retorica e spiazzante vacuità delle parole abusate, della “sofferenza” e del “dolore”. Attraverso la mappatura di Loznitsa, anche grazie ai differenti livelli di fruizione dei turisti e dei visitatori e allo svilimento di un rituale di massa, possiamo cercare di recuperare il senso storico e umano di un luogo. In una trentina di quadri fissi dalla durata diseguale, Loznitsa rimette insieme i pezzi significativi di più storie, alte e basse, di un racconto individuale e collettivo: le voci delle guide, i cartelli insistentemente fotografati, le date, i forni crematori, le stanze buie, soffocanti e claustrofobiche, le docce, i panini e le bibite, i luoghi delle torture, le code per entrare, i selfie, le t-shirt fuori luogo, le risate, gli occhi lucidi, i mattoni e le pietre che hanno resistito indifferenti all’orrore e al sangue. Austerlitz è il mezzo per riavvicinare fruizione e Storia, è un giorno della memoria eterno, lucido, con gli occhi lucidi. Austerlitz documenta la moltiplicazione dei punti di osservazione (cellulari, videocamere ecc), e la fretta e superficialità che si allarga a macchia d’olio.
Austerlitz è lo sguardo che si sofferma. Uno sguardo che riesce a restare immobile mentre il tempo scorre e altre decine, centinaia e migliaia di occhi si affrettano e si ammassano sull’immagine successiva, guardando e dimenticando. Nei suoi molteplici piani di lettura, Austerlitz è anche (e a tratti soprattutto) un film sulla sconfitta, sulla implacabile massificazione, sulla morte della Storia. Ma non è mai un film sulla resa…

venerdì 26 aprile 2019

Cafarnao - Caos e miracoli - Nadine Labaki

Zain è un bambino di circa 12 anni e sta in uno dei tanti gironi dell'inferno che qualche miliardo di umani abita tutti i giorni.
Cerca, con difficoltà, di sopravvivere.
è uno sveglio, fugge di casa quando scopre che i genitori hanno venduto la sorellina di 11 anni, che morirà a breve.
si fa carico di Jonas, un bambino di origine etiope, che la mamma affida a Zain.
essere povero, migrante, bambino e femmina insieme è una croce pesantissima, in un mondo dove il potere è dei maschi e dei documenti.
un film per ricordare come va il mondo,
per noi che viviamo sicuri
nelle nostre tiepide case,
noi che troviamo tornando a sera
il cibo caldo e visi amici.


un film da non perdere, non te ne pentirai - Ismaele








Il film è stato anche criticato per il suo stile melodrammatico, un poverty porn che denuncia troppe ingiustizie tutte insieme: bambini senza identità, apolidi che non hanno accesso a nulla, domestiche straniere a cui le loro madame trattengono i documenti di identità. Come mostra il personaggio dell’etiope Rahil, la loro esistenza legale dipende dalla padrona, chiaro esempio di schiavitù moderna.
Questa critica è difficile da accettare davanti alla naturalezza e alla generosità del cast di bambini non professionisti che hanno interpretato loro stessi. Il film usa spesso toni documentaristici e descrizioni così viscerali da impedirci di girare la testa dall’altra parte.
Nadine Labaki aveva appena avuto la sua seconda figlia quando ha cominciato a girare. Come la domestica Rahil nel film, durante le riprese la regista allattava e così è riuscita a trasmettere l’empatia che si avverte in questo momento particolare: “Credo che una donna in questa situazione abbia recettori più attivi, assorbiamo di più, siamo più empatiche, non avrei mai potuto capire un bambino di un anno come Jonas, il bebè del film, se mentre giravamo non avessi avuto una figlia della stessa età”.
La questione generazionale nel mondo arabo è stata dibattuta a lungo durante le primavere arabe. Finalmente si affacciava un mondo giovane – la metà della popolazione araba ha meno di 25 anni – pronto a chiedere democrazia e giustizia.
Dopo il fallimento – almeno per ora – di queste giovani rivoluzioni, il tema è stato abbandonato. Cafarnao, come le recenti proteste globali per il clima o in Algeria, mette in primo piano una nuova generazione in rivolta, formata addirittura da bambini o adolescenti. Ma cosa hanno in comune il dodicenne senza documenti Zein e la svedese Greta? Accusano gli adulti con determinazione.

