domenica 11 ottobre 2020

Lacci – Daniele Luchetti

non è la prima volta che il regista gira un film a partire da un libro di Domenico Starnone, e anche Silvio Orlando appare spesso, nei suoi film.

si tratta di una storia in tre parti, nella prima i due protagonisti sono ancora giovani, e incasinati, con due bambini, nella seconda parte i due protagonisti sono invecchiati, e sempre vicini, ma lontani, è la convivenza di due solitudini, nella terza parte, contemporanea alla seconda, i due bambini sono grandi, e senza troppa voglia di perdonare i genitori.

film di attori (bravi), anche un po' thriller (familiare), dove tutto, tristemente o allegramente, dipende dai gusti, si incastra.

non è il miglior film di Luchetti, ma non si può sempre girare il film migliore.

di sicuro merita la visione - Ismaele





Lacci è un film che procede adagio, senza colpi di scena [se non per il finale], in un binario già prestabilito eppure così piacevolmente percorribile. Forse, ogni tanto, soprattutto alla fine del secondo atto, potrebbe risultare lento, ma non lasciatevi ingannare: è soltanto il respiro di quei sentimenti narrati, che hanno bisogno di tempo per essere compresi, accettati e solo dopo espressi…

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All’inizio, il prologo è ritmato dalle note del letkiss, reperto sonoro anni ’60 sopravvissuto alla trasmigrazione della storia negli anni ’80. Il brano, divenuto un hit delle sorelle Kessler, non solo diventa il leitmotiv ritmico del film, ma fornisce anche una possibile referenza italiana: in Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, infatti, è proprio questo brano che accompagna il personaggio di Stefania Sandrelli in uno dei passaggi-chiave della storia. Il riferimento a Pietrangeli offre una chiave e un’ascendenza: siamo di fronte a un cinema che ambisce ad allacciare, prima di tutto, la microfisica dei sentimenti con l’analisi della società.

Perché quello che racconta Lacci, in fondo, è la storia di una ribellione generazionale: il gesto finale dei figli (la sorpresa che non si può rivelare) va in questa direzione. È un atto d’accusa contro i padri e le madri incapaci di svolgere il loro ruolo genitoriale. Prima di ribellarsi però, manco a dirlo, il figlio si slaccia il nodo della cravatta.

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L'interesse del dramma familiare di Daniele Luchetti risiede soprattutto nell'originalità e nella gestione della sua struttura narrativa. Struttura polifonica che lascia coesistere fluidamente personaggi e pensieri. Tra fughe, ritorni e collassi, i membri della famiglia protagonista provocano un carnage domestico che affonda le radici nel libro omonimo di Domenico Starnone. Ma è lo sguardo di Daniele Luchetti a mettere in scena l'iperattività dei sentimenti che agitano tutto il tempo la coppia protagonista, a osservarli negli spazi chiusi alla ricerca dell'amore residuale e della collera che l'ha soppiantato.
La tensione è costante e trova la sua detonazione nella coppia Laura Morante - Silvio Orlando, Vanda e Aldo in fondo al matrimonio e agli anni. Entrambi di una precisione estrema nel restituire la forza dell'inerzia e il logorio lento dell'economia sentimentale

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Luchetti non risparmia che quell’odio rappreso tra i denti arrivi a tirare sferzate in un istante successivo tra improvvisi strappi di rabbia e caraffe frantumate in terra, anche se riuscendo nel complesso e ancor più straziante compito di lasciar permeare il film di una tanto aspra quanto fondamentale patina di ironia, tipica di chi è allo stremo e cosciente che non esiste un tasto “rewind” per riavvolgere i nastri di una vita che ha preso una piega sbagliata.

«Se c’è qualcosa da recuperare, la recuperiamo», ma siamo oltre il tempo limite per raccogliere i cocci di vetri che sono come istantanee forse nascoste e forse delle quali si prova vergogna, o forse solo custodite gelosamente come memorandum di una vita vissuta nell’intercapedine di una paternità non voluta e di una maternità abbandonata a sé stessa. Perché, in fin dei conti, a farne le spese sono proprio quei figli che osservano un padre traditore e una madre spezzata, cresciuti all’ombra di un amore disfunzionale dove o si assimila o si rigetta, dove l’unico vincitore è chi non ha partecipato a un dramma tanto vivido perché umano e tristemente universale.

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Ma questo ritorno al futuro è costruito dal regista de Il portaborse come in uno specchio deformante, necessario proprio per rimettere a posto i pezzi del passato, a dare forma compiuta a strade apparentemente senza uscita. Tutto procede come in una sorta di competizione tra quello che è stato e quello che ci viene svelato pezzo dopo pezzo. I cocci di un appartamento devastato dai vandali, da cui emergono le verità tenute tra parentesi o chiuse/nascoste in una scatola impossibile da aprire. Emerge la rabbia dei figli spettatori, sempre dentro e fuori l’inquadratura a seconda delle necessità di un copione da recitare. Non è un caso che nel montaggio di Lacci stia il segno più forte e più incisivo. Il gesto stesso del creare raccordi imprevisti e liberi e raccontare la storia essenziale e crudele di una famiglia ordinaria a partire dalla fine stessa di quella famiglia, nonostante le riappacificazioni, le vacanze, la reciproca sopportanzione. Tutto è crollato tempo addietro e quello che vediamo è solo il  suo continuo ripensamento.

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Lacci ha frammenti di un dramma francese nel mostrare la malattia d’amore ma non riesce a reggerne il peso emotivo, malgrado la bravura di Alba Rohrwacher. L’attrice, nei panni di Vanda, riesce a trasmettere ansie, paura, desideri, delusioni del suo personaggio. Ma gioca quasi da sola, l’unica a entrare nel cuore di un film che mostra l’amore come dei tentativi provvisori di tregua. Da questo punto di vista, diventa esemplare un’immagine della coppia molti anni dopo, stavolta interpretati da Silvio Orlando e Laura Morante. Sono su una spiaggia in cui sono da soli ma non c’è nessun contatto. Non stanno più insieme, ma di fatto continuano a vivere come una coppia. “Per stare insieme bisogna parlare poco, l’indispensabile” dice a un certo punto Aldo. E Lacci è proprio anche un film sulla mancanza di dialogo, dove però i personaggi sono sommersi dalla scrittura…

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Manca la verve, manca la vis polemica, manca la voglia di trasformare queste funzioni sociali – marito, moglie, figlie – in qualcosa di vivo, pulsante, magari persino maleodorante. Non c’è nulla che puzzi nelle inquadrature di Luchetti, nonostante i personaggi esplicitino sofferenze, dolori, rabbie, rancori inespressi. Alcuni passaggi mostrano un totale disinteresse in tal senso. La cena di Aldo a casa del suo collega, per esempio, con quest’uomo e sua moglie che cercando di spiegargli come gestire la delicata situazione. Ma ancor più la sequenza del ritorno a casa di Aldo e Vanda dopo che la loro casa è stata devastata (da chi? Si scoprirà solo nel finale, anche se Lacci non fa nulla per elaborare un giallo): nessun gattofilo si ricorderebbe solo dopo svariati minuti, dopo aver raccolto cocci in giro per l’appartamento, di controllare che fine abbia fatto il micio, quel Labes sul cui nome si avvilupperà parte del “dramma…

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