sabato 31 ottobre 2020

Meetings With Remarkable Men - Peter Brook

mica facile avere il coraggio di fare un film da un libro di Gurdjieff, sulla prima parte della sua vita. Peter Brook lo fa, e possiamo vedere una storia straordinaria.

Dragan Maksimovic (un bravissimo attore jugoslavo) interpreta Gurdjieff, nei suoi viaggi alla ricerca della verità, nelle terre centro-asiatiche,

il film è girato sopratutto in Afghanistan (prima dei talebani, naturalmente).

il film è un ottimo inizio per avvicinarsi alla vita e alle opere di Georges Gurdjieff.

qualcuno ha criticato il film perché Peter Brook ha girato un film con un occhio teatrale; magari è vero, ma se Peter Brook è un immenso regista teatrale che problema c'è?

buona visione - Ismaele


 



QUI il film completo, con sottotitoli in italiano



QUI un documentario sulla vita di Gurdjieff




…Not all of the film is heavy spirituality and metaphysics. Consider this interesting truism spoken by Gurdjieff partly in jest to a young friend intending to be a priest “My father used to say, if you want to lose your faith, make friends with a priest. 

There are sequences in the film that provoke the viewer to sift belief in religion from sham—such as the Yazidi child who seems imprisoned in a chalk circle with an invisible cage above it. It takes a rationalist Gurdjieff to erase a section of the circle and child walks out free of the imaginary bars. In another sequence, a village population is unnerved when they find a dead man who they thought was dead and buried, lying on a cot in the centre of the village. A village elder emerges, slits the throat of the dead body, and the village population is subsequently shown relieved and happy.  Is the village elder, one of the remarkable men in Gurdjieff’s life?

What the film does definitely indicates as remarkable men include the Prince Lubovedsky (Terrence Stamp), dervishes, a certain Father Giovanni, and a spiritual stranger who tells the Prince in the company of Gurdjieff “I advise you to die, consciously, of the life you led up to now and go where I shall indicate.” Gurdjieff does interact again with the Prince much later in time who by then has apparently found his spiritual answers in a secluded monastery with Sufi life-styles, dances, and strict regimen…

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Though Gurdjieff is played vigorously enough by Dragan Maksimovic (Mikica Dimitrijevic briefly portrays the writer as a boy at the beginning of the film), his is not a performance that can do justice to the material. It can't be: it's surrounded by too much deadly seriousness on all sides. Mr. Brook, with a superb eye for pretty compositions but no interest in continuity at all, simply leaps from one portentous episode to the next, with an abruptness that will either leave viewers bewildered or send them back to Gurdjieff's own writings, depending upon the extent of their interest. Certainly "Meetings With Remarkable Men" is a film that requires supplementary energy, whether it comes from the curiosity or the prior knowledge that the right audience may provide…

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Gurdjieff and his friends come across some scrolls that indicate the existence of an ancient esoteric brotherhood. Determined to learn more about them and their secrets, he begins a quest which will take him from the vast stretches of the Gobi Desert to the snow fields of the Himalayas until he arrives at a monastery where devotion, dance, and esoteric knowledge all combine in a mysterious religion.

Meetings with Remarkable Men salutes Gurdjieff's quest as a spiritual seeker animated by a real love of questions, openness, attention, and wonder. The teachers he meets along the way — including an ardent Russian prince (Terence Stamp) — share his yearning for a systematic overview of life and death.

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Brook ha quindi giustamente insistito sull'ambientazione che è splendida, come sono splendidi i paesaggi attraversati da quei mitici viaggi, ricercando un contatto quasi fisico, palpabile, fra i personaggi e l'ambiente. In questo senso la parte iniziale, che vede Gurdueff giovane adolescente, e i suoi inizi nel rifiuto delle verità preconcette e nella ricerca tramite la trasmigrazione, è la più riuscita. E così le sequenze del viaggio nel deserto del Gobi, con la tempesta di sabbia dalla quale i viaggiatori si salvano arrampicandosi su delle pertiche. Decisamente più discutibile, per non dire irritante, il finale del film, nel quale i protagonisti raggiungono finalmente il monastero della confraternita Sarmoung. Questo raggiungimento della saggezza della verità assoluta, dell'equilibrio fra esigenze religiose e scientifiche, Brook ce lo ridà attraverso una visita al monastero. Fra gruppi di ballerini impegnati in coreografie da ginnastica pre-sciatoria, in una scenografia nella quale il presunto equilibrio spirituale si vuol tradurre con una equivalente armonia estetica di stucchevole accademismo.

Brook ha quindi giustamente insistito sull'ambientazione che è splendida, come sono splendidi i paesaggi attraversati da quei mitici viaggi, ricercando un contatto quasi fisico, palpabile, fra i personaggi e l'ambiente. In questo senso la parte iniziale, che vede Gurdueff giovane adolescente, e i suoi inizi nel rifiuto delle verità preconcette e nella ricerca tramite la trasmigrazione, è la più riuscita. E così le sequenze del viaggio nel deserto del Gobi, con la tempesta di sabbia dalla quale i viaggiatori si salvano arrampicandosi su delle pertiche. Decisamente più discutibile, per non dire irritante, il finale del film, nel quale i protagonisti raggiungono finalmente il monastero della confraternita Sarmoung. Questo raggiungimento della saggezza della verità assoluta, dell'equilibrio fra esigenze religiose e scientifiche, Brook ce lo ridà attraverso una visita al monastero. Fra gruppi di ballerini impegnati in coreografie da ginnastica pre-sciatoria, in una scenografia nella quale il presunto equilibrio spirituale si vuol tradurre con una equivalente armonia estetica di stucchevole accademismo.

Incontri con uomini straordinari rivela in definitiva la lodevole serietà di un uomo di spettacolo che desidera tradurre un'opera letteraria con onesta franchezza. Ma denuncia anche, in modo continuo, la natura dell'autore, che e indiscutibilmente teatrale, e scarsamente cinematografica.

Tutto l'approccio estetico di Brook ci parla di un modo di vedere che è della scena teatrale: il modo di collocare gli attori nello spazio, di far loro sgranare gli occhi verso mete lontane in una significazione che è propria dei miti espressivi del teatro. Ma che, nel cinema, arrischia di trascinare nel fasullo anche i contenuti, sulla genuinità dei quali non osiamo pronunciarci."

