mercoledì 29 giugno 2022

Cruising - William Friedkin

un'indagine del poliziotto Burns sotto copertura, deve trovare un serial killer di omosessuali.

e per questo deve fingere di esserlo, e questo lascia forse dei segni nella sua mente.
la fidanzata non lo riconosce più e l'indagine finisce ma forse no, e un assassino di gay continua a minacciare la città.
Al Pacino è sempre bravissimo, convincente e coinvolgente e coinvolto, oltre ogni limite, in un film poliziesco, con la comunità gay protagonista.
film odiato e amato in ugual misura, merita di sicuro.
buona (poco chiara) visione - Ismaele





Friedkin torna a parlare d’omosessualità 10 anni dopo Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970) ed i toni sono effettivamente diversi e più coraggiosi. Una N.Y. così non si era mai vista, una metropoli inquadrata solo dal basso, che sembra un costante crocevia di soli omosessuali e ragazzoni pompati dediti alla pratica del sadomaso e con un particolare gusto per borchie, jeans e pelle: una città fotografata con un particolare filtro di forte cinismo, tanto crudo da sembrare a momenti quasi razzista (quel terrificante Noi siamo ovunque che si accende di rosso tra i graffiti sembra quasi un avvertimento). Al Pacino è il maschio scelto per risolvere il caso, la sua fisionomia ed i suoi colori sono gli stessi delle vittime ma il suo ruolo è quello istituzionale di un poliziotto in una storia vera che nella realtà non ha conosciuto colpevoli (come ricorda il prologo). La sua ambiguità, che si versa nello specchio attraverso il suo sguardo quando sente che la moglie indossa i vestiti che ha usato per il travestimento, è già esplicitamente descritta in quella violenza che una pattuglia di polizia fa ad una coppia di trans, obbligandoli ad una fellatio. Pubs squallidi e luci soffuse, il noir di N.Y. ha lo stesso colore dell’acqua dove è pescato il braccio di una vittima. Friedkin gira con stile e distanza, ma quello che questa volta racconta (sua anche la sceneggiatura tratta dall’omonimo libro di Gerard Walker) è ambiguo quanto l’aria che Burns respira. Unico errore dopo quasi 19 minuti, quando Al Pacino fa ingresso nel locale di ritrovo per gay e sono inquadrate attraverso la sua soggettiva, i volti di quelli che escono: su di loro è proiettata l’ombra della cinepresa. Forse il lavoro più completo del regista sul tema dell’ambiguità, tra violenza e giustizia, tra machismo ed omosessualità.

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Burns cambia pelle, ha uno sguardo introspettivo, ci parla con i gesti e non con le parole. L’unico momento dove si concede uno sfogo è quando si confronta con il capitano Edelson. Burns è stremato e confuso (dopo aver assistito al pestaggio di un sospettato, Skip Lee, in realtà innocente in quanto le impronte digitali non corrispondono con quelle del maniaco) e gli dice apertamente di non poterlo più fare. Crede di non farcela più perché gli stanno succedendo delle cose che nemmeno lui riesce a spiegare. Nonostante le parole, tuttavia, viene convinto a proseguire e spinto a a pensare alla futura promozione.

Burns inizia allora a riconoscersi negli abiti di pelle che indossano gli omosessuali nei ‘Leather Bar’. Il personaggio, attraverso una ‘muta silenziosa’, cambia la propria prospettiva e nel silenzio indossa ciò che all’inizio gli risultava estraneo. Le persone di notte si riconoscono attraverso i luoghi, attraverso gli abiti, attraverso le bandane che si legano alle tasche (ogni colore rispecchia una richiesta, un ruolo preciso). Il protagonista subisce una vera e propria metamorfosi, si lascia trascinare dal caos e corrompere dall’oscurità che ha dentro.

Al Pacino, grazie a una intuizione, riesce infine a scovare il vero assassino, Stuart Richards, uno studente di musica che ha un’ossessione malata per il padre, che in realtà è deceduto da dieci anni. Burns spia il sospettato e lo costringe a un confronto prima sessuale (anche se il rapporto non viene consumato) e poi di lotta fisica. Quindi, Burns riceve la promozione nel corridoio dell’ospedale dove Richards è ricoverato, per poi sparire nell’ascensore.

La vera conclusione di Cruising avviene però con la scoperta dell’uccisione di Ted Bayley. In bagno vediamo il suo cadavere immerso nel sangue, gli occhi spalancati. A primo acchito pare una bambola rotta, ci comunica la vulnerabilità di chi non si aspetta di essere aggredito in modo così barbaro.

Rimaniamo così attoniti, perché questo svolgimento ci dà la conferma di un tumulto emotivo sfociato nella follia. Quando l’agente DiSimone (un grande cameo di Joe Spinell) dice al capitano Edelson che nella porta accanto viveva un certo John Forbes, lo sguardo si rabbuia e ne nasce un dubbio tacito, lo stesso che sorge nello spettatore. Questo perché, in precedenza, il comportamento di Al Pacino era scoppiato spesso in azioni violente (basti pensare a come aggredisce il compagno di Ted, Gregory), ma ci instilla anche il dubbio che il vero assassino non sia davvero stato preso.

Subito dopo vediamo infatti Burns tornare da Nancy, radersi la barba e promettere alla ragazza di raccontarle quello che aveva passato in quelle settimane di assenza. Nancy vede poggiati gli abiti di pelle e li indossa in un gioco innocente, mentre Burns si guarda allo specchio con sguardo nuovo. Non abbiamo assoluta certezza che sia stato lui a uccidere Ted, ma l’omicidio di quest’ultimo trasfigura nella metafora dell’agnello sacrificale, ha un significato atavico. Dopo una grande prova di iniziazione, ucciderlo implicherebbe per Burns uccidere ciò che è venuto a galla dentro di sé.

Quando Cruising uscì nelle sale cinematografiche ci furono inevitabilmente molte proteste, sia del pubblico che della stampa. Durante la produzione del film un gruppo di persone tentò addirittura di boicottare le riprese, facendo cadere un grosso riflettore e disturbando il set. Si creò una vera propria scissione nella comunità gay: da una parte chi protestava con violenza lanciando pietre e oggetti pericolosi durante i ciak; dall’altra chi supportava invece il film, al punto di accettare di parteciparvi come comparsa proprio all’interno dei ‘Leather Bar’.