Commovente come Zain si prenda cura di Yonas, a testimonianza di come questo bimbo ormai agli adulti non creda nemmeno più e di come provi allora a farsi paladino e difensore di tutte le infanzie negate del mondo (la sorella, Yonas).
Quella casa di lamiera ti rimane addosso e la sequenza del ghiaccio e zucchero, l'unico cibo ormai rimasto, è un pugno.
Il film inizia a metter dentro altre cose, come il tema dei rifugiati, come il commercio di esseri umani, come le droghe.
Poi Zain non ce la fa più, dovrà dare un ultimo bacio e Jonas e lasciarlo ad un destino diverso (che Zain pensa migliore).
L'ultima parte è senza dubbio la più emozionante e quella dove tutti i semi messi dalla Labaki nella sceneggiatura danno i propri frutti.
Prima il ritorno a casa e la scoperta di quella terribile notizia sulla sorella (per me - e i motivi ve li ho detti sopra - scena più devastante del film).
Poi il carcere, poi la madre che va a trovare Zain in carcere e gli dice della nuova gravidanza ("mi fai piangere il cuore" le risponde lui, straziante).
E poi la telefonata dalla prigione, quella telefonata che porterà a galla cose terribili che la società forse faceva finta di ignorare.
E poi il momento finale del processo, forse la scena dove viene più fuori l'anima del film, ovvero l'accusa che fa Zain alla propria madre, quell'accusa che quel bimbo fa praticamente a tutti noi adulti, esseri capaci di mettere al mondo altri esseri senza che poi ci interessi amarli o dargli una vita dignitosa.
La macchina da presa va sull'avvocatessa, sulla Labaki, e i suoi occhi lucidi sono forse quegli occhi che l'hanno portata a voler realizzare questo film…

Il titolo si riferisce a un’antica città sul Mare di Galilea, il cui nome è sinonimo di anarchia e il disordine — proprio come l’esistenza di Zain. Il ragazzino viveva con i genitori, Souad (Kawthar Al Haddad) e Selim (Fadi Kamel Youssef) in un appartamento squallidissimo, dove lui e i fratelli venivano regolarmente usati per vendere droga. L’attività si converte alla tratta di esseri umani quando la coppia decide di vendere la sorella undicenne di Zain, (Sahar Cedra Izam), al loro padrone di casa Assadd (Nour el Husseini) per un paio di polli.
Con la videocamera che resta sempre all’altezza degli occhi di Zain, vediamo il ragazzo che si muove disperato per le strade del Libano. In un parco di divertimenti viene rapito da Rahil (Yordanos Shiferaw), una donna delle pulizie etiope senza documenti e una figlia piccola, Yonas (Boluwatife Treasure Bankole), che si prende una cotta per Zain. Quando Rahil scompare, Zain e Yonas sono lasciati a se stessi in un mondo in cui nessun bambino può sopravvivere da solo.
La tristezza di questa storia sarebbe insopportabile senza i flash di umorismo e le performance di un cast di non professionisti strepitosi. Cafarnao soffrirà di una struttura eccessivamente lunga e caotica, ma resta una vera e propria bomba emotiva.
da qui

Grande idea di sceneggiatura: aprire il film con il processo intentato da Zain contro i suoi genitori. Che quando il giudice gli chiede di spiegare di cosa li accusi lui risponde: di avermi messo al mondo (scena diventata subito celebre e commentata). Processo che fa da introduzione all’odissea in flashback di Zain, e da finale. Da Cannes non si è mai smesso di discutere – soprattutto sui magazine più radicali e chic – sulla moralità o immoralità di Capharnaüm, se sia o non sia disonesto sfruttamento a scopo di lacrime e spettacolo, bieco lenocinio, pornografia della sofferenza, cinema cinico del dolore e dei mali del mondo. E allora, viene da dire, Dickens? A me francamente lo sguardo di Nadine Labaki è parso assai rispettoso…

giovedì 25 aprile 2019

Lampa cu caciula (The tube with a hat) - Radu Jude

 