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giovedì 29 ottobre 2020

Swimming Pool - François Ozon

succedono tante cose, o forse poche. citazioni di tanti grandi autori per un film di Ozon, che sempre è una sorpresa.

un po' giallo, un po' no, un po' freddo, ma a tratti bollente, è un film che si fa vedere bene, con continui piccoli o grandi colpi di scena.

il significato ognuno se lo dà da se, di sicuro a Ozon piace giocare.

non è capolavoro, ma un esercizio di stile (e che stile!) sì. 

buona visione - Ismaele


 

 

 

 

 

Due attrici magnifiche e sensuali come Charlotte Rampling e Ludivine Sagnier al servizio di una storia che dietro l'apparente semplicità di partenza nasconde inquietudini morali e psicologiche che oscillano tra il dramma e il thriller con perfetto equilibrio, spruzzando di vibrante erotismo una narrazione intensa e stratificata. Ozon ci regala in Swimming Pool immagini di prorompente sensualità e intesse un'atmosfera che si rifà non poco a certe opere bergmaniane (PersonaL'ora del lupo) per un racconto in costante bilico tra sogno e realtà che trova nel magnetico colpo di scena finale la miglior conclusione possibile.

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La villa silenziosa e parzialmente arredata, la vegetazione – un prato deliziosamente uniforme (destinato a farsi più frastagliato) su cui spicca un fiore rosso, una goccia di sangue (più gocce di sangue?) – che sprofonda nel liquido abbraccio della piscina, celata da un telo grigio che potrebbe anche nascondere cose molto cattive, un surreale materassino (rosso) e una sobria sedia a sdraio, echi sadiani (Julie come Juliette?), mosse incompiute, vitree sovrapposizioni. Hitchcock, Buñuel e Resnais sono gli invitati d’onore al party in pieno sole, ma il regista possiede una tale maturità di sguardo e un potere ipnotico tanto suggestivo e personale che è possibile definire Swimming pool un Sotto la sabbia immerso nel grottesco proteiforme di Sitcom e nella sinuosa claustrofobia di Gocce d'acqua su pietre roventi: l’en plein air è appena un miraggio (l’enigmatico teatro delle ombre conclusivo), alimentato dai lampi di un eros umorale, unione estrema di desiderio e minaccia (Amanti criminali). Allucinazione irresistibile, che flirta con i manierismi e, senza lasciarsi soffocare, li fa a pezzi per ricostruirli collocandoli nel proprio squisito arabesco di tensioni furtive e orrori (in)sospettabili. I fan della storia, della logicità, dell’immediato riconoscimento referenziale (“non sono la persona che lei crede”) faranno meglio a rivolgersi ad altri autori e/o editori.

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La verità in Swimming Pool è solo una questione di punti di vista. Il meccanismo metanarrativo è servito in maniera chirurgica, per occludere gli spazi interpretativi e aprire l’abisso alla psichedelia. L’unica verità possibile è che tutto il film sia un’allucinazione della scrittrice Rampling. Ma se si accetta l’operazione di rielaborazione al contrario del film, forse si può aspirare a ritrovare le tracce di un noir insolito che seduce e indispettisce. A prima vista non sembrerebbe, ma dietro allo Swimming Pool c’è un horror nascosto, può anche darsi che si tratti di una furba operazione postmoderna fatta da chi non crede più alla narrazione tradizionale. Ma pur di sfuggire al deja-vu l’unico modo che ha trovato Ozon è stato quello di stilizzare l’imprevedibile catarsi delle identità.

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"Swimming Pool" is more of a conventional thriller than those two--or if it is unconventional, that is a development that doesn't affect the telling of most of the story. After it is over, you will want to go back and think things through again, and I can help you by suggesting there is one, and only one, interpretation that resolves all of the difficulties, but if I told you, you would have to kill me.

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La programmatica sfilacciatura della trama, i frequenti puntini di sospensione, il finale fin troppo enigmatico privano “Swimming Pool” di coesione e frustrano le aspettative di uno spettatore sempre troppo orientato allo scioglimento dell’intreccio. Cinema “aperto” per definizione, graziosamente irrisolto, dove l’onirismo è costituzionale e introiettato nei personaggi e nelle immagini stesse, il crossover di generi e registri è dato per scontato, i misteri sono destinati a rimanere tali, quello di Ozon conquista chi dal cinema richiede la purezza e la forza del “momento filmico”, slegato dalla necessità di spiegazioni (i lenti carrelli sul corpo della ragazza, la naturalezza di una serata fra canne e balli, il bunueliano gioco di atti mancati sono pagine filmiche che vivono di luce propria), e anche quando delude per la sua imperfezione, per i suoi spunti lasciati a prendere il sole a bordo di una piscina, per le sue troppe false piste, incanta ed ipnotizza come un “giallo dell’anima”.

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In questo notevole Swimming Pool del 2003 sembra inizialmente addentrarsi in un mystery alla Agatha Christie con venature hitchockiane, per poi virare sulla dialettica realtà-rappresentazione, sullo scambio tra vero, verosimile e finzione, sull’arte come imitazione della vita e la vita come imitazione dell’arte…

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mercoledì 28 ottobre 2020

“Assandira”, o la non consumabilità della cultura popolare - Livio Marchese

Assandira è un’antica parola sarda, una parola “che si canta” ma di cui nessuno ricorda più il significato. Una parola mitica, misteriosa, tanto al passato, quanto al presente.

Assandira è anche il nome scelto da Mario Saru e dalla sua compagna Grete, fotografa tedesca, per l’agriturismo che intendono realizzare in una vecchia proprietà di famiglia, a Gennemari, terra aspra e spietata il cui destino maledetto è sempre stato rovinosamente legato a quello dei suoi abitanti. Non un agriturismo come tanti ma a tematica “sardo-pastorale”, progettato insieme a un professore di tradizioni popolari, con l’intento di vendere ai turisti provenienti dal nord Europa un’esperienza immersiva e totalizzante nella quotidianità autentica dei pastori, rendendo per una settimana comitive di tedeschi, danesi e svedesi, opportunamente armati di telefonini, bastoni per selfie e videocamere, spettatori e al tempo stesso attori di usanze e costumi “pittoreschi”.

C’è un peccato originale alla base della vicenda raccontata nell’ultimo, film di Mereu, ancora una volta impegnato a raccontare le complesse e non conciliabili dinamiche tra passato e presente, tra antico e moderno, tra vecchie e nuove generazioni: l’ambizione a mercificare e monetizzare il rapporto con il passato e con le proprie radici corrisponde alla violazione di una legge naturale immutabile che non può che generare morte e distruzione. Lo sapeva bene Cesare Pavese quando scriveva che la distruzione del Mito, per sua stessa natura insondabile, inesplicabile e irriducibile, coincide con l’annichilimento di sé.