Molte sequenze nei locali appaiono infatti quasi documentaristiche, ma da parte di William Friedkin non trapela nessun giudizio né morale né immorale su quanto filmato, niente è ‘giusto’ o ‘sbagliato’ in quello che succede in quei luoghi.

Gli attori di contorno non sembrano recitare una parte, ma restituiscono piuttosto la percezione di abitare i personaggi. Trascinano il loro modo di vivere a seconda del contesto ‘reale’ in atto. L’emotività che trapela è umana. Il ritmo lento di Cruising è coerente con lo sviluppo interiore. Raramente siamo certi di ciò che pensano queste maschere, i loro atteggiamenti sono ambigui e spaventati. Burns manipola Forbs, o è Forbs a manipolare Burns? Chi è lui realmente?

Lo sguardo finale allo specchio ci pone quindi di fronte un dilemma: quando guardiamo qualcuno che crediamo di conoscere, sappiamo davvero chi abbiamo davanti? Forse la risposta risiede nelle morti continue che infliggiamo dentro di noi. Forse siamo destinati a un loop infinito, dove la condanna è non raggiungere mai la nostra forma finale.

Nel classico ‘viaggio dell’eroe’, il protagonista è costretto a lasciare il mondo che conosce per inoltrarsi in un altro, sconosciuto. E dopo aver affrontato diverse (dis)avventure ritorna al mondo a lui caro con una consapevolezza diversa. Ecco, Forbs ha affrontato il lupo cattivo e – forse – dopo averlo sconfitto ne ha preso il posto.

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la pellicola procede lenta, innestata su un ritmo tipico quasi da film francese, in cui conta di più l’introspezione sui personaggi che la trama. Ed così è anche per Cruising: che parte come thriller ma che si perde poi, volutamente, sull’indagine psicologica nei confronti del protagonista.  A discapito di una sceneggiatura scarna e dei dialoghi essenziali, è attraverso il linguaggio non verbale che lo spettatore può cogliere gli aspetti determinanti dell'evoluzione narrativa: l'ambiguità morale e il conflitto dell'identità sessuale. È un film insomma giocato soprattutto sugli sguardi, sulle situazioni, sulla descrizione dei contesti, che sui dialoghi veri e propri. Questo se apparentemente appiattisce il film, in realtà riesce a imprimere alla pellicola un’aurea di sottile mistero e ambiguità che ricalca il mondo interiore del protagonista. Indubbiamente Al Pacino strepitoso, in un’interpretazione quasi remissiva, ma perfettamente centrata. Eppure l’attore non ama ricordare la partecipazione a questo film, probabilmente per le polemiche enormi che sono scaturite dalla pellicola stessa. D’accordo che siamo negli anni ’80 e certe tematiche erano tabù, ma alla fine dei conti Cruising non si dimostra così scabroso da giustificare l’ondata di sdegno e polemica che ne seguì. Il mondo omossessuale non viene giudicato nè condannato, ma solo ritratto, in un suo aspetto, per ciò che realmente è. Sicuramente un’opera coraggiosa e controcorrente, come gran parte della filmografia di Friedkin, il quale ama giocare sull'ambiguità, in questo caso calandosi nell'ambiente gay, ma senza pronunciarsi in merito, come di sua consuetudine: una scelta che all'epoca venne decisamente fraintesa, suscitando critiche negative e accuse di razzismo che oggi appaiono alquanto ingiustificate Poco esplicito, forse volutamente, il film mantiene alcune zone d'ombra anche dopo la fine. Bellissima anche la descrizione di una New York sporca e sordida da far rabbrividire, alla stregua della New York magnificamente descritta da Scorsese in Taxi Driver.

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Come è noto il film ha dovuto affrontare diverse critiche negative da parte della comunità omosessuale dell’epoca che imputava a Friedkin la colpa di aver creato una rappresentazione predatoria e vampiresca dell’omosessualità, oltre che di aver abbinato con un certo bigottismo il sesso gay con la violenza e l’omicidio. Nel tempo, fortunatamente, in un processo di rivalutazione complessivo stracultista, il film è stato rivalutato proprio perchè attribuisce un ritratto anticonformista alla suddetta comunità, che spesso desidera vedersi rappresentata in modo sempre apprezzabile o, in qualche modo, likeable. Come anticipato in apertura, non va comunque dimenticato che Cruising è in prima battuta un film poliziesco (peraltro liberamente ispirato a un romanzo di Gerald Walker), che affronta un importante discorso psicanalitico, se vogliamo, ma che nel suo sguardo verso il sociale tende più ad essere avverso alle forze dell’ordine e alle metodologie di indagine di una categoria di pubblici ufficiali che probabilmente sono i veri volti moralmente corrotti del film.

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There is a large, loud question right at the center of “Cruising,” and because the movie lacks the courage to answer it, what could have been a powerful film dissipates its force and leaves us feeling merely confused and annoyed. The question is: How does the hero of this film, an undercover New York policeman, ultimately really feel about the world of homosexual sadomasochistic sex he is assigned to infiltrate?

Is he touched by the sexual underground in an important way? Is his own sexuality involved? Is he intrigued by the aura of violence? The movie won’t say. And its failure to commit itself would be less annoying if it weren’t for the fact that the whole thrust of the movie is toward setting up those questions –which the ending then leaves deliberately and confusingly unanswered…

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martedì 28 giugno 2022

Night and the City (I trafficanti della notte) – Jules Dassin

il protagonista Richard Widmark, nel suo ruolo di imbroglione che fa il passo più lungo della gamba, è perfetto, e gli altri attori non sono da meno.

il film corre a 100 all'ora senza prendere fiato, una corsa eccezionale, un ritmo gestito alla grande da un maestro come Jules Dassin, con una fotografia strepitosa.

chi trova qualcosa fuori posto lo dica, o si taccia per sempre:)

buona (indimenticabile) visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo, in italiano

 

 

…Londra è protagonista del film tanto quanto il personaggio principale e, fotografata meravigliosamente dal tedesco Mutz Greenbaum (che qui si firma come Max Greene), sembra quasi irreale, per una volta non ricostruita negli studi di Hollywood.
Dassin filma con ritmo sostenuto e inietta nella storia robuste dosi di ironia.
Night and the City è un noir perfetto, in cui le donne sono bellissime e non hanno mai un capello fuori posto, dove i cattivi hanno la faccia da cattivi e i buoni da buoni e la sua visione su grande schermo (3) rappresenta un’occasione rara e foriera di enorme piacere…