Ples v dezju (Dance In The Rain) - Bostjan Hladnik

Bostjan Hladnik è un regista sloveno, che era stato aiuto di Claude Chabrol.
Peter e Marusa sono due amici/amanti e il film è la storia del loro rapporto.
nel 1961 sloveno questo è un film che non ti aspetti - Ismaele







Dance In The Rain is generally regarded as Slovenia's best film. Shot in 1961 by writer/director Bostjan Hladnik, who worked under Claude Chabrol in the late Fifties, the stylistic links to the French New Wave are evident.
Peter (Miha Baloh) is the dark brooding type. Leading a vacuous, shapeless life, he longs for the ideal woman, while at the same time, half-heartedly continuing with his habitual girlfriend, Marusa (Dusa Pockaj), who is considerably older, a fact that Peter is quick to point out. As an ageing actress, struggling for parts in her local theatre, she oozes insecurity and breathes uncertainty. Together, they spend their time in the local restaurant, smoking, drinking and trading verbal blows. "I bet you'll just end up a drunk," she tells Peter each time. Peter just grins and tells her how old she looks. Compounded by a thankless director who soon shows her the door, Marusa finds her identity being squeezed harder and harder against the wall…

…There is a really interesting scene about theatre/film where Marusa decries the trifling role of directors on being fired and bemoans her condition, as the camera draws up to reveal her a tiny speck in a composition dominated by hanging lights and strewn ladders. Hladnik uses sound in surfeit and designs the narrative so that surreal elements are not clearly demarcated from the designated reality. A clear influence of Godard and Bunuel on a film that deserves closer analysis than I've done here.

Peter, an elementary school art teacher, lives on a drab bed, surrounded by easels, paintings, and cigarette butts. He sometimes shares his space with Maruša, a stage actress who is several years his senior. The two seem eager to one day be rid of one another, and seem just as unable to let one another go. It is around the borders of this sad, charcoal sketch that Dancing in the Rain chews, wending its termite-circles to the center, til it digs deep within the insecurities and longing of its impossibly isolated characters. Each of them is a trench in which a dream of excitement and fulfillment in the city has gone to die. Hladnik’s film, more than a bravado litany of trick and subjective cinematography, more than an eccentric brooder, is an omnivorous autopsy of those dreams, one that double-exposes them with the concrete, with what is remembered, to discern their true shapes…

lunedì 22 aprile 2019

Insyriated – Philippe Van Leeuw

la guerra vista da dentro, in una casa di Damasco, fuori ci sono le bombe e i cecchini, dentro la casa una famiglia che cerca soltanto di sopravvivere.
la guerra passa da essere parola di sei lettere nei cruciverba a una cosa concreta, pericolosa, e senza fine.
chi sta al caldo nella sua casa sicura non capisce le parole, e vedere un film così farà capire meglio le cose, e magari vedere che chi cerca di scappare è gente uguale a noi, e solo per caso non ci siamo noi al loro posto.
un film che merita, non si dimentica facilmente - Ismaele







Un film emotivamente devastante, quello realizzato da Van Leeuw, interamente ambientato all'interno di un appartamento nel corso di 24 ore appena. All'esterno di quella casa impazza la guerra siriana, con le bombe che devastano Damasco giorno e notte, gli aerei che sovrastano i palazzi in ricognizione, i cecchini appostati sui tetti uccidono a sangue freddo chiunque osi uscire in strada e gli sciacalli, immancabili, fanno razzia di gioielli e oggetti di valore stuprando donne e rapendo bambini, poi da rivendere tramite mercato nero…

La guerra in Siria, ma quella vista da dietro le tende sempre chiuse, attraverso le finestre che non si possono mai aprire, attraverso lo sguardo delle donne che combattono in casa quanto gli uomini in città. La guerra in Siria è quella che costringe una famiglia qualsiasi in un giorno qualsiasi a nascondersi nella propria casa e a sperare di vivere anche quando la morte sembra a ogni bombardamento più vicina. Con coraggio e determinazione Oum Yazan (Hiam Abbass) difende il proprio nido, raccogliendo attorno a sé i suoi figli, suo padre anziano, la domestica e i vicini, giovani sposi con un neonato, che invece pianificano la fuga in Libano. Divisa tra partire e restare, la famiglia è costretta ad affrontare giorno per giorno la fame, la paura, l'angoscia nel silenzio di un segreto che non deve essere rivelato, nel timore di scoprire che il mondo non sarà più lo stesso.