L’ineluttabilità della vicenda è incarnata dalla stessa struttura del film, a sua volta ricalcata su quella del romanzo omonimo (Giulio Angioni, Sellerio 2004), che dispone il tragico epilogo in apertura, in maniera tale che lo spettatore sia gravato sin dall’inizio da una sensazione opprimente di fatalità negativa. Come se tutti i fili del racconto progressivamente dipanati e infine riannodati dal ruminare interiore del vecchio Costantino, il padre di Mario, o dalle laconiche risposte che lo stesso fornisce al magistrato inquirente, non potessero che venire a convergere in quelle spaventose fiamme che divorano Assandira, i suoi animali e il suo promotore.

Assandira è un film tremendamente attuale nel raccontare il dramma del sud e, più in generale, delle aree interne e marginali del paese, dove i mestieri tradizionali tendono a scomparire o comunque non rendono più come un tempo, mentre i nuovi bisogni e i nuovi consumi incalzano, spingendo le nuove generazioni a tentare la fortuna all’estero. Oppure, i più coraggiosi e creativi, a “inventarsi qualcosa” di redditizio in loco, secondo uno dei luoghi comuni più diffusi e odiosi del capitalismo mediatico. Ed è questo il sogno di Mario, trentenne emigrato in Germania per fare il cameriere, deciso a ogni costo a ritornare alla terra natia per far quattrini sfruttando l’esperienza del padre nell’antica arte della pastorizia e metter su una sorta di parco storico-naturale a soggetto per il divertimento dei turisti.

Lo scoglio da superare per avviare l’impresa è proprio la resistenza del padre, ottimamente interpretato da Gavino Ledda, che presta al personaggio la sua voce roca e grumosa, appena discernibile, e il suo bel volto, profondamente segnato dallo scorrere del tempo. Costantino, che ha vissuto come i suoi avi un’intera vita di fatica e stenti appresso alle pecore, all’acqua e al vento, non riesce a comprendere il senso del progetto del figlio. Non riesce ad accettare il fatto che un mestiere tanto duro ma al tempo stesso “sacro”, perfettamente inserito nell’ordine naturale delle cose, sia trasformato in un gioco per forestieri. Ancor meno concepibile, per lui, il fatto che ci sia gente proveniente da paesi tanto lontani desiderosa di spendere denaro per raggiungere quel luogo dimenticato da Dio e far esperienza diretta di quella vita malagevole. E qui s’inserisce il personaggio di Grete, la compagna di Mario, una donna del nord non particolarmente bella, dall’aspetto algido, duro, determinato, ma dall’atteggiamento disinibito e sensuale. Costantino piano piano comincia a subire la fascinazione per il moderno e per l’esotico incarnata dalla donna e, sebbene il senso del progetto continui a rimanergli estraneo, finisce per accettare di rindossare i vecchi abiti da pastore, la mastruca, i gambali e lo schioppo, interpretando anche lui la sua parte in questa baracconata per turisti.

Dopo l’inaugurazione alla quale partecipa tutto il paese, autorità comprese – l’agriturismo potrebbe costituire un’opportunità lavorativa per i giovani disoccupati –, Assandira apre i battenti, riscuotendo da subito grandi consensi. Viene recensito positivamente sulle guide turistiche e gli ospiti continuano a tornare in patria entusiasti e fieri di aver fotografato o filmato un ballo tradizionale, una mungitura, il parto di un agnello o perfino un accoppiamento tra cavalli.

Ma la tragedia è dietro l’angolo. Costantino si trova invischiato sempre più a fondo nella relazione tra Mario e Grete, subendo il fascino della tedesca, fino a farsi convincere (certo anche dal sogno insano ma umano di prolungare la giovinezza) a donare il proprio seme alla nuora per supplire alla sterilità del figlio. Quest’incesto, non consumato ma asetticamente espletato in provetta in una clinica berlinese dove lo spaesato pastore viene adeguatamente fornito di giornali erotici adatti allo scopo, è la seconda manifestazione di hybris che “macchia” indelebilmente la vicenda di Assandira decretandone la catastrofe. Costantino si fa sempre più premuroso e geloso nei confronti di Grete e della creatura che porta in grembo e quando la scopre coinvolta in un’esibizione oscena, insieme a turisti e paesani, con indosso l’abito da sposa di sua moglie, appicca il fuoco alla tenuta. Un fuoco rigeneratore, come quello che era solito dare alle erbacce, un fuoco per “rimettere le cose a posto”, come fosse lo strumento di un Genius Loci offeso e adirato dalla stupidità, dall’avidità e dalla depravazione di un’umanità priva di dignità e irriguardosa verso la propria storia. La nemesi non può che abbattersi con particolare furia contro Mario che, precipitatosi nell’ovile per salvare il salvabile, vi resta intrappolato trovandovi la morte. E contro la creatura portata in grembo da Grete che, ricoverata in ospedale, sopravvive all’incendio ma abortisce.

Assandira è un film decisamente controcorrente nel panorama cinematografico italiano contemporaneo che spesso, tra interventi promozionali di film commission regionali e desiderio furbesco di registi locali di cavalcare la moda radical-chic del turismo “sostenibile”, propone commediole “gradevoli” ambientate in zone remote del paese, allo scopo di “valorizzare” il territorio nella speranza di incentivare una più ampia fruizione turistica. Assandira fa piazza pulita di tutta questa ipocrisia. Qualche paladino dello sviluppo a tutti i costi lo potrebbe definire un film “regressista”. Di certo Mereu non ha soluzioni da proporre alla reale tragedia della continua emorragia di giovani costretti ad abbandonare le aree rurali del paese ma, a onor del vero, non sembra neanche averne l’ambizione. Ha però dalla sua il coraggio di difendere contro il sentir comune l’idea della non-consumabilità della cultura popolare e di svelare l’inganno di politiche ed estetiche volte a spacciare l’ossessione imprenditoriale-sviluppista per amore verso la propria cultura e il proprio territorio. Senza curarsi se il prezzo da pagare sia la storia della propria terra, il sangue della propria gente, la dignità di uomini e animali.

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martedì 27 ottobre 2020

La venganza (Ho giurato di ucciderti) - Juan Antonio Bardem

negli anni '50 e '60 il cinema spagnolo e quello italiano erano vicini, Aldo Fabrizi e Nino Manfredi hanno girato film spagnoli, ne La venganza appare Raf Vallone.

il film sembra un film italiano di quegli anni, ambientato fra i poveri braccianti che cercavano qualche giornata di lavoro, nei possedimenti dei latifondisti, e, nonostante in Spagna ci fosse il fascismo, appare anche uno sciopero.

