venerdì 31 maggio 2019

Il traditore - Marco Bellocchio

la mafia vista con gli occhi di Tommaso Buscetta, per lui esiteva una mafia onorevole e una spregevole.
il suo pentimento non era contro la Mafia, ma contro "quella" mafia.
Bellocchio riesce a tenere attaccati alla poltrona del cinema gli spettatori, che non staccano gli occhi dallo schermo (a parte quei minorati che vanno al cinema a controllare i messaggi nello smartphone, poveri infelici) per due ore e mezzo.
e Pierfrancesco Favino è grandissimo, in un film di serie A da non perdere, al cinema, se vi volete bene, è un film spettacolare e d'impegno civile insieme, indimenticabile.
buona e bellissima visione - Ismaele









Le sequenze del processo rendono alla perfezione la situazione surreale e quasi pornografica dei silenzi e delle sceneggiate mafiose. Scene lunghe che raccontano il circo a cui giudici, giornalisti, pubblici ministeri, avvocati hanno assistito. 
Ma il momento più inquietante di tutti rimane quello che ha per protagonista il processo ad Andreotti, che non a caso Bellocchio mette in scena in mutande (nel senso letterale, la prima volta che compare si sta facendo realizzare un abito e quindi è in desabille). Ma questa storia ce l’ha già raccontata Paolo Sorrentino, e sappiamo tutti come va a finire.
Il Traditore alla fine è anche un film filosofico, un film sulla morte, la morte che arriva per tutti, la morte che arriva e basta. Morire è un po’ come giocare al gioco delle sedie. Morire nel proprio letto è la massima aspirazione, la vera vittoria. Vittoria che alla fine Buscetta otterrà, ormai vecchio, malato, sempre più ossessionato da una vendetta in arrivo, nella sua casa a Miami.

In un’intervista Bellocchio ha dichiarato che questo film ha rappresentato una novità per lui, nel senso che è il primo film in cui in cui qualche modo non parla di sé, in cui non ha messo se stesso: occorre riconoscere che, forse grazie a quest’alterità rispetto ad un personaggio assolutamente diverso, Bellocchio ci consegna uno scioccante capolavoro. Di questa sua terza, felice stagione creativa (dopo l’esplosivo esordio con “I pugni in tasca”, la dubbia fase “psicoanalitica” e il ritorno ad una nuova poetica cinematografica con “Buongiorno notte”), “Il traditore” è senz’altro il più potente, il più forte, il più vero e al tempo stesso fantastico. Cronaca, cronaca italiana piuttosto nota a tutti, che nelle mani del regista, diventa poesia. Tra le molte che si possono scegliere, in un film lineare come sono i film biografici ma complesso per la continua incursione della fantasia nel reale, le due angolature che mi paiono più psicologicamente, e psicoanaliticamente pregnanti, sono la personalità di Tommaso Buscetta, e il suo rapporto col giudice Falcone…

Se non proprio epico, certamente poetico è il Buscetta di Bellocchio: un uomo nato nella povertà, con un destino segnato, che riesce ad incidere su quel destino sollecitato dal comprendere lo spirito del tempo e grazie ad un incontro ‘mutativo’, l’incontro con un simile nella differenza, con cui “gli piace parlare, discutere, anche litigare….mi piaceva la sua testa”, dirà in un’intervista.
Il film percorre tutta la parabola del personaggio fino alla fine, seguendo parallelamente i fatti storici e il destino di quelli che ha denunciato, mantenendo una tensione continua quasi come in un giallo. Eppure non si aspetta nessun colpevole: è la tensione che deriva sia dalla potenza scenica, sia dal contatto empatico che si stabilisce con la mente di un uomo di cui percepiamo, nelle pieghe, tutta la sofferenza, la dignità, la confusione, il rimorso, il rimpianto di non aver avuto un destino diverso (mi spiace non avere cultura, dirà all’atto finale del processo). Comprendiamo infine, nei pochi istanti finali in cui “si confrontano”, l’assoluta differenza con Totò Riina: Buscetta è molto più simile a Falcone che al suo rivale Riina. A differenziarli non è solo l’appartenenza a due clan diversi, l’uno più ‘storico’, l’altro più spietato, ma una precisa psicologia nel rapporto col principio di piacere: Riina ne è totalmente privo, non si godette niente della fortuna accumulata, mente a Buscetta, fino ad un certo punto, piaceva vivere.
Attorniati dalla moltitudine, e costantemente in pericolo, Buscetta e Falcone sono due uomini soli. Il film rimanda perfettamente, nel canto brasiliano sulla “soledad”, il senso profondo di una solitudine irriducibile, insanabile. Soli nella Storia, ma autenticamente insieme nel loro incontro.