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Assolutamente straordinario, come sempre, il grandioso Richard Widmark, alle prese con un personaggio ambiguo e perdente, ma sono ottimi anche tutti gli altri interpreti.
Fra le varie scene d'antologia c'è quella del terribile combattimento tra Gregorius e Strangler, violentissimo e che non si dimentica, la tesissima parte finale, con la vana fuga di Widmark per i bassifondi della città, quindi la spiazzante fine di quest'ultimo, prima ucciso e poi gettato nel  fiume Tamigi.
In definitiva si tratta di un capolavoro assoluto, un film eccelso che è stato spesso scandalosamente sottovalutato e che merita assolutamente di essere apprezzato e riscoperto.

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Strepitoso noir girato per le vie di Londra con un Widmark strepitoso. Ruolo veramente fisico il suo e per quasi tutto il film va di corsa ed è frenetico. Come frenetica è la sua rincorsa al successo e ad diventare qualcuno in un ambiente pieno di balordi. Tutti gli personaggi sono ben delineati e descritti è il ritmo è mozzafiato. Spettacolare.

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Noir d'autore che sfiora le cinque stelle per la grande armonia di fondo ed il modo in cui le storie si concatenano e chiudono in un prevedibile ma sontuoso finale, sporcato probabilmente da una sceneggiatura che mostra alcune pecche evidenti. Far filare tutte le vicende in modo da creare l'intarsio perfetto è roba che riusciva a pochi eletti ma qui ci sono comunque tutti gli ingredienti per individuare un pezzo di bravura del genere, su tutto il bravo Widmark e l'incantevole Gene Tierney. Consigliato sicuramente agli amanti del noir.

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Opera maestra realizzata da Jules Dassin, uno dei padri del genere noir qui in trasferta europea forzata a causa della caccia alle streghe del senatore McCarthy a Hollywood. Narra la leggenda che il produttore Darryl Zanuck consigliò a Dassin di girare a Londra le scene più care, così da poter poi forzare la mano alla 20th Century Fox e completare il film nonostante la blacklist. Eccellente la sceneggiatura e non meno fortunata l'interpretazione da parte di Richard Widmark, 'cattivo' senza scrupoli che finisce vittima della propria ambizione e dei 'cattivi' più grandi di lui. Grandioso il finale, da vero manuale del noir.

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lunedì 27 giugno 2022

Una pazza giornata di vacanza – John Hughes

l'anno dopo Breakfast club un altro capolavoro di John Hughes.

è solo un giorno di vacanza da scuola, ma nelle mani di John Hughes e dei suoi ispirati attori diventa una bomba di geniale comicità.

cercatelo, nessuno resterà deluso, promesso.

buona visione di un giorno di vacanza da scuola, che avete fatto o avreste voluto fare - Ismaele


QUI si può vedere, in italiano

 

 

 

 

 

Here is one of the most innocent movies in a long time, a sweet, warm-hearted comedy about a teenager who skips school so he can help his best friend win some self-respect. The therapy he has in mind includes a day's visit to Chicago, and after we've seen the Sears Tower, the Art Institute, the Board of Trade, a parade down Dearborn Street, architectural landmarks, a Gold Coast lunch and a game at Wrigley Field, we have to concede that the city and state film offices have done their jobs: If "Ferris Bueller's Day Off" fails on every other level, at least it works as a travelogue…

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Hughes vuelve a señalar a los adultos como los grandes responsables de que vivamos en un mundo tan gris; de que hayan olvidado tan fácilmente su adolescencia; de no molestarse en comprender a esas nuevas generaciones que solo buscan un poco de atención. El director americano los ridiculiza a través de varios personajes: los padres de Ferrys, que deciden creerse la dudosa y repentina enfermedad de su hijo; y el director del colegio -interpretado por un magistral y divertidísimo Jeffrey Jones-, al que se lo hace pasar muy mal en algunas de las secuencias mas logradas del film.

John Hughes, ¿Un director que se quedó anclado en una edad mental de 18 años, o uno de los pocos adultos que supo comprender a la juventud americana de los 80? Para mi, un autentico visionario. ¿A quién no le gustaría hacer «Todo en un Día»?.

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…Prima di Una pazza giornata di vacanza non è mai esistito un altro Ferris Bueller, dopo chiunque vorrà assomigliare a lui, senza riuscirci. Hughes crea dal nulla un ragazzo che nessuno aveva mai pensato potesse esistere, un adolescente dandy, saccente e un po’ citazionista che è il prototipo di un’America metà liberista metà liberale, in una fase di opulenza inevitabilmente passeggera.

Proprio queste qualità giustificano il superamento della quarta parete, con Ferris che si rivolge direttamente alla camera, e dunque al pubblico in sala. Quello che può apparire un vezzo o un escamotage è il modo in cui Hughes riesce a fare incontrare la screwball comedy (di cui in parte il film è un aggiornamento) con gli stilemi della nouvelle vague. È un Godard giovanile cantato da John Lennon, Una pazza giornata di vacanza: la fuga senza senso né destinazione per la città è una versione scanzonata di Fino all’ultimo respiro, e la visita all’Art Institute of Chicago rimanda alla mente la folle corsa nel bel mezzo del Louvre dei tre protagonisti di Band à part. Tre anche loro, due ragazzi e una ragazza come il triangolo scaleno Ferris/Sloane/Cameron. In un crescendo di trovate che trova il suo punto di non ritorno nella magniloquenza del Von Steuben Day e della parata come sempre vampirizzata da Ferris, Hughes firma un poemetto amoroso verso Chicago, lo spirito della sua popolazione, l’architettura, la modernità che sposa l’antico senza annientarlo. Un film che va di fretta (perché, come educa i suoi spettatori Ferris “Life moves pretty fast. If you don’t stop and look around once in a while, you could miss it”) ma che è impossibile scacciare dalla mente. Così ci si ritrova a fissare i titoli di coda che scorrono sullo schermo, fino a quando non è lo stesso Ferris a sbucare di nuovo fuori per mandare via il pubblico. “A casa”, è l’ultima sentenza.