Juan Antonio Bardem ha dovuto subire le forche caudine della censura, a partire dal titolo, per fare un film sugli ultimi, come se fossero personaggi di Verga.

non è l'opera migliore di Bardem, è pur sempre un film da vedere - Ismaele




 

La película sufrió hasta la prohibición de su título original (Los segadores), la traslación temporal de la acción (de la actualidad del momento a los años treinta) y la amputación de diversas secuencias y diálogos, quedó privado de un modo prácticamente total de su sentido político, La venganza, previamente masacrada por la censura española, que incluso le cambió el título: a los censores no les gustaba Los segadores, no fuera a sulfurar a los catalanes; tampoco les convencía que la acción se desarrollara en época actual, y la trasladaron a 1935, antes de la denominada cruzada, cuando todos los males eran posibles. Es curioso que le pusieran La venganza cuando precisamente la película trataba de abogar por la reconciliación nacional. Hacía 20 años que la Guerra Civil había acabado, y los derrotados, como el propio director Juan Antonio Bardem, pretendían ofrecer "una solución democrática y pacífica al problema español".

Toda la historia tiene un objetivo: presentar el Plan de Reconciliación Nacional promovido por el clandestino Partido Comunista. Como casi todas las películas de Bardem, la cinta fue censurada –y, además, cortada en casi una hora-. El régimen forzó a que la acción se desarrollara en una época anterior a la Guerra 7 Civil y no contemporánea al momento del estreno; por otro lado el título inicial: "Los Segadores", repetimos que fue sustituido por el actual, La Venganza, para evitar que el primero coincidiera con el himno catalán (“Els Segadors”) y su reivindicación de libertad para la tierra. A pesar de todo, el filme mantiene el carácter discrepante con la dictadura y se atreve, por ejemplo, a incluir una secuencia donde un pueblo entero se enfrenta al terrateniente planteando una huelga general.

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E’ insomma prioritariamente il rovente, arido e sconfinato paesaggio casigliano corposamente fotografato in Eastmancolor da Mario Pacheco, a farla da padrone, tanto che quel torrido scenario assume il peso di un ossessivo, ricorrente leit-motiv, con quel sole che incombe come una maledizione biblica sulle ricurve schiene degli uomini al lavoro fra le immense distese di spighe ormai mature che riempiono l’orizzonte.
Decisamente più apprezzabile per le intenzioni che per i risultati pratici di una messa in scena discontinua e un po’ deficitaria, contiene coque alcuni brani di buona presa figurativa, come le scene del villaggio in sciopero, o ancor di più, la sequenza dell’assalto (novello Don Chisciotte contro i mulini a vento) del vecchio mietitore disperato e incarognito, contro la macchina che gli ruba il pane.
Particolarmente prestigioso (ma non sempre eccelso nella resa) il cast degli interpreti (meglio comunque il versante maschile che vede fronteggiarsi il ruvido Raf Vallone e il fascinoso Jorge Mistral). Accanto a loro come improbabile Anita, la bellissima ma poco carismatica Carmen Sevilla, la diva spagnola per eccellenza di quel periodo, paragonabile per notorietà e successo, alle nostre Sofia Loren e Gina Lollobrigida.

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…la trama se desarrolla de forma convencional con un previsible y progresivo acercamiento romántico, cuando sería más interesante provocar un agudizamiento psicológico en tono obsesivo-enfermizo que rarificase el enfrentamiento de los personajes masculinos enfrentados, y contrastar los planos generales de aridez paisajística con perspectivas íntimas, enfáticas, que penetrasen en la desazón de caracteres en conflicto unidos por un trabajo común…

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La venganza, previamente masacrada por la censura española, que incluso le cambió el título: a los censores no les gustaba Los segadores, no fuera a sulfurar a los catalanes; tampoco les convencía que la acción se desarrollara en época actual, y la trasladaron a 1935, antes de la cruzada, cuando todos los males eran posibles. Es curioso que le pusieran La venganza cuando precisamente la película trataba de abogar por la reconciliación nacional. Hacía 20 años que la Guerra Civil había acabado, y los derrotados, como el propio director Juan Antonio Bardem, pretendían ofrecer "una solución democrática y pacífica al problema español". No se lo permitieron. La del título era la venganza de los vencedores…

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Bardem dice lo siguiente: “…En aquel momento, pensaba que el cine era un instrumento político de primera importancia en España, y el tema era el más importante para mi generación, el tema de la guerra civil, y más concretamente el de la reconciliación del pueblo español. Pensé en la posibilidad de que el público lograra entender la historia que yo le contaba a pesar de que algunas cosas no se podían decir de manera clara y directa. Intenté que el público, a pesar de que se hablase con un lenguaje un poco en clave, entendiera el film porque le dabas una datos… EI gran problema del film es que hicieron cambiar la fecha en la que transcurría la acción, además del título de «Los segadores» por el de «La venganza». La desarrollaba en 1958 y me obligaron a situarla en 1930, con lo cual culpa de todo lo que allí sucedía era del liberalismo….La película comercialmente fue bien pese a que, al haber sido comprada por la MGM, hubo que reducir el metraje de 2 horas y 45minutos a 2 horas, pero el resultado fue un fracaso porque el público no podía recibir el mensaje de la reconciliación. De paso digo que defiendo y adoro las películas con mensaje”

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lunedì 26 ottobre 2020

Cosa sarà - Francesco Bruni

il segreto del film sta nella bravura degli attori, per non parlare della sceneggiatura e della gentilezza che non mancano mai.

ci sono dei conflitti, come è giusto, e però tutto trova una soluzione, più o meno soddisfacente, dal male nasce il bene.

non c'è niente di forzato nella storia, il dolore e la paura sono sinceri, mica finti. 

sarebbe un peccato sapere la trama in anticipo, quando lo vedrete su uno schermo di casa (visto che i cinema resteranno chiusi per un po') non guardate prima troppi trailer.

quando il film vi capiterà vicino guardatelo, non perdetevelo se vi volete bene.

buona (tardiva) visione - Ismaele



 

 

è davvero un film universale, capace di toccare corde molto intime in ognuno di noi, corde anche molto diverse tra loro. Cosa sarà è commovente, catartico, a tratti sarcastico. Si piange e si ride, come in quell'umana commedia che è la vita. Il film è dedicato a Mattia Torre, anche lui sceneggiatore, uno dei migliori, uno che la sua battaglia contro la malattia non l'ha vinta.

