venerdì 3 giugno 2022

Alcarràs - Carla Simón

in questi tempi nei quali sembra che mangeremo soldi la terra non vale niente, il lavoro dei contadini non vale niente, i pannelli solari valgono di più.

il film ha un aspetto economico sullo sfondo, le catene commerciali legano i contadini come schiavi e la vita di chi materialmente produce cibo vale meno di niente.

è poi un film sulle origini (identità mi sembra un concetto equivoco), sui rapporti umani, sui rapporti familiari.

un po' mi ha ricordato El olivo , di Iciar Bollain, altro gran bel film contadino, sulle origini e non solo. 

l'attore che interpreta Quimet sembra il fratello gemello di Sergi Lopez, i bambini sono bravissimi, e il nonno pure, ma nessuno delude.

gli attori sono dei contadini veri, e interpretando se stessi non sono altro da sè, è una recitazione naturale.

buona (agricola) visione, addirittura in più di cinquanta sale - Ismaele



Con ogni personaggio tuttavia si apre un mondo, e non sono da meno gli interessanti excursus nelle politiche di genere quando la macchina da presa si sofferma sulle donne costrette a fare da paciere invisibile, sugli adolescenti ormai troppo cresciuti per contentarsi degli austeri svaghi dei campi, o sugli anziani, che a loro modo fanno eco al medesimo dibattito tra progresso e tradizione ("la tua salsa di pomodoro è diversa, mamma non usava il frullatore" - "Perché non esisteva!").

Tutti dettagli che contribuiscono all'afflato romanzesco del film, e aggiungono livelli di caratterizzazione a una storia che fotografa con accuratezza le particolari circostanze socio-economiche dell'industria agricola contemporanea. I conti non tornano, e il mondo sembra voler dire a famiglie come quella dei Solé che la loro esistenza non è sostenibile, anche prima di far entrare le ruspe sui loro terreni. Eppure, ci ricorda Carla Simón, un lavoro rimane più che un lavoro, e l'identità merita di essere tutelata.

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Ognuno in famiglia ha le sue ragioni, sembra dirci Simòn e, in ogni discussione, c’è un’emozione diversa, che questo film generoso condivide con lo spettatore senza chiedere nulla in cambio. Ogni membro della famiglia necessita, in questo senso, di riprese cucite su misura, di un aspetto e una voce ben distinguibili, senza gerarchia alcuna, sempre disposti nel quadro con luminosa chiarezza.

Sebbene abbia molti punti in comune con Verano 1993 – nel suo meraviglioso approccio alla psicologia infantile, ad esempio – Alcarràs è più ambizioso e lascia respirare ampiamente il soggetto narrativo, mai incastonandolo nel limite della prospettiva unica. Piuttosto, riprende le fila del cortometraggio Correspondencia, che Simòn ha firmato a due mani con Dominga Sotomayor, dove c’è già l’idea che le nostre vite, i nostri progetti, sono in qualche modo attraversati dal contesto socio-economico e, in ultima analisi, sempre politico in cui viviamo. Nella cornice di Alcarràs, sostenuta dagli echi della sua personalissima storia, Carla Simón si libra nelle sue virtù registiche: gira con precisione e passione, paziente nel raccogliere la verosimiglianza dei simboli di un’estate, per testimoniare l’ingiustizia di un sistema che cerca solo la redditività economica.

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Nonostante gli allarmi ecologisti e le preoccupazioni sul clima, interessano davvero a pochi le implicazioni della vita agricola, oggi, e il cinema se ne occupa raramente. Motivo in più per non perdersi questo gioiello, che tra le tante cose, suggerisce un rapporto “paritario”, di rispetto, tra uomo e animali. E che in maniera intelligente contrappone, senza forzare sui contrasti, ma fornendo più punti di vista, l’alternativa di dismettere l’esercizio dell’agricoltura in favore di un reddito dato da fonti di energia alternative e teoricamente “pulite”. A cosa rinuncia, cosa perde la famiglia Solé, rassegnandosi alla sua ultima estate di raccolto? È un progresso o un regresso? Cos’è il progresso? È giusto opporsi? Chi regola il prezzo dei frutti della terra? Chi la lavora e chi ci guadagna? Che cosa resta delle esperienze degli antenati, dei patti non scritti, della solidarietà in tempi difficili? Nel rappresentare un gruppo di famiglia che di volta in volta si dimostra tenero, rabbioso, coeso e discorde, è su questi temi che Alcarràs, con stile molto discreto e metodo indiretto, chiede di interrogarsi. Simón cattura e restituisce il passaggio tra due mondi: quello in cui un cestino di fichi o una cassetta di frutta rappresentavano il più bel messaggio di amicizia e di armonia sociale, e quello in cui le stesse persone che coltivano quella frutta sono costrette, per protesta, a distruggerla. Ammirevole la composizione del cast di non professionisti (meravigliosi il nonno Rogelio e il capofamiglia Quimet, uomo-toro dalle debolezze non nascoste), individuato dopo migliaia di provini e sei mesi di selezione. Va anche sottolineata la straordinaria capacità della regista di filmare i bambini, non come figure angelicate ma come osservatori e replicatori di tensioni, ambivalenze. Partendo da un soggetto autobiografico, un microcosmo molto precisamente localizzato, Alcarràs tocca temi universali, scomodi, nascosti o meglio ignorati dai più, e contemporaneamente sa immergere lo spettatori in legami affettivi altrettanto invisibili. Nel senso profondo di cosa voglia dire comunità, “consorzio”. Da non perdere. 