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Un soggetto semplice semplice che, nelle sapienti mani di Hughes, si trasforma in un’esplosiva giostra di situazioni che frutterà al tempo ben settanta milioni di dollari d’incasso. Complice la fotografia solare di Tak Fujimoto, una sceneggiatura colma di trovate geniali (scritta dal regista in una settimana), il montaggio ad orologeria di Paul Hirsch (collaboratore storico di De Palma) ed una soundtrack che vanta hit del calibro di Twist and shout e Oh Yeah degli Yello, si definisce quello che può essere riconosciuto come uno dei titoli cult della propria decade. Senza dimenticare che il film segna la definitiva consacrazione artistica di Matthew Broderick, all’epoca appena ventiquattrenne e già catapultato nel nuovo showbiz hollywoodiano. Una pellicola che talvolta sfiora vette surreali impressionanti, che nasconde dietro una facciata ludica e fancazzista uno spirito assai più complesso, come nei momenti dedicati all’incomprensibile divario che allontana le istituzioni dai ragazzi e la vita dei padri da quelle dei propri figli.
In definitiva un’esperienza cinematografica consigliata a tutti, attuale e moderna, che come in tutte le opere di Hughes evita sapientemente volgarità gratuite e cadute di stile…

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…Una delle potenziali trappole nella quale poteva scivolare Una pazza di giornata di vacanza era invece quella di rendere il personaggio di Ferris troppo “vincente” e quindi un poco antipatico non solo agli occhi dell’invidiosa, almeno sino ad un certo punto, sorellina Jeanie. Invece nella finzione Ferris cresce grazie anche al rapporto con il suo amico Cameron (bravissimo nel ruolo il quasi inedito Alan Ruck), che rappresenta il suo esatto opposto: insicuro, perdente in partenza, timido ed impacciato con le ragazze nonché afflitto da serissimi problemi di rapporti in ambito familiare, principalmente con il padre. E, di certo ancora una volta non casualmente, è a lui che Hughes dedica i momenti più intensi della pellicola: il lungo sguardo alla ricerca di qualcosa che sfugge (o è irrimediabilmente fuggito…) nel dipinto di Georges Seurat La Grande-Jatte al The Art Institute di Chicago oppure il monologo finale – che segna la sua uscita di scena – a distruzione più o meno involontaria della Ferrari del padre avvenuta. Magari qualche fan della casa di Maranello l’avrà presa male, però assistere alla riaffermazione di quelli che dovrebbero essere gli autentici valori affettivi a scapito della sublimazione dell’effimero e della venerazione del lusso, è una sottolineatura – tutt’altro che didascalica nel film – che dovremo tenere sempre ben presente, a maggior ragione nella desolante Italia contemporanea.
Il consiglio, al tirar delle somme, è quello di vedere o rivedere periodicamente Ferris Bueller’s Day Off anche solo per godere degli ininterrotti momenti di culto ivi contenuti (dimenticavamo, c’è anche – oltre ad una declinazione pressoché completa di tutti i sottogeneri della commedia, dalla slapstick a quella sofisticata –  una deliziosa parentesi squisitamente musical).  Ma soprattutto di farlo scoprire alle nuove generazioni; perché è uno dei pochissimi film mai realizzati capaci di farvi slogare la mascella dalle risate e contemporaneamente aprirvi davvero la mente a nuove prospettive e orizzonti. Una cosa che solo a pochi, pochissimi autori nel mondo del cinema è compiutamente riuscita. E John Hughes è tra loro.

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Scatenata e imprevedibile teen-comedy diretta da uno specialista del genere,priva di mielosità e scurrilità,e dotata di un ritmo agilissimo,che si mantiene intatto per tutta la durata del film.Ricco di trovate surreali,offre uno spaccato della gioventù degli anni 80 inverosimile,ma la carica del film risiede nell'amplificare gli effetti comici dell'improbabilità di certe sequenze,ed è quindi da questo punto di vista che il pubblico dei teenager sarà soddisfatto nell'assistere alle disavventure dei tre protagonisti,immedesimandosi volentieri nei loro personaggi.Tutti perfetti gli attori,con una menzione speciale per Broderick e Jennifer Grey,la sorella invidiosa che alla fine si coalizzerà con il travolgente fratello.Indimenticabile la gag-tormentone sulle conoscenze che Ferris riesce ad avere dappertutto.Piccola e gustosissima parte per Charlie Sheen.Attenti ai titoli di coda.

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domenica 26 giugno 2022

Sui marciapiedi – Otto Preminger

anche oggi al cinema il film di Otto Preminger farebbe la sua bella figura.

è una storia dannata, nella quale passato e futuro sono importanti, e motori dei comportamenti umani anche nel presente.

una storia di deliquenti e poliziotti, e amore, con Dana Andrews e Gene Tierney straordinari attori.

cercatelo e godetene tutti - Ismaele



Qui si può vedere, in italiano


 

 

Prima di ogni altra cosa Sui marciapiedi è uno splendido puzzle morale, in cui i personaggi (Dixon più di tutti) sono costantemente sottoposti a scelte problematiche. A fungere da braccio narrativo principale è rintracciabile la questione della “giusta giustizia” e di quanto si possa forzare la realtà per assicurare un accertato criminale a una congrua pena. In tal senso Dixon, secondo un intelligente paradosso, infrange la legge per cercare di farla rispettare. Tuttavia il risentimento “sociale” di Dixon nei confronti di Scalise si traduce in riflessione puramente noir su destino ed ereditarietà nel momento in cui si scopre che il padre di Dixon è stato un criminale, e Scalise uno dei suoi allievi migliori. Così il sergente Dixon, splendidamente incarnato da Dana Andrews, amplia a dismisura la propria portata psicologica, dando luogo a un ritratto decisamente inconsueto all’interno del codice noir per pregnanza e profondità. Tramite una vicenda di abituale disillusione e pessimismo, Preminger assume a protagonista una figura estremamente prismatica che assomma oscuri destini a determinismo zoliano. Sta nella sua discendenza familiare, nella tara paterna il tormento del sergente, che da un lato spiega le sue maniere violente coi criminali, dall’altro dà rilievo tragico e disperato al tentativo di redimersi con la cattura del “fratellastro” Scalise. In sostanza, sotto il canovaccio di un noir Sui marciapiedi evoca scenari da tragedia universale dai risvolti psichici e nevrotici…

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Noir tragicamente evocativo, i cui chiaroscuri sono perfettamente resi dalla figura del protagonista, sempre in bilico tra il suo lato oscuro e quello buono. Gene Tierney è di una bellezza quasi inumana, il suo personaggio è meno elaborato psicologicamente ma malgrado ciò riesce a trasmettere un certo spessore umano. La storia non è straordinaria, la differenza non la fa il racconto ma il modo in cui viene tratteggiato, percorrendo paesaggi urbani e sub-urbani alla ricerca di una soluzione che passa attraverso l'espiazione del protagonista, oppresso da un senso di colpa e da un passato ingombrante. Otto Preminger è un mostro sacro del cinema e questa pellicola ne è una fulgida dimostrazione. Consigliatissima agli amanti del noir.