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Se fosse necessario trovare un aggettivo in cui celare il senso intimo di Cosa sarà, quello è senza dubbio dolce. Lo sguardo di Bruni si fa carezzevole, quasi volesse stringere i suoi personaggi in un abbraccio collettivo, e non lasciarli mai andare via. Anche per questo amore assoluto per l’umanità che racconta viene naturale accettare alcune ridondanze – già in parte accennate in precedenza. Non c’è alcuna forzatura, alcuna palese finzione, in Cosa sarà, grazie anche all’eccellente lavoro compiuto dal regista con i suoi interpreti. Se non è necessario trovare conferme del talento di Kim Rossi Stuart, o di Lorenza Indovina e Raffaella Lebboroni, ed è un piacere rivedere sullo schermo lo strehleriano Giuseppe Pambieri (che il cinema ha con troppa facilità snobbato nel corso degli anni), una volta di più Bruni si dimostra molto bravo nel cogliere le sfumature e le esigenze espressive di attori alle primissime armi. Fu così con Filippo Scicchitano, Lucrezia Guidone, Francesco Bracci, e Andrea Carpenzano, e la regola si rinnova con la già citata Fotinì Peluso e Tancredi Galli, impegnati a dare corpo e voce ai figli del protagonista, universitaria la prima e liceale il secondo. Ed è difficile durante la visione del film non pensare al peso personale di una messa in scena così accurata e dettagliata dell’ambiente familiare. Si è lasciato volutamente in secondo piano durante questa breve analisi l’ombra autobiografica che aleggia attorno al film, perché un oggetto cinematografico deve innanzitutto convincere in sé, prima che ci si possa lanciare in elucubrazioni e speculazioni ulteriori. Ma non si può far finta che questo sia un film come tutti gli altri, per una lunga e articolata serie di motivi che – ora che sono stati evidenziate le peculiarità espressive – è forse il caso di affrontare. La malattia che viene diagnosticata a Bruno Salvati (invertire le ultime vocali permette di comprendere appieno il gioco di parole nascosto nel nome) è la stessa che venne riscontrata al regista, che è a sua volta padre di una ragazza e un ragazzo. Non si sta suggerendo una sovrapposizione esatta tra ciò che è accaduto nella realtà e la finzione scenica, ma è indubbio che il film sia anche una lunga elaborazione di quanto accaduto. A fronte di un cinema italiano (industriale) spesso ombelicale, chiuso in se stesso e distaccato in modo quasi autistico dal mondo esterno, Bruni scava nell’intimo per costruire una commedia popolare che abbia la forza di allargare lo sguardo, aprire la visuale al di fuori. Vedere. C’è un persistente ritorno all’idea di sguardo in Cosa sarà: Bruno non sa resistere alle stringenti e doverose regole ospedaliere e apre la finestra, guardando al di fuori. La prima cosa che nota risvegliandosi dopo un sonno procurato dalla fiacchezza sono gli occhi della consorte – i due si sono separati, ma restano molto vicini –, e se riprende l’amato Tito, il figlio più piccolo, è solo perché i film li vede sul cellulare, e non su uno schermo consono…

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La sceneggiatura, scritta da  con la collaborazione dello stesso Rossi Stuart, si allarga come i cerchi nell'acqua, e il primo e (quasi) ultimo cerchio formano una piccola parabola sul bisogno di (af)fidarsi, soprattutto quando le probabilità di prendere una fregatura sono altissime. Nei cerchi interni si sviluppa la storia che scorre fluidamente avanti e indietro nel tempo, ripercorrendo l'iter di Bruno-Bruni per ricrearne lo spiazzamento frammentario e restituire le piccole rivelazioni incontrate lungo la via: la generosità di una figlia, la paura muta di un figlio, la solidità di una ex moglie, il pragmatismo di una dottoressa sbrigativa e battagliera, la gentilezza di un infermiere, il senso di colpa di un padre che non ha saputo esserlo, ma non ha smesso di amare i suoi figli.

È un modo lieve e autoironico di raccontare un gigantesco spavento che rimane come monito della propria impermanenza, e come rivelazione (a se stesso prima che agli altri) di quelle caratteristiche di "debolezza e fragilità" che la malattia mette solo in maggiore evidenza e che rendono molti uomini più impreparati di quelle donne "che hanno sempre ragione" anche quando non sono perfette, "perché a noi quelli perfetti non ci piacciono". Cosa sarà è un modo di raccontare quando non ci si è capito niente, ma qualcosa si è imparato, senza magari sapere ancora bene cosa…

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…Mai la visione dei rapporti tra sessi in un film scritto da Francesco Bruni era stata così netta come in Cosa sarà. Tutti gli uomini sono abbastanza incapaci, emotivamente inetti, problematici e a vario modo cialtroni, mentre tutte le donne, equilibrate, razionali e sentimentalmente consapevoli, hanno il compito di gestirli, aiutarli o proprio salvarli. Lo fanno con compassione, tenerezza e affetto per questi esseri così fragili e in difficoltà, maneggiandoli con la stessa cura e delicatezza con cui gli uomini di classe nei film degli anni ‘30 gestivano le donne.
Tanto che quando poi gli uomini si relazionano tra di loro fanno fatica a capirsi e sfociano in rabbia o mutismo.

È una prospettiva che serve bene gli intenti e le finalità del film (specie il personaggio della figlia) ma che sarebbe stata sicuramente aiutata ad essere un po’ più complessa da un lavoro più fino sulla recitazione. Con l’eccezione di Fotinì Peluso e Kim Rossi Stuart questo è un po’ il tallone d’achille del film, il fatto di avere troppo spesso momenti in cui le interpretazioni reggono poco, sono fuori tono per macchiettismo o proprio un po’ amatoriali. Eppure, paradossalmente, proprio il fatto che ci sia questa mancanza rende ancor più eccezionale che il film sia così perfetto.

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domenica 25 ottobre 2020

Tokri (The Basket) - Suresh Eriyat



Al diavolo la morte (S'en fout la mort) – Claire Denis

Jocelyn e Dah fanno un lavoro un po' strano, si occupano di galli da combattimento, li procurano, li curano, li istruiscono, li fanno combattere, insomma, per e grazie a loro.

ai due arrivano le briciole delle scommesse dei combattimenti clandestini, sono amici, Jocelyn è abbastanza fuori di testa e Dah deve proteggerlo e accudirlo, come può.