L'interpretazione di Pierfrancesco Favino è eccellente e risulta l'elemento di maggiore coesione emotiva dell'intero film, con l'attore italiano che conferisce una statura da personaggio tragico e dolente al suo Buscetta; buone anche le partecipazioni di Luigi Lo Cascio, Fabrizio Ferracane e Fausto Russo Alesi nella parte del giudice Falcone. Qui Bellocchio non eccede in virtuosismi registici, a differenza delle sue opere meno riuscite, mantiene intatto il gusto della composizione figurativa che aveva dato i massimi risultati fra le sue opere recenti in "L'ora di religione" o in "Vincere", forse pretende un pò troppo dallo spettatore in termini di durata. La critica anglofona a Cannes non è andata in visibilio, ma in compenso il film è stato venduto in molti paesi e alla fine della proiezione ci sono stati 13 minuti di applausi; io avrei dato almeno un premio a Favino, magari in ex-aequo con Antonio Banderas.

 Marco Bellocchio è il più grande regista italiano vivente. I suoi film non appartengono ad alcun genere codificato, tanto forti sono lo stile e la personalità: sono i suoi film, e basta. Ed è molto difficile dire quali sono i migliori. Ma il "Il traditore" potrebbe essere tra questi: la puntuale ricostruzione storica, innervata da una dolente vena onirica e melodrammatica, della vicenda del superpentito di mafia Tommaso Buscetta.

L'apertura è degna del maestro, una gran festa da ballo dalle cupe movenze, con cui le "famiglie" mafiose siglano un effimero accordo: è il 15 luglio 1980, Santa Rosalia. Dalla splendida sequenza, che richiama tanto "Il Gattopardo" di Visconti che "Il Padrino" di Coppola, prende avvio la vicenda: Buscetta sente che la pax mafiosa non durerà, che il gigantesco business della droga sconvolgerà il suo mondo, che un'immane tragedia personale e familiare dalle sfumature quasi scespiriane incombe sui di lui…
da qui

…Non è affatto un agiografia, e del resto lo si capisce fin dal titolo. Bellocchio "usa" Buscetta come pretesto per raccontare un pezzo difficile di storia italiana, in un paese che non ha mai fatto i conti fino in fondo con il proprio passato (con la mafia, con il terrorismo, con il fascismo...) ben evidenziando le lunghe ombre e i troppi segreti irrisolti della nostra democrazia. Buscetta è una persona spregevole e sa di esserlo, ma è ben consapevole di far parte di un "sistema" che produce mostri per sua natura, per il lassismo delle istituzioni e per il marcio della sua classe dirigente (non a caso nel film viene riportata fedelmente la celebre frase di Falcone "ho più paura dello Stato che della mafia...")…


martedì 28 maggio 2019

Border - Creature di confine (Gräns) - Ali Abbasi

un film così non l'avete mai visto.
all'inizio Tina, e poi Vore sembrano usciti da Freaks, il film di Tod Browning, del 1932.
ma non è un film di mostri, solo di esseri umani diversi dalla maggioranza.
Ali Abbasi riesce a mostrare le paure verso gli altri, senza prediche e trucchetti, e come è difficile stare insieme.
guardate il film senza pensare a come finirà, non potete neanche immaginarlo.
non lasciatevelo scappare, è cinema di serie A.
buona visione - Ismaele







Più ci si addentra nella storia, più si rimane ipnotizzati dai vari cambi di registri: il viaggio verso la scoperta di se stessi, l’indagine su un caso di pedofilia e l’importante componente fantasy che riesce a unire il genere a una metafora sociale. Un ibrido perfettamente funzionante che riflette sui limiti e confini tra atavici impulsi e moralità della civiltà. Se l’attrazione per Vore è un gioioso senso di vertigine e riscoperta, la consapevolezza di una vita, sino a quel momento basata sulla menzogna, destabilizza Tina che non riesce a capire a quale mondo appartenga. Sensazioni contrastanti che passano dai protagonisti allo spettatore, in balia di una fiaba fantasy dal sapore coming of age. Ma anche  il risveglio sessuale ha un approccio fuori dall’ordinario e a dimostrarlo è una memorabile sequenza in cui i confini tra ferinità/umanità, maschile/femminile, si uniscono (con)fondendosi naturalmente tra loro. Border, più che raccontato, va vissuto.