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Noir glaciale, soffocante, in cui la regia attenta e pulita di Preminger scava nell’interiorità dei personaggi. Ricognizione cupa di un sottobosco criminale fra giustizia, nefandezza e redenzione; scontro tra passato (difficile da superare) e presente (che è l’”attimo”, lo squallido egoismo di una colpa negata) miscelato con uno sguardo pessimista in cui anche il corpo di polizia (alienato, nella vorace ricerca di una colpevolezza) rivela le sembianze della perdizione. Andrews eccellente, Tierney sempre affascinante. Davvero notevole!

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Preminger infonde al film una percepibile durezza d'insieme; quest'ultima viene esaltata da un’estetica sporca, composta da appartamenti squallidi, ristoranti fatiscenti e luoghi angusti. Un miscuglio seducente di inchiostri corvini e gradazioni cineree perviene a illustrare una cosmesi ammaliante. Non vengono però tralasciate nemmeno le abituali nuance tipiche del noir, tra cui ombre profonde che pervadono gli angoli brumosi degli interni, un'illuminazione consunta, la quale rende acuminato il contrasto con l’oggettistica dei fondali (evidenziandone gli elementi apparentemente irrilevanti), e, naturalmente, un uso parsimonioso, minimale, del sonoro. La rappresentazione è avvincente, selvaggia, avernale. I primi piani, nel frattempo, delineano icasticamente l’indole perniciosa, bipolare ed imperscrutabile del Dixon di Andrews; la recitazione esibita spesso in sottrazione alterna una moltitudine di caliginose sfaccettature espressive (non scevre di una consistente enigmaticità) suffragate dal volto ruvido ed aggrottato di un antieroe dalla dubbia rettitudine e dallo charme tenebroso. Ad amplificarne un profilo così travagliato e mentalmente sopraffatto dallo stress venne “in aiuto” il vizio dell’alcool che Andrews aveva maturato in quegli anni: il ritratto corrucciato, incattivito altresì da complessi edipici e un passato familiare controverso, ne fu direttamente influenzato, condizionando inoltre l’alchimia con la Tierney. La donna incarnata dall'attraente attrice è capace di suscitare in Dixon una serie di palpitazioni affettive più soavi, mettendone pure alla ribalta un atteggiamento “malleabile”; quest’aspetto, che sembra superficiale, riesce a conferire al torbido e insensibile piedipiatti quell’umanità che aveva lentamente dissipato con una condotta sempre più nefanda e lontana dall’etica e dalla ragione. Il romanticismo, accorto nella manifestazione e mai invadente, non frenerà comunque quell’afflusso di rabbia e sarcasmo che culminerà con una ieratica catarsi finale, fra momenti al fulmicotone (le scazzottate sono veramente realistiche!) ed encomiabili parentesi introspettive…

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“Sidewalk” is a fascinating brutish and dark film noir that is set in the corrupt milieu of the underworld, where the hero is so alienated that he hardly seems human. He’s constantly boiling over with anger, and even though he lost his mental stability, professional integrity, and moral compass he’s still considered a good cop who only has to calm down a bit. Preminger only flirts with telling a social-conscience drama about a debased society, instead he keeps the thriller riding on Dixon’s shoulders as a personal thing about a man with an Oedipal complex who is becoming unraveled but still has the power of the law on his side and a sense of unexpected decency.

Dana Andrews gives an outstanding performance, as his complicated character is revealed through his spells of violence and the anguish that still haunts him and in his noble gesture to reveal at last the truth rather than live a life of lies. Andrews is trapped by circumstances but is transformed through his external actions that can be read in the archetypical noir hero’s emotional facial expressions before he acts them out.

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venerdì 24 giugno 2022

Terzo grado (Q & A) – Sidney Lumet

Nick Nolte è un perfetto poliziotto assassino, modello per tutti e impunito.

fino a che un giovane procuratore comincia a volerci vedere chiaro.

la solita storia di corruzione e violenza, è un film poco amato dalla Commissione nazionale valutazione film della CEI (qui), ma Sidney Lumet mette i suoi assi e il film, per quanto non sia un capolavoro, ha diverse cose buone.

a me è piaciuto molto un personaggio non di primo piano, Bloomy, mentore del procuratore Reilly, che gli offre le coordinate per muoversi al meglio, ma alla fine non ci si può che arrendere, il Sistema è troppo potente.

buona (idealistica) visione - Ismaele




QUI il film completo in italiano

 

 

Il tenente della polizia Brennan uccide deliberatamente un portoricano, sostenendo di aver agito per legittima difesa. Nessuno mette in dubbio la sua versione: è notoriamente un violento ma anche uno dei migliori poliziotti di New York. Incaricato del caso, il procuratore Reilly scopre una storia di corruzione che coinvolge i vertici della polizia. Scritto da Lumet dal romanzo di Edwain Torres. Dopo Serpico (1973) e Il principe della città (1981) è un altro suo film sul tema del marcio della polizia che, però, secondo le sue idee, corrisponde alla corruzione totale di una società e alla colpevolezza personale di ogni individuo perché questa è la natura dell'uomo. Pur affidato all'abituale stile verboso di Lumet, ha un pregio indiscutibile: il personaggio di Nolte, razzista e paranoico, odioso e seducente, uno degli sbirri più significativi nel panorama del cinema USA alla fine del '900.