è un mondo al margine, e i due, neri, in Francia, devono stare al loro posto, e baciare la mano del padrone bianco.

Jocelyn e Dah valgono meno dei galli che combattono fino alla morte, nessuno scommette su di loro.

lasciate ogni illusione prima di vedere questo gran film - Ismaele


 

 

S'en fout la mort è un piccolo, ma al contempo grande melodramma di Claire Denis. Infatti, per tutta la durata del film, a tenere banco sono le emozioni straripanti dei personaggi. Figure forse sfuggenti, ma cariche di sentimento, di dolore, di emozione.
Nuovamente, come nel precedente Chocolat, a Denis interessano i luoghi di confine, di fusione, l'intreccio tra culture differenti (un cinema della «différence», mi verrebbe da dire). Protagonisti sono uomini di colore e portoricani, nei sobborghi di località di passaggio francesi. A fungere da "teatro" è un luogo inusuale come quello dei combattimenti di galli clandestini. È, infatti, proprio il gallo di Dah a chiamarsi Al diavolo la morte. Un nome (e un titolo) programmatico di chi, incurante, vuole vivere la vita "fottendosene" delle conseguenze, come in ogni mélo che si rispetti.
Per chi accusa Claire Denis di eccessivo intellettualismo dovrebbe rivedersi questo film: questo non è cinema "di cervello", è cinema di viscere.

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Ciò che colpisce maggiormente del film di Claire Denis, vedendolo dopo 30 anni (!), è la sua modernità, la capacità di raccontare la contemporaneità e di anticipare modi e tematiche delle storie degli anni 90. La storia in se non riesce davvero ad andare oltre la consistenza di una storia allegorica. Al diavolo la morte è difatti un racconto (im)morale urbano d'immigrazione e spaesamento.

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Due uomini di colore - Jocelyn venuto in Francia dalle Antille e Dah - vivono a Parigi importando di nascosto galli da combattimento. Pierre Ardennes, proprietario di un ristorante parigino, ha messo su nel retro un ambiente frequentato da accaniti scommettitori clandestini. Jocelyn e Dah sono a percentuale, mentre la bionda Toni, moglie di Pierre e il figlio Michel si occupano del bar. Jocelyn, che è l'addestratore dei galli, tipo introverso e di rarissime parole, si innamora della donna del suo capo. Intanto il gestore impone l'applicazione di affilate lamette di acciaio agli speroni dei combattenti, allo scopo di far aumentare le puntate. Ma Jocelyn si ribella, considerandolo una deformazione cruenta del combattimento, che per lui fa parte di antichissimi rituali, in più è geloso di Michel e della ambiguità dei suoi rapporti con Toni. Nell'ultimo combattimento, Jocelyn mette sul ring, anziché il gallo prediletto, ormai sfinito, che si chiama "'Al diavolo la morte", una bianca e combattiva gallina cui ha dato il nome di Toni. Ma subito dopo Michel lo affronta e lo uccide. Il fedele amico Dah, inviando al vecchio padre la salma e il denaro guadagnato da Jocelyn in Francia, torna anche lui nel paese natìo.

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…tra cemento e autostrade grigie e desolanti, locali chiusi ed ermetici dove in recinti circolari mani esperte massaggiano e sollecitano corpi snelli di pennuti eccitati dall'istinto di sopravvivere e sopraffare, la vita cerca di farsi avanti tra i pericoli e le incognite di un futuro che è esso stesso una scommessa, sopraffatto dal caso avverso e dalle asprezze di una società che non è disposta a regalare nulla a chi non riesce a guadagnarsi la strada del successo e dell'indipendenza.

E, come spesso capita, c'è chi riesce a sopravvivere volando basso e cercando di restare nei ranghi, e chi soccombe in modo violento, sopraffatto dalla smania di vittoria e di un facile guadagno che si rivela un amaro, sanguinoso miraggio illusorio.

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Claire Denis è quel tipo di regista che si fa amare o odiare, ma che ha dalla sua una notevole dose di coraggio. Come in altri suoi film, quest'opera è ostica, ripetitiva, sgradevole e forse odiosa, ma proprio per questo raggiunge dei risultati di amarezza che gli autori "veri o presunti" nemmeno si sognano. Visto in un festival del cinema di Venezia di parecchi anni fa, "lorda" un incredibile disagio morale

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venerdì 23 ottobre 2020

Fixing Luka - Jessica Ashman

 


Lucy thinks her brother, Luka, is broken. His obsessive, meticulous, infuriating arrangements of sugar cubes and thimbles prove it. Lucy thinks he should be fixed, but not in the way she imagines...

A stop-motion short, inspired from my experiences of growing up with a younger brother with autism.

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giovedì 22 ottobre 2020

Blood - Nick Murphy

una storia che sembra già vista, ma sempre nuova.

due fratelli poliziotti, figli d'arte, diventano sceriffi, carnefici e assassini.

e quando si accorgono di cos'hanno fatto è troppo tardi, il mondo gli crolla addosso, tutti i sogni, speranze, progetti vanno a quel paese.

bravi attori e tragici paesaggi.

non sarà un capolavoro, ma non fa male, anzi... - Ismaele


 

 

 

 

Magistralmente supportato dalla fotografia di George Richmond e dalle musiche di Daniel Pemberton, Blood mostra qua e là qualche crepa nei dialoghi, prevedibili e privi di spessore, ma recupera ampiamente con le interpretazioni di un cast tutto anglosassone. Accanto alle ottime prove di Paul Bettany e Graham, si distingue la recitazione asciutta e decisa di Mark Strong, perfetto nella parte del solitario Robert. Splendide le panoramiche dell’isola, metafora di una realtà sospesa, lontana dalle regole sociali e per questo “adatta” ad ospitare crimini che rimangono impermeabili allo sguardo della comunità. Murphy avrebbe potuto osare qualcosa di più, nell’intreccio (a tratti un po’ piatto) come nello studio del protagonista, ma è riuscito comunque a dar vita ad un thriller di tutto rispetto, un poliziesco psicologico dai risvolti tanto amari quanto morbosi.

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…Il sangue non è solo quello che scorre, il sangue è anche quello che lega i padri ai figli, nel solito continuo altalenante rapporto di amore/odio reciproco. Siamo ben lontani dal cinema di Clint Eastwood o di Paul Thomas Anderson, molto ben lontani. Ma il tentativo di Murphy è proprio quello di andare in quella direzione. Non ci riesce, quasi nessuno può.