Un uomo corre furtivamente attraverso il cortile interno di un condominio; un colpo di fucile esplode da un tetto e l'uomo cade a terra, privo di vita. Una domestica raggiunge immediatamente la propria padrona di casa per raccontarle la scena a cui ha assistito e per capire come agire: la moglie dell'uomo assassinato è la loro vicina di casa, che da qualche giorno si è rifugiata con il figlio nel loro appartamento, in attesa del momento opportuno per fuggire. In quella casa, tra anziani, ragazzini e donne, sono in nove; fuori c'è una guerra terribile e onnipresente. Fuori c'è la morte certa. Il loro è l'ultimo appartamento abitato di tutto il quartiere: una sorta di fortezza che Oum Yazan, la tenace protagonista del sorprendente Insyriated di Philippe Van Leeuw, non vuole abbandonare per nessun motivo.
Nessuno deve sapere della morte dell'uomo: nessun elemento esterno deve poter entrare nella casa poiché anche la più piccola delle crepe, visto l'orrore di cui il mondo al di là delle mura è colmo, rischierebbe di trasformarsi in una voragine irreparabile. Per Oum Yazan l'appartamento rappresenta tutto ciò che le è rimasto; i suoi familiari e gli oggetti di una vita riempiono ogni spazio di quel microcosmo e nulla può farla sentire più al sicuro; attendere che suo marito torni per salvarla è davvero l'unica cosa da fare…

Insyriated induce un qualche sospetto di uso del dramma siriano a fini di spettacolo, quando si accentua la parte melodrammatica, con perfino un tentato stupro. Philippe Van Leeuw fatica a tenere insieme i vari registri, le tonalità così diverse di un film sospeso tra denuncia, noir e family drama. E sospeso, anche, tra un fare cinema più classicamente europeo e certi eccessi fiammeggianti da tradizionale cinema arabo. Il personaggio della giovane moglie del ragazzo cecchinato porta con sé e immette in Insyriated, in contrapposizione alla rigidità ipercontrollata di Oum Yazan, un troppo di sentimento, di fremiti, tremiti e lacrime che viene dal glorioso cinema popolare egiziano o dalle novelas siriane prebelliche. Un turgore cui contribuisce l’interpretazione dell’attrice libanese Diamand Abou Abboud. E a questo punto si rimpiange che il belga Van Leeuw non si sia sfrenato, non abbia mollato gli ormeggi modellando tutto il film secondo gli stili e i codici di quel cinema arabo. Ne sarebbe uscito un Insyriated forse con minore appeal sul pubblico europeo polticamente sensibile, ma di sicuro più interessante, più azzardato.

La forza centripeta della narrazione, che addensa tensioni e conflitti nell’angusto microcosmo delimitato dalle pareti dell’appartamento, si allenta nel finale. Riconosciamo allora, nei pochi, occasionali slanci verso l’esterno – il recupero di Samir, la telefonata a Monzer, lo sguardo intenso di Mohsen Abbas sul quale si chiude il film – i lineamenti della speranza, che come un celebre mito suggerisce è l’ultima dea cui rivolgersi quando non si hanno altre risorse. È dunque dalla speranza in un futuro radioso, migliore, o semplicemente "ordinario", che i personaggi traggono la forza e la capacità di adattamento necessarie per affrontare un presente turbato dall'eccezionalità della guerra. Intenzionalmente estraneo alle polemiche partigiane e scevro da colorazioni politiche, "Insyriated" esplora insomma l’elemento fondante di ogni società civile – la famiglia – allo scopo di indagare il rapporto fra guerra e quotidianità in una prospettiva equilibrata ed empatica, rivolta, come ha dichiarato il regista, "au coeur de l’humain".