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el conjunto es, en general, armonioso, en un film valioso que plantea uno de los problemas capitales de nuestro tiempo, el abandono, por fuerza mayor, del más importante granero de la Humanidad, el campo, el mayor generador de alimento que ha existido, existe y seguramente existirá en el mundo, contado con recursos puramente cinematográficos, narrado, como decimos, por el método de aluvión de escenas a través de las que iremos conociendo los pormenores de esta familia Solé, desolada por los designios del destino.

Gran trabajo, como queda dicho, del grupo actoral aficionado, en una película de la que se puede decir que cuenta con un protagonismo coral. Quizá el más destacado, en términos de tiempo delante de la pantalla, sea el paterfamilias, Quimet, interpretado por Jordi Pujol Dolcet (ya es mala suerte que te toque ese nombre y ese primer apellido...), que demuestra una rara capacidad para la mala hostia (palabra esta última que, por cierto, repite constantemente, en lo que parece un latiguillo propio...), y que físicamente nos recuerda a Sergi López, aunque este Pujol parezca físicamente más basto.... Del resto nos quedamos con la pequeña Ainet Jounou, una mica de apenas seis o siete años que es un auténtico rabillo de lagartija, una cría en permanente estado de búsqueda de aventuras, junto a sus primos gemelos, con la que se ve que Simón ha debido trabajar especialmente, dando como resultado una fresquísima interpretación que, a buen seguro, para ella no era sino un juego más: ¡jugar a hacer cine, nada menos!

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…La regista qui cerca di riportare sullo schermo i suoi ricordi per mantenerne viva una memoria. Grazie ad essi ricostruisce un’atmosfera agreste incredibilmente realistica, aiutata da un cast di attori non professionisti, appartenenti a famiglie contadine; perché certi gesti li riesce a trasmettere solo chi la terra l’ha lavorata e vissuta. Atmosfera aiutata anche dai bellissimi campi lunghi, che permettono di godere dei paesaggi brulli della Spagna.

Una regia matura, inaspettata per certi versi; visto che è solo il secondo lungometraggio della regista. Pochi dialoghi, essenziali come le inquadrature, le quali hanno un ampio spazio ed una importanza fondamentale per la narrazione. Proprio per questo ogni tanto il ritmo della pellicola rallenta, ma è perfettamente accettabile se letto nel contesto generale di ciò che vuol trasmettere il film. Quello che traspare certamente è un talento espressivo di altissimo valore.

Seguendo e lasciando ampio spazio a ciascun protagonista, si delinea una epopea familiare, estremamente dolce, particolare ed urgente. Un’opera sulla perdita delle tradizioni, sulla perdita della propria identità, una sfida continua che alla fine accomuna ciascuna vita.

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Lo que resulta casi alquímico es cómo germinan, sin manipulaciones estéticas, destellos de emotiva belleza en algunas secuencias y que encierran, a su vez, un profundo significado discursivo. Como la primera escena a su vez prólogo y profecía, que presenta a la pequeña Iris (Ainet Jounou) y sus dos primos gemelos jugando dentro de un coche destartalado que es un pequeño paraíso, en el que tiempo no importa o solo está dictado por los mecanismos de la naturaleza y no de otra índole, no hay juicios de valor sobre las cosas, simplemente se aceptan y se toman, como con el propio trabajo de tierra y sus frutos; un paraíso, decíamos aparentemente atemporal que desvela una fragilidad inevitable —y, por ello, terrible—, cuando se acerca un operario de grúa que echa a los niños y recoge el coche para llevarlo a desguace. Prólogo y profecía, pues es esto mismo lo que está ocurriendo paralelamente en la casa familiar: una promesa como acto de gratitud durante los años más oscuros de la Guerra Civil, transmitida de generación en generación, parecía el único y orgánico modo de concebir el mundo de las personas y las cosas. La digna pureza del trabajo de la tierra proporcionaba el sustento y modelaba a su vez el devenir de los días, de los meses y los años, sin intervención de herramientas más complejas que el esfuerzo, la dedicación y la disciplina; y no hay excusas de inocencia que valgan como justificación de lo inesperado, pues la palabra era más importante que el papel, y la transmisión de un juramento valía más que cualquier notaría. Por desgracia, de manera análoga a aquel juego infantil del inicio, este modelo de vida comienza a resquebrajarse desde los cimientos en el momento en el que el menor de los Pinyol, miembro de una nueva generación, terrateniente tecnócrata e ignorante, reclama en propiedad las tierras a la familia, y no hay promesa ni tradición que valga, pues esta es la era del ultraprogreso, de la agricultura extensiva la producción en serie. De repente, este paraíso sin relojes se da de bruces con la antesala de su fin, al acabar el verano.

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Alcarràs es una extraordinaria película en la que se aprecia el sentimiento con el que se ha escrito y rodado. Un entrañable cuento que transcurre en un escenario rural amenazado por la tecnología, los intereses económicos y la política.

El talento de Carla Simón va más allá de mostrar una bonita historia actual. Se trata también de la presentación del carácter de un pueblo, en este caso el catalán, aunque podría verse identificado cualquier otro de España.

La importancia de la familia, el tesón y firmeza a la hora de trabajar, la alegría de vivir disfrutando en todo momento posible, son valiosos rasgos para escenificar.

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