Il risultato non affonda nella mediocrità, però. Grazie a Paul Bettany e Stephen Graham, capaci di dare peso e gravità ai due fratelli ed alla loro crisi irreversibile; e all’uomo-garanzia, Mr. Mark Strong, come sempre bravissimo, e perfettamente a suo agio nel ruolo del malinconico e solitario giustiziere.

Blood non ci dice quasi niente, ad essere sinceri. Quello che ci frega, a noi, è che amiamo il genere. E un film così, con queste facce, questi posti, questo vento, noi siamo praticamente costretti ad apprezzarlo. Voi potete anche ignorarlo, non vi perdete niente.

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Finale prevedibile, ma impreziosito della bellezza di una location magica, Hilbre Island, soggetta all'andamento delle maree e separata dalla terraferma per lunghi periodi di tempo. Questo paesaggio lunare, immortalato dalla bellissima fotografia di George Richmond, connota uno spazio atemporale in cui dimora una comunità isolata e protettiva. Un purgatorio sospeso, separato dal resto del mondo, in cui si consuma una battaglia tra giustizia e onore, tra senso di colpa, verità e menzogna.

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mercoledì 21 ottobre 2020

99.9 - Agustí Villaronga

nella prima parte si respirano un po' le atmosfere di Kairo, poi il film spagnolo prende la sua strada.

la storia è di mistero, di ignoranza e di assassini/e che vogliono perpetuare la spirale di morte.

Lara cerca di capire perché il padre di suo figlio ha perso la vita, per un'indagine quasi impossibile, ma non per lei, a rischio della morte.

un film che mantiene quello che promette, alla fine capirai che hai visto un film sconosciuto, ma meritevole della visione. promesso - Ismaele

 

 

la dimostrazione che si può fare un buon horror anche senza alcun effetto speciale, limitando il sangue e gestendo al meglio l'atmosfera, le voci sussurrate, le ombre... 99.9 è la frequenza da cui trasmette la radio in cui lavora Lara (Maria Barranco), che si occupa di spiritismo e fenomeni soprannaturali…

...Villaronga si conferma insomma autore a tutto tondo, facendo capire che non è certo l’horror all'americana, il suo punto di riferimento. Attori diretti molto bene, fotografia d’impatto, sceneggiatura scritta con pochi dialoghi ma senza mai una frase inserita a sproposito.

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lunedì 19 ottobre 2020

Imprevisti Digitali - Benoît Delépine, Gustave Kervern

c'è tutto il cinema di Benoît Delépine e Gustave Kervern in Imprevisti Digitali.

eroi semplici, in odore di fallimento, gente a cui la vita ha preso di più di quanto abbia dato loro, in lotta contro mulini a vento e nemici irraggiungibili, troppo potenti e furbi.

è anche un film in cui si ride, sopratutto di se stessi, Benoît Delépine e Gustave Kervern sono fra i pochi che ti dicono che sei un deficiente e tu ridi.

Gustave Kervern appare per tre secondi, a voi trovare quando.

un film da non perdere, per i miei gusti, da godere tutto, minuto per minuto - Ismaele


 

 

 

…Se chi legge conosce la serie Black Mirror sa che in quella sede si è preso in considerazione il presente e si è andati un passo in là. A Delèpine e Kerven questo non è necessario: gli basta guardarsi intorno nell'attualità già più sufficientemente assuefatta e seguire con affetto i loro personaggi per farci ridere. Talvolta di loro ma spesso anche di noi stessi rendendoci con quel riso un pochino più consapevoli di vivere in un davvero pazzo mondo.

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Maria dal suo cucinotto incrocia il cameo di un affezionato attore della ditta Delepin/Kervern, il comico Benoit Poelvoorde, qui in veste di un tragicomico, sfruttatissimo, corriere “Aliamazon” (in questi due minuti c’è tutto il terrificante significato del “lavoro dipendente” nell’evo neoliberista, chapeau); la confessione in automobile di Christine sulla sua dipendenza alle serie ha una tempistica comica da ribaltarsi sulla sedia; Bertrand, nel suo fitto dialogare con la voce di donna al telefono fornisce un aggiornamento dell’uso di liquido seminale da Tutti pazzi per Mary.

Imprevisti digitali è così una lama tagliente, irridente e politica sulle sovrastrutture che governano inconsciamente il nostro comune agire, ed ha dalla sua anche una certo ruvido, dignitoso, verace legame affettivo con i personaggi che mette in scena. La regia, a livello stilistico, infine, non disdegna la porosità dei nuovi mezzi digitali (la videocamera di telefonini, ad esempio) per sintetizzare sguardo generale degli autori e lo specifico dei protagonisti…

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Imprevisti digitali è una commedia estremamente godibile e simpatica, che farà molto sorridere specialmente gli appassionati di televisione. Quando Christine racconta a Bertrand le motivazioni per cui ha dovuto cambiare lavoro, sarà impossibile non ritrovarsi nel suo racconto. Per lo meno quando anche noi abbiamo quei momenti in cui guardiamo una serie TV dall’inizio alla fine senza staccare gli occhi dal dispositivo.

L’opera di Benoît Delépine e Gustave Kervern rispecchia quelle che sono le paure, e forse l’incapacità, del pubblico nel gestire e affrontare la tecnologia. Vedere sul grande schermo gli errori che vengono fatti specialmente dai nostri genitori, oppure dai ragazzini più piccoli, spinge a riflettere sull’uso di Internet. I dispositivi elettronici, i social media e Internet vengono quasi demonizzati, ma in chiave molto ironica e con leggerezza; sono quegli strumenti che ci fanno fare le scelte sbagliate o che ci mettono in difficoltà.

Vale la pena riflettere sulla chiave di lettura del mondo digitale: cosa vogliamo portarne a casa? È meglio staccare la spina a tutto o imparare piuttosto ad usare il digitale al meglio, evitando se possibile di cadere in trappole come offerte telefoniche o e-mail spam?

Sta allo spettatore la scelta finale, facendosi nel frattempo due risate dolceamare, seguendo il viaggio dei tre francesi alla riscossa di Internet.