Giunto all’opera seconda il direttore della fotografia Phillippe Van Leeuw dimostra di sapere controllare lo spazio scenico e di sapervi muovere le figure che lo attraversano, ma la sorpresa sta altrove: per esempio nella capacità di procedere per sineddoche, facendo del conflitto che si sviluppa tra le donne del nucleo famigliare  il prototipo in scala minore di quello in corso per le strade del paese. Così. alla stregua di quanto è successo nel territorio siriano dove da un giorno all’altro le comunità locali si sono ritrovate una contro l’altra armate, così Insyriated ci mostra come l’alterazione degli equilibri famigliari, l’ansia e la paura riescano a disintegrare il sodalizio delle protagoniste, le quali, sole e indifese contro un nemico invisibile, reagiscono prendendosela con chi gli sta accanto. Aiutate da dialoghi tanto efficaci quanto essenziali a essere determinate per la riuscita del film sono la performance delle attrici, con una menzione particolare per  Hiam Abbass, vera e propria icona del cinema mediorientale (La sposa siriana, L’albero di limoni) e per la new entry Diamand Bou Abboud, già apprezzata ne L’insulto. 

domenica 21 aprile 2019

Avé - Konstantin Bojanov

un'ottima opera prima di Konstantin Bojanov, la storia di Ave e Kamen, entrambi in viaggio, per motivi tristissimi.
Ave è una Zelig, cambia personalità ogni giorno, Kamen la guarda male, poi anche lui farà così.
difficile trovare un ruolo nel mondo, essere e e non essere.
gran film, non perdetelo, se vi capita vicino - Ismaele



Ci sono film che richiedono un grande sforzo intellettivo. E film che ci fanno strizzare e ci tengono appesi a un filo. Ci sono film spogli, aciduli, che mettono a tacere la coscienza e pizzicano il cuore. Avé di Konstantin Bojanov appartiene di certo a questi ultimi. L’intrigo è semplice quanto la sua sceneggiatura: due giovani partono alla ricerca di qualcosa e/o qualcuno. Le loro ricerche si sfiorano, si intrecciano e si confondono prima di tracciare nuovi percorsi. Lungi dal risolvere checchessia, la fine della pellicola propone un nuovo inizio: un nuovo motivo per viaggiare, per cercare e per cercarsi…


L'esordiente Bojnov firma un road movie classico, su un percorso poco noto da noi, sulle strade bulgare poco battute dal cinema che arriva in occidente. Lo schema dei due personaggi che hanno poco o nulla in comune se non una destinazione e che partono da un contrasto è una sicurezza. Il regista sfrutta appieno l'espediente senza perdere però la freschezza dei ragazzi. Lei proviene da famiglia alto borghese, suo padre era diplomatico in India. Sono tornati in patria con l'illusione di risolvere la tossicodipendenza del fratello. Ave è una ragazza in fuga da sè stessa, racconta in continuazione bugie e gioca con le persone che incontra. Come il camionista tedesco che crede di potersi approfittare della giovane o il militare che si arrabbia per un nonnulla. Dal canto suo Kamen è chiuso e taciturno, dice di sè il minimo indispensabile…

La prima parte del film appare subito interessante, è costruito con attenzione il rapporto tra i due ragazzi che prima di svelarsi uno all’altro – lo stesso spettatore deve attendere buona parte del film prima di conoscere il motivo che li ha spinti a viaggiare – instaurano una relazione controversa tra loro che si costruisce sulla contrapposizione tra l’astuzia e la spavalderia dell’affascinante Avè, opposti alla timidezza e alla scarsa intraprendenza di Karmen. La pellicola risulta godibile, sebbene sia scontato l’inevitabile innamoramento finale, la storia riesce ad essere avvincente per il gran numero di imprevisti e complicazioni attraverso cui si dipana.
Nella seconda parte il viaggio intraprende con maggior convinzione la strada del più tipico romanzo di formazione e i due giovani si trovano a confrontarsi per la prima volta con gli ostacoli dell’esistenza, il senso di colpa, la sofferenza e la morte.
E’ in questo momento che Avè e Karmen si stringono più vicini e sentono la necessità di farsi vicendevolmente forza. Questa sezione del film, a differenza della prima, scorre con più difficoltà, le scene di sofferenza a cui i due protagonisti vengono sottoposti sono troppe, sono lunghe, eccessive e a tratti inutilmente strazianti; la storia viene appesantita più di quanto risulterebbe necessario al fine di comunicare il proprio significato…