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Commissione nazionale valutazione film della CEI

un groviglio incredibile, in cui c'è tutto quello che è possibile immaginare: efferatezza, violenza ricatti oscuri, compromessi ignobili, corruzione inquinante e diffusa e razzismo. Sidney Lumet è di quei registi cui si attribuisce un forte impegno civile: egli denuncia crudezze e delitti, non risparmiando nessuno, quale che ne sia il colore della pelle. L'intreccio va avanti a ritmi robusti e con tinte più forti ancora; il ginepraio è se mai un labirinto, ma non vi è traccia nè di vuoti narrativi, nè di scuciture, mentre i fatti rispondono ad una concatenazione sempre lucida. Patetica la faccenda dell'amore giovanile del procuratore Reilly e sicuramente un po' appiattito e scialbo il suo personaggio, a fronte di quello del tenente Brennan, un energumeno in divisa, abituato a seppellire i testimoni scomodi o reticenti, allucinato nel suo delirio di far piazza pulita nei ranghi della feccia metropolitana. Il linguaggio è lurido, martellante e triviale: ciò che è intollerabile è l'impiego insistito di intere frasi, sempre sofisticatissime (e dunque deliberatamente volute) le quali, a parte ogni altra considerazione, escono da bocche di gente del tutto incapace di pensarle, tanto risultano arzigogolate. Il doppiaggio in italiano ne raddoppia ovviamente l'impatto e l'alluvione dilagante rende più abbietto anche ciò che si vede.

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Vice procuratore distrettuale al primo incarico deve condurre l'inchiesta sull'omicidio di un malavitoso da parte di un tenente dai metodi brutali ma molto stimato dai colleghi... Lumet torna sui temi della giustizia e della corruzione all'interno della polizia che era già stata al centro di opere famose come Serpico e Il Principe della città con un plot complesso, con molti personaggi in campo, dall'inizio asciutto e dall'epilogo fra il tragico e l'amaro, ben interpretato da tutto il cast. Peccato per il sotto-intrigo sentimentale, assai poco convincente, che indebolisce l'impatto.

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Il titolo originale (in italiano: "Domanda & risposta") lascia intendere il taglio che Lumet vuole dare alla sua opera la quale, in effetti, può avvalersi di una sceneggiatura tesa e robusta e di tematiche (legge, corruzione, razzismo, omosessualità) che fin dal suo debutto (La parola ai giurati) hanno sempre contraddistinto il regista di Philadelphia. Il film comincia col piglio giusto per poi lasciare il passo a qualche verbosità di troppo, quasi sempre relativa alla love-story del protagonista, fino al serrato e violento finale. Nolte vero e proprio babau.

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Tratto da un romanzo scritto da un ex giudice della corte suprema, è una storia che ruota intorno all’inchiesta sull’uccisione di uno spacciatore da parte di un poliziotto newyorchese. Come sempre nei film di Sidney Lumet la spettacolarità e l’interesse per le storie raccontate si sposano alla causa dell’impegno civile. Ne deriva un film che intriga e fa riflettere (sulle brutalità del potere esecutivo) sorretto da ottime interpretazioni del cast.

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giovedì 23 giugno 2022

Simone – Andrew Niccol

Andrew Niccol è fissato con le cose che sembrano e le cose che sono, con i deus ex machina che creano quello che non esiste, ma l'atto della creazione lo fa esistere.

e tutti ci credono, così va il mondo (e va molto male).

Al Pacino è bravissimo, come lui sa esserlo, e la storia ogni giorno che passa è sempre più verosomile.

non è un capolavoro, ma un buon film sì.

buona (iconica) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

Victor Karanski (Pacino) è un regista di Hollywood che da anni passa da un fiasco all'altro. Il film che sta per terminare è compromesso dai capricci della diva che abbandona il set. Nessuna stella vuol lavorare con Victor che allora, grazie all'invenzione di un mattoide geniale e morente, riesce con un certo programma, a riprodurre virtualmente Simone, dalla strepitosa bellezza. L "attrice" ha un successo abnorme, alla Greta Garbo, il mondo impazzisce per lei, che non si mostra mai in pubblico. Victor riesce a farla apparire in televisione, a farla cantare in uno stadio, ma nessuno la vedrà mai, naturalmente, dal vivo. Il regista è stato abbandonato dalla moglie che si scopre gelosa di Simone. Il "privato" è omai troppo connesso col virtuale, e Victor viene accusato della morte di Simone, introvabile, appunto. Alla fine tutto si accomoda, la famiglia si ricompone e Simone riprende a "vivere". Patinata, intelligente, ennesima metafora intorno al trucco dei media e del cinema. Il tema è fin troppo conosciuto ma l'idea della diva tridimensionale composta dai pixel è suggestiva. E non è detto poi che, in un tempo come il nostro, sia davvero legittimo dire che è "solo" virtuale, che non esiste. Simone "esiste".

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se i protagonisti delle altre visioni private di Niccol vagano in cerca di un punto di fuga, di una breccia fra le pareti di strutture virtuali, S1møne è rinchiusa definitivamente nel suo involucro irreale, fedele e sinergica duplicazione del suo creatore, macchina di sogni e desideri di plastica pronta a regolare il mercato delle emozioni dell’inconscio collettivo. Ormai ogni produzione di soggettività è solo espressione di un conatus di pura virtualità e anche Hollywood, forse l’arma più potente che l’America ha avuto per ridisegnare il nostro presente e passato, è solo uno strumento per celebrare ed amplificare l’estetica del falso, un luogo di corpi e membra che Niccol/Taransky si diverte a “riscrivere” e manipolare in quell’unico ologramma filmico che è lo spettro pulsante di S1møne.

Sempre ispirato, seppur indirettamente, dalle pagine di Philip K. Dick – non a caso autore di un libro intitolato I simulacri, forse lo scrittore che più di ogni altro ha influenzato la poetica di Niccol,- e vicino all’idea di cinema come grande illusione e perdita d’identità cara all’Orson Welles di F for Fake e Rapporto confidenziale, il regista di S1møne si conferma grande romanziere di forme filmiche, testimone di una cinema che ha ben compreso che leggere politicamente il nostro tempo è solo questione di corpi, desideri e vuoti simulacri.