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domenica 18 ottobre 2020

Il naufragio dei bambini - Fabrizio Gatti

 


Nave Libra, il pattugliatore della Marina italiana, è ad appena un'ora e mezzo di navigazione da un barcone carico di famiglie siriane che sta affondando. Ma per cinque ore viene lasciata in attesa senza ordini. Il pomeriggio dell'11 ottobre 2013 i comandi militari italiani sono preoccupati di dover poi trasferire i profughi sulla costa più vicina. Così non mettono a disposizione la loro unità, nonostante le numerose telefonate di soccorso e la formale e ripetuta richiesta delle Forze armate maltesi di poter dare istruzioni alla nave italiana perché intervenga. Il peschereccio, partito dalla Libia con almeno 480 persone, sta imbarcando acqua: era stato colpito dalle raffiche di mitra di miliziani che su una motovedetta volevano rapinare o sequestrare i passeggeri, quasi tutti medici siriani. Quel pomeriggio la Libra è tra le 19 e le 10 miglia dal barcone. Lampedusa è a 61 miglia. Ma la sala operativa di Roma della Guardia costiera ordina ai profughi di rivolgersi a Malta che è molto più lontana, a 118 miglia. Dopo cinque ore di attesa e di inutili solleciti da parte delle autorità maltesi ai colleghi italiani, il barcone si rovescia. Muoiono 268 persone, tra cui 60 bambini. In questo videoracconto "Il naufragio dei bambini", L'Espresso ricostruisce la strage: con immagini inedite, le telefonate mai ascoltate prima tra le Forze armate di Malta e la Guardia costiera italiana, e le strazianti richieste di soccorso partite dal peschereccio. In quattro anni, dopo le denunce dei sopravvissuti, nessuna Procura italiana ha portato a termine le indagini.

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sabato 17 ottobre 2020

The Neon Bible (Serenata alla luna) - Terence Davies

tratto da un romanzo del "per sempre giovane" John Kennedy Toole (suicida a 31 anni, le opere non vennero pubblicate in vita, "Una banda di idioti" è un libro grandissimo).

Terence Davies gira per la prima volta negli Usa; la storia è quella di un ragazzino in una famiglia non bella come tante, dove la luce e la gioia sono portate dalla zia Mae, nel profondo Sud degli Usa.

Mae (Gena Rowlands) è una donna dalla dubbia moralità per i bigotti, è invece una seconda madre per David.

non è un capolavoro, ma un gran bel triste film sì.

non trascuratelo, sarà tempo ben speso - Ismaele


 

 

 

This adaptation of John Kennedy Toole's novel returns to the concerns of Terence Davies' acclaimed autobiographical work: the joys and agonies of family life; the onset of adulthood; the oppressive hypocrisy of organised religion. Here, however, instead of Liverpool, the setting is small-town Georgia in the '40s: life is quiet for young Tierney, son of struggling farmer Leary and hyper-sensitive Scarwid, until the sudden and not entirely unwelcome arrival of his aunt (Rowlands), a has-been but eternally optimistic nightclub singer whose devil-may-care ways sit awkwardly with the town's conservatism. Though the writer/director is working abroad and telling a linear story, it's immediately apparent - from the measured pacing, the immaculate compositions and elegant camera movements, the audacious ellipses and the inspired use of music - that this is a hallmarked Davies film. As such, it is extraordinarily moving, notably in a simple, underplayed death scene. Gena Rowlands' performance is a marvel of subtle nuances.

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E' come se Davies avesse vampirizzato il romanzo di Toole, trasportandolo completamente nel suo universo e attirandosi così molte critiche di ripetitività, forse non del tutto infondate. Tuttavia, anche se resta un'opera un po' minore nell'itinerario artistico del regista, "Serenata alla luna" non manca di motivi di interesse, come la bella interpretazione della Rowlands (che canta splendidamente My Romance di Rodgers e Hart in una scena), o alcune sequenze piuttosto forti come il meeting evangelico-revivalista del predicatore Bobbie Lee Taylor, dove Davies critica ferocemente ogni tipo di religione che anteponga gli interessi economici ai bisogni della gente. Questa sequenza è particolarmente stimolante perché, nel mettere a nudo l'ipocrisia e il fanatismo di questa religione-spettacolo, Davies si scaglia anche contro l'ottuso maschilismo di cui era impregnata la cultura del Sud degli Stati Uniti di quegli anni, poiché il predicatore vede il concetto dell'autonomia delle donne come una prostituzione del peggior tipo. In questo modo, Davies si ricollega al discorso "femminista" di "Voci lontane", approfondendolo da un'altra prospettiva. Comunque, talvolta nel film si respira quasi un'atmosfera alla Tennessee Williams, e vi sono dichiarati omaggi a "La morte corre sul fiume" ("The night of the hunter", 1955) di Charles Laughton, soprattutto per il forte puritanesimo religioso e l'onnipresente senso del peccato che caratterizzano la mentalità della gente.

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As in Scorsese’s film, the rituals of memory offer to Davies a guarantee of personal identity; almost a glue that holds one’s self together. To lose these impressions of the past would be to dissolve that self entirely, it seems. Davies more than merely sympathises or empathises with little, passive David: we feel that, from behind the camera, he becomes this character in a total and overwhelming act of projection, vampirically absorbs him. In order to make his movies as he does, Davies must identify completely with the melancholic, half-life position.

A key aspect of Davies’ poetic universe, and hence his glued-together artistic identity, is a certain portrayal of the adult men and women who surround the dazed, omni-seeing (and hearing) child. This universe is overwhelmingly feminine. Women swathe the little boy in sounds, song, perfume, the fabric of dresses and the touch of hair (cf. John Boorman’s 1987 screen memoir, Hope and Glory). The woman’s world is a great, maternal shell – and if even if David’s biological mother, Sarah (Diana Scarwid), isn’t quite up to the task, there’s always Aunt Mae (Rowlands) on hand to provide the ever-gentle mothering (and smothering). Davies’ men, on the other hand, are strangers, intruders – brutal, barbarous patriarchs, who get drunk and go mad and lash out with their fists at their women. Denis Leary, a generally comic actor with a vicious edge I greatly admire, is superbly cast as David’s dark, disappearing father.

Now, it will sound reductive and simplistic to say it this way, but a certain thought is inescapable to any sensitive viewer of Davies’ collected film work. His public identity is that of a gay man, a gay artist – even though this identity is only rarely explicitly marked in the movies themselves (as with many gay artists, the sensibility expresses itself via many masks). When gayness does come up as a subject, as in the early, short autobiographical pieces comprising the so-called Terence Davies Trilogy (1976-1983), it’s depicted with an extraordinary, almost overwhelming degree of shame and self-loathing. But everything in every moment of his oeuvre seems to be reaching out to tell us that his gay identity is obviously bound up with this primal experience of feminine love and masculine terror within the patriarhcal and heterosexual nuclear family unit – as if his sexual self finds its origin in, and was created by, this particular, very psycho-sexually specific crucible of remembered, formative moments...

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