Bojanov dirige bene gli attori, gioca sul contrasto di caratteri, utilizza una galleria di personaggi che fanno da specchio ai protagonisti (il camionista, il militare irascibile, i familiari del morto). Il film è uno sguardo su un Paese poco visto al cinema, terra di transito, di luoghi dimenticati dove nascono tensioni che il regista è riuscito a catturare. Ne esce un ritratto di giovani inquieti e di una società incerta che non sa dove andare.

sabato 20 aprile 2019

Of horses and man - Benedikt Erlingsson

protagonisti sono i cavalli islandesi, in alcuni episodi legati fra di loro.
gli umani non fanno una bella figura, al loro confronto.
le musiche e le immagini sono bellissimi.
storie dove si ride un po', ma in fondo sono amare.
amore e gelosia non mancano.
un film non per tutti, forse, di sicuro un bel film - Ismaele




Of horses and men si sviluppa attraverso sei racconti provenienti dalla tradizione orale islandese, di matrice sostanzialmente agreste. Il tutto rivisitato e rielaborato dal regista attraverso riferimenti culturali certamente inattesi. «Per questa opera mi sono ispirato a Dario Fo, al suo teatro, alla sua anarchia nella scelta delle storie da raccontare e nel modo di raccontarle. Ma anche al Pasolini del Decameron e di Canterbury Tales. Mi interessava lo schema di più storie differenti unite dallo stesso tema comune, senza attaccamento ai singoli personaggi, in modo da fare un’astrazione della natura umana comprensibile e trasmissibile».
Benedikt Erlingsson ci regala una commedia dark che si rivela lentamente, anche attraverso la sua aura di (apparente) imperturbabilità e impassibilità. Of horses and men racconta, con ironia affilata e a tratti quasi crudele, le gioie della vita tranquilla di una piccola comunità in cui ognuno ficca il naso negli affari di tutti gli altri. «Paradossalmente tanto più ampio è lo spazio che ci separa dall’altro, tanto più ci si incuriosisce, ci si interessa ad esso. Nelle grandi città siamo più numerosi, viviamo vicini ma siamo più isolati: una contraddizione dei nostri tempi»…

…Musiche straordinarie, stile cavalcata teutonica nell’Aleksandr Nevskij, di Davíð Þór Jónsson, panorami mozzafiato e una fusione uomo-cavallo che sarebbe piaciuta a Ovidio, e non solo a lui: si sente il battito animale di Buñuel, l’ardita sessualità no future di Bruno Dumont e pure una genuina tensione antropologica, che affiora dall’esplicita volontà di stile.
Insomma, un film radicale, davvero non per tutti, questo Of Horses and Men, che accoppia – anche letteralmente: cavalla-cavallo-uomo, uomo-donna-cavallo – bipedi e quadrupedi nel destino comune: nelle nostre sale con P.F.A. Films, fatevi questa sgroppata: quando vi ricapita un film centauro?

Al contrario di quel che spesso accade nei cosiddetti film da festival, realizzati appositamente per essere apprezzati nella breve congiuntura di una manifestazione cinefila e dunque pieni di simpatico ma innocuo humour nero, Storie di cavalli e di uomini finge di fare l’occhiolino allo spettatore e di farsi benvolere, si traveste da film “carino”, quando poi d’improvviso fa sprofondare i suoi protagonisti (umani ed equini) in una nera e cupa brutalità, in un primitivismo che vale quasi da saggio di antropologia fortemente autocritico sugli abitanti di un paese tanto isolato quale è l’Islanda. Prova ne sia, di un tale radicale approccio, l’austerità della messa in scena che preferisce i campi lunghi ai primi piani, le sequenze mute a quelle dialogate e una circolarità del racconto che contribuisce a dare il senso dell’inanità dei personaggi. In tal senso, la parola arriva addirittura a far parte dello sfondo e perde il suo valore di logos per diventare suono tra i suoni, verso gutturale simil-animalesco più che sintomo e segno di razionalità…

venerdì 19 aprile 2019

L'uomo che comprò la luna - Paolo Zucca

cinque anni dopo L'arbitro Paolo Zucca riesce a tornare in sala.
in comune col primo film ci sono i protagonisti e la Sardegna, nel primo film in maniera esagerata, qui in modo più meditativo e lirico.
si ride molto, con Jacopo Cullin e Benito Urgu, in una storia satirica e fiabesca.
non tutto si può comprare, la luna per esempio no.
è abitata dalla memoria di un popolo.
buona visione - Ismaele