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S1m0ne, like Simone, is more than just the sum of its parts: visually striking and thematically intriguing, it’s often also laugh-out-loud hilarious while managing the extremely difficult feat of sustaining its comic momentum over an audacious 2-hour running time. Breezily ignoring plausibility (Simone is nominated twice for Best Actress in the same year’s Oscars), Niccol instead daringly extends the range of his satire: as she develops, Simone amusingly takes on more and more of a Princess Diana ambience – romantically linked with a succession of unlikely famous names, she’s even “buried” on an island after her apparent tragic demise.

Niccol’s ambitions occasionally overwhelm the essential lightness of his material (early on Vik has Simone proclaim “I am the death of the real!”) but he wisely keeps the main focus on the increasingly desperate Pacino, who has many scenes with Simone where he’s basically acting against a blank screen. The whole film is deliberately somewhat underpopulated, in keeping with Niccol’s coolly minimalist visuals – which feature some mockingly “Soderberghian” colour filters. The one striking exception comes when Simone ‘appears’ in public for the first time at a sell-out stadium concert: enshrouded by dry ice, hologrammatically belting out ‘Natural Woman’ to her arm-waving, adoring public. It’s at inspired, delirious moments like these that S1m0ne really takes off – unlike Simone herself, this film is emphatically the real thing.

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mercoledì 22 giugno 2022

Un'estranea fra noi - Sidney Lumet

una storia di investigazione con la sorpresa di James Gandolfini giovane e magro. 

magari nel film vediamo cose già viste, ma nelle mani di Sidney Lumet tutto diventa qualcosa da vedere, anche se non è fra i suoi film migliori.

in qualche scena ha ricordato Uncut gems, forse i fratelli Safdie hanno visto il film di Lumet.

 

buona (ebraica) visione - Ismaele 

 

 

 

 

Un film quasi sconosciuto nella copiosa filmografia di Lumet ma non per questo da disprezzare.A mio parere la cosa che gli nuoce di più è il trattare tematiche simili a quelle sviluppate in Witness di qualche anno precedente a questo(e anche meglio riuscito).Ma non metto in dubbio la sincerità del regista nel trattare certi argomenti religiosi che vanno a toccare le sue origini.Come nel film di Weir anche qui abbiamo un tipico esponente della società media americana( una poliziotta molto emancipata svelta di parola e di pistola)che viene a contatto suo malgrado con una comunità di ebrei chassidici,rigidamente ortodossi.L'indagine parte dalla morte di uno di loro e dal furto di una consistente partita di diamanti.Ma si nota subito che a Lumet interessa parlare d' altro,l'indagine è quasi maltrattata durante il film.Al regista interessa caratterizzare psicologicamente i personaggi,confrontare se possibile il candore di questi ebrei ortodossi con il cuore inquinato del newyorkese medio(e il loro candore risalta parecchio),ci fa conoscere un po' meglio le loro usanze(tra l'altro non vanno al cinema nè vedono la tv)cerca di descrivere in maniera introspettiva la maturazione del personaggio di Emily che riesce a fronteggiare finalmente tutti i coni d'ombra della propria vita,azzarda quasi una storia d'amore impossibile tra lei e il rampollo del rabbino capo,fermandola(giustamente) un attimo prima  che avvenga qualcosa di irreparabile.Il crimine rimane sullo sfondo e meno male perchè c'è una magagna grossa così:come fa una donna da sola a mettere un uomo a peso morto al di sopra di un controsoffitto? Melanie Griffith sembra molto coinvolta dal personaggio in un film non irresistibile ma che sarebbe ingiusto stroncare senza pietà...

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Emily, poliziotta di New York, deve indagare sulla morte di un ebreo. Con l'assenso della famiglia dell'ucciso, la donna si inserisce in quell'ambiente e fa le sue indagini. Emily si trova ben presto a suo agio. Intanto ottiene dei risultati: trova il cadavere scomparso della vittima e raccoglie degli elementi che la portano a sospettare di una giovane drogata membro della comunità. I sospetti sono fondati. Emily, in quell'ambiente dalle regole tanto diverse, deve affrontare una crisi di identità. Non sarà mai più quella di prima. Un altro buon esercizio di Lumet, un autore coerente e costante, sempre promosso all'esame.

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Per identificare l'autore di un assassinio per rapina, una poliziotta di New York s'introduce nella comunità hasidica di Manhattan. Quasi certamente il colpevole è uno di loro o qualcuno che li conosce bene. Più di quello apparente, conta il contenuto latente: la metamorfosi di Emily, quel che impara a contatto con un mondo dove vigono valori che le sono estranei. Indurita dalla vita, scopre la dolcezza. Lumet inietta nel suo film una miscela abile di azione e introspezione, dramma e commedia, sentimentalismo e umorismo.

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Tra erotismo laico e sublimazione sacrale, Sidney Lumet configura dei contrasti tra mondo religioso e ateismo che anzichè respingersi, come logica vorreb…be, finiscono per attrarsi, precisamente là dove la nascita di un innamoramento sconvolge ogni regola precostituita… Splendido, forse il film meglio diretto tecnicamente dal grande Sidney Lumet che non disdegna nella narrazione di dar spazio per  lunghi tratti ad azioni puramente spettacolari tipiche del grande cinema americano… Fotografia sopra le righe, ogni azione viene inscenata da punti di ripresa quasi impossibili con effetti stranianti del mai visto di alto valore estetico.

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…ce qui fonctionne le mieux dans le film, c'est son histoire d'amour, son récit de deux cœurs brisés. Sidney Lumet parvient à nous émouvoir avec une histoire simple, des dialogues brillants et le grand talent de ses comédiens, Mélanie Griffith en tête. Cet aspect romantique éclipse rapidement le récit policier et l'approche ethnologique du film, d'autant que Lumet l'aborde de manière très douce, feutrée, sans effets de manche ou séquence larmoyante. Si l'amour est impossible, on assiste tout de même à la rencontre de deux êtres, l'un qui se voit pur, l'autre qui se réfugie dans son cynisme, tout deux trouvant finalement chez l'autre une part de lui-même qui lui permettra d'avancer dans la vie. Cette sensibilité du cinéaste, on la retrouve lorsqu'il filme un truand agonisant qui se met à pleurer et à chuchoter un tremblant « J'ai peur, j'ai peur. » Ce sont de tels passages inattendus qui rendent aussi le cinéma de Lumet si précieux ; et si Une étrangère parmi nous n'est pas un grand polar, c'est au moins un beau film plein d'humanité.