Il punto debole è una trama che privilegia la gag etnica alla progressione della storia, dando molto spazio allo stereotipo sardo e meno all'intreccio degli eventi. Il punto di forza è la conoscenza approfondita che Zucca e Cucciari hanno della loro terra, che dà loro la libertà di prendersi in giro con disinvoltura senza lasciarsi intimidire da alcun tipo di correctness.
Solo alla fine però ci si renderà davvero conto che il film racconta la riappropriazione di un'identità geografica, proponendosi come un'ode a tutti i sardi che le radici se le tengono strette, così come si tengono stretto il diritto di sognare e quei "fondamentali" che privilegiano lealtà e rispetto

L’Uomo che comprò la Luna si pone come una commedia d’autore, che vuole divertire e intrattenere, ma che non ha timore di toccare le corde del dramma, né di virare verso le atmosfere liriche e fantastiche che appartengono a pieno titolo alla dimensione della favola. Tra eroi, reietti e splendide donne capaci di muovere oceani, il film è ricco (a volte anche troppo), di sequenze ironiche che sfruttano abilmente i modelli tematici di genere per favorire la risata. Il dramma al contrario è costruito attraverso i volti dei personaggi, tutti portatori di una tristezza celata e incolmabile, dettata da errori e rimorsi mai arginati, che dona al film respiro e autenticità. Le sequenze oniriche restano comunque il punto di forza più evidente, visivamente scadenti ma qualitativamente superiori, elevano il racconto con poesia e accuratezza ad una dimensione ultraterrena, ed è così che l’intera vicenda diviene metafora di un utopia di valori e culti arcani, lontani ma intimamente celati in ognuno di noi.

Zucca si muove sulla linea della commedia, terreno difficile e poco praticato dai registi sardi, poco inclini, forse, all’autoironia. Bisogna dire, però, come, anche visti dal di fuori, nei tentativi degli sguardi esterni, italiani o stranieri che siano, i risultati non sono stati fino ad oggi molto brillanti. Il regista oristanese aveva già calcato questo terreno con il film precedente, L’arbitro, mostrando un talento che faceva ben sperare. Il nuovo film non tradisce le aspettative e fa trapelare anche altri livelli di lettura che ne arricchiscono il pedigree. Il film snocciola il rosario dei luoghi comuni sui sardi e gli stereotipi cristallizzati nella testa degli isolani e dei “continentali”: per noi “analitici” identitari fino allo spasimo dell’autoreferenzialità è un invito a nozze. Paolo Zucca si sforza di richiamarli tutti non tanto per impeto saggistico, che pur non nuoce e non manca, ma per farli “stridere insieme” con lo scopo di farci “ridere insieme”, di specchiarci e allontanarci con il distacco che l’autoironia consente e richiede. In questo dilemma irrisolto rimbalziamo tra la balentia virtuale di Badore / Urgu e la vergogna ingenua e opportunistica di Gavino / Cullin. La centratura dello sguardo di Zucca trasforma il film da analisi dei sardi visti attraverso gli stereotipi, ad analisi degli stereotipi visti attraverso la lente bifocale (Badore e Gavino) dei sardi. Il risultato è che il film destruttura l’infogatura identitaria spogliandola della monocultura retroattiva, passatista, originaristica per esporla a quella dell’apertura e della creatività lunare e fantasiosa. Così, anche i grandi della nostra storia – Gramsci, Deledda, Angioy, Lussu, Eleonora d’Arborea, ecc. – sono strappati al sogno e alla polvere dell’antichità e proiettati sulla luna, come se fossero non dietro il nostro cammino, ma dietro l’angolo in fondo alla strada che percorriamo…