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The movie is shot in a peculiar style, with New York looking bright and clean-edged except for the scenes involving the Hassidic Jews, who live in a different world, filled with dark reds and browns and always in soft focus. When they appear on the screen we get simple-minded music that insists how colorful, quaint and foreign these people are. In the first scene set in their community, Jerry Bock's music is so inappropriately comical it seems to call for cartoon characters. Theology is limited to greeting-card cliches such as, “God counts the tears of women.” “A Stranger Among Us” was directed by Sidney Lumet, for whom it is an aberration in a usually distinguished career. He has made so many good movies over the years (“Network,” “Dog Day Afternoon,” “The Verdict,” “Running on Empty,” “Q & A”) that I can only assume this project somehow went wrong at the start and he was unable to salvage it. Maybe the original love triangle read well on paper; who knows? What's impossible to understand is how professional filmmakers could convince themselves that audiences would find the simple-minded crime plot even slightly plausible.

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martedì 21 giugno 2022

Christine – Antonio Campos

siamo nel 1974, Christine lavora in una piccola tv locale, ama fare la giornalista per migliorare il mondo, la costringono a fare la giornalista di merda (cosa che da allora succede sempre più).

Christine è quasi sempre sola e d è propriodepressa, non vede un futuro posotivo, e si chiude semprepiù, nel suo nicolo cico senza uscita.

il film è davvero bello, la protagonista Rebecca Hall è bravissima e Antonio Campos (è il primo, ma non ultimo, suo film che vedo) è bravo anche lui.

buona (giornalistica) visione - Ismaele



 

 

 

 

 

…La regia di Campos è nervosa, asciutta, attenta a cogliere tutte le sfumature della brava attrice. Non ci sono virtuosismi registici, non vi è un indugiare sugli aspetti macabri. Nel film traspare l’empatia, concetto che ritorna numerose volte nella pellicola, che il regista prova verso il personaggio di Christine.

La sceneggiatura è completa e minuziosa nel tratteggiare l’inquietudine del personaggio, l’ambiente lavorativo e, soprattutto, l’ambiente sociale del 1974, anno in cui Nixon la faceva da padrone e la spettacolarizzazione delle notizie prendeva sempre più piede. Si deve ricordare che, a quei tempi, il telegiornale non aveva inserti filmati e le notizie erano tendenti alla positivizzazione.

Dopo, ci si accorse che il pubblico era freneticamente attento e curioso per le questioni truculente e le notizie raccapriccianti, e i TG non hanno dovuto far altro che regolarsi di conseguenza. Il film racconta molto bene questo momento storico e fa riflettere sulle nostre colpe come spettatori.

Christine è un film splendido, in cui non si può che provare tenerezza per il personaggio tragico della protagonista. Rebecca Hall si cimenta in un ruolo indimenticabile e ricco di sfumature. 

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Ningún telespectador que viera en 1974 a la presentadora de informativos Christine Chubbuck podía si quiera imaginar su gesto. Ese azote terrorista que propinó aquel 15 de julio fue una respuesta radical a su impotencia, al tiempo que un aviso amargo contra un medio de comunicación vendido a la tiranía de las masas, obsesionado con las cifras de audiencia. Una televisión que explota incesantemente imágenes y fabrica con ellas impacto, a costa de reducir la vida a escombros de banalidad. En La Société du Spectacle (1967), Guy Debord ya advertía que cuando la televisión deviene en espectáculo, se desdibujan los límites del yo y del mundo. Por eso Antonio Campos, al abordar una de sus víctimas, construye un retrato que la desplaza constantemente del centro. Tanto para el cineasta como para una soberbia Rebecca Hall, la verdadera Christine se halla en el fuera de campo de la imagen. Dentro sólo es pura tensión. Como dice el locutor líder, su adorado George, delante de las cámaras, cuando estamos en el aire, «es como si todos tuviéramos diferentes versiones de nosotros mismos compitiendo para llegar al verdadero». Una lucha interna que persiste en Christine. Su psicología responde a la figura del oxímoron, es decir, expresa una característica y su contrario. Es dura y frágil, reservada y explosiva, torpe y ambiciosa, impaciente y calculadora, triste y feliz. Su pensamiento tampoco parece lineal: en su cuaderno personal, anota y avanza; retrocede, subraya y tacha. No resulta raro que, como Holly Hunter en Broadcast News (Al filo de la noticia, 1987), se le ocurra alterar el montaje de un vídeo tres minutos antes de dar la noticia. Ni que, ante tanta contradicción, acabe saliendo de sí misma y acuda a la llamada del exterior, como hace la protagonista de un filme que contempla, Carnival of souls (1962). Empeñada en impresionar con un reportaje y obtener un ascenso, sale a cazar el espectáculo más grande de todos: ¡la vida!, como decía Albert Brooks en Real life (1978). Pero no nos equivoquemos, aunque estén presentes, Christine no es la suma de todos estos referentes. Acoger las palabras de otros y considerar las opiniones ajenas, activa en su caso el impulso de anularse. Una tendencia más bien paranoica la conduce a reafirmarse en su negación. Pero... ¿cuál es esa imagen de partida que ella rechaza?...

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El punto fuerte de la cinta es demostrar la cara de la depresión y la inestabilidad emocional, como estos elementos pueden surgir y no irse nunca de una persona, como es tan fácil tener malos días y rendirse ante ellos. Todo esto es gracias a la brillante interpretación de Rebecca Hall ya que de una manera genuina te demuestra como su personaje trata de mantener una vida normal cargando con todas sus crisis. La construcción del personaje, además de la interpretación, es a través de genuinos momentos donde a Christine Chubbuck la dejan ser y la observamos en sus momentos más frágiles, como esa escena donde las marionetas que ella controla en el hospital de repente ya no tienen nada que decir.

La película no trata de embellecer a Christine o hacer un homenaje, en algunas ocasiones Christine es una mujer molesta y egoísta. También deja ver como la decadencia de ésta es sutil, la gente no enloquece de un día para otro. Sólo son las aglomeraciones de sentimientos y situaciones.

Es por eso por lo que Christine es una historia que merece ser contada y vista, un ejemplo de lo endeble que es la psique humana y lo frágil que puede llegar a ser la vida.

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