…Ad individuare ed analizzare tutte le tematiche dentro Border c'è da scriverci un saggio.
Tematiche etiche, umane, sociali, di tutto.
E' anche difficile individuare quale, tra tutte, sia quella principale tanto che potremmo vedere questo metter dentro tante cose come un piccolo difetto.
Magari vediamone qualcuna.
Prima tra tutte c'è una metafora che potrebbe tranquillamente prescindere dal discorso umano-mostro ma che grazie a questo espediente risulta sicuramente più forte.
Ed è quella di scoprire chi si è.
Ogni persona dovrebbe avere il privilegio di scoprire, o capire, chi sia.
Spesso viviamo in luoghi, abitudini sociali o rapporti umani che sono lontanissimi dalla nostra vera essenza, sono soltanto il nostro adattamento a tutto quello che abbiamo intorno…

….Border è anche cinema e anche gran bel cinema.
Intanto il trucco dei due protagonisti è straordinario, c'è poco da dire.
Io, paradossalmente, ho amato ancora di più la figura di lui, così inquietante, dal sorriso bestiale sempre pronto a diventar ringhio, bellissimo.
Il regista, Abbasi, è davvero bravo e ci regala un film benissimo girato e fotografato splendidamente…

Che sia stato un autore transfrontaliero, cosmopolita, come Ali Abbasi – iraniano di nascita, danese di residenza, svedese di adozione e di passaporto – che i confini geografici e culturali li ha dovuti attraversare, a portare al cinema questa storia vorrà pur dire qualcosa. La sua empatia verso la coppia protagonista Tina-Vore è evidente e, in questa perlustrazione del cinema di genere e nella categoria del differente e del freak, in questo uso del mostruoso orrorifico come metafora, si affianca un’altra giovane regista della diaspora iraniana, la Ana Lily Armipour che ci ha dato negli anni scorsi prima A Girl Walks Home Alone at Night e poi The Bad Batch, premiato a Venezia. La donna-troll di Border è clandestina, esule nella propria patria, estranea a se stessa al punto da non conoscere la propria identità e da ritrovarla solo per un caso fortuito. E con il gioco delle metafore si potrebbe continuare all’infinito, ad esempio col dire che Borderè anche la rappresentazione della nostra – di noi tutti – animalità perduta, della nostra corporalità sacrificata ai processi di civilizzazione…

Autore svedese di origine iraniane, Ali Abbasi realizza un film sorprendente e immaginifico che inquieta e insieme meraviglia, incrociando cronaca sociale e atmosfera fantastica. I colpi di scena, tutti di rilievo, non sono mai gratuiti in Border che interroga la nozione di umanità, di animalità e le loro frontiere. Se la natura umana è mostruosa, non ci restano forse che i mostri per farci la lezione proprio come nelle favole gotiche di Guillermo del Toro.
Sottile e brutale, il film di Abbasi conduce su un terreno originale e perturbante, quello delle vecchie leggende rivisitate e di un fantastico sociale meravigliosamente ispirato. Al di là dei confini del titolo e del possibile, Border avanza attraverso una serie di rotture drammatiche che mettono in dubbio le apparenze. Quello che ci appare perbene pratica la pedofilia, quello che ci appare un'aberrazione genetica la combatte con un superpotere, un fiuto senza pari per l'abiezione umana. Ma Abbasi va ancora oltre, sollevando con la sua protagonista la questione dell'identità…

sabato 25 maggio 2019

Dolor y Gloria – Pedro Almodovar

un film d'amore, verso tutti, la madre, la vecchia fiamma argentina, il pittore della grotta, quando Mallo era bambino, nessuno escluso.
da un bel po' Pedro Almodóvar (senza Pedro, nei titoli del film) ha abbandonato le commedie fracassone della gioventù, per arrivare a film che parlano a tutti, come questo.
come sempre i film di Almodóvar hanno ottime musiche, qui il regista riscopre una canzone di Mina del 1961, musiche di Pino Donaggio.
Almodóvar sa come si fanno i film, ogni volta meglio.
se vi volete bene non privatevi di Dolor y Gloria, non ve ne pentirete, promesso - Ismaele 

ps: in una scena, a casa di Mallo (interpretato dal bravissimo Antonio Banderas, che ha appena vinto la Palma d'oro a Cannes come miglior attore, altro che i biscotti del Mulino Bianco) è poggiato sul tavolo di cucina un libro dei quadri di Antonio Lopez, pittore immortalato da Víctor Erice, nel film intitolato El sol del membrillo (in italiano è Il sole della mela cotogna), che aveva vinto il premio speciale della Giuria a Cannes nel 1992.





…E' un film malinconico ma che ha un vestito sgargiante e solare, un film malinconico ma non pessimista.
E poi la prova di Banderas è superlativa, la prova di qualcuno che sta dando vita proprio a chi a lui ha dato vita.
E come non finire sul passato, il passato di quei flash back che, scopriremo poi, altro che flash back sono, anzi, tutto l'opposto, sono il futuro di Salvador, sono la sua rinascita, sono il suo ritorno al lavoro, sono la sua serenità.
E sono tante le scene belle o bellissime, specie quelle nella magnifica location della grotta.
Come dimenticarsi ad esempio di quel bimbo che vede il ragazzo nudo e crolla, crolla giù sopraffatto dall'emozione, probabilmente il giorno zero della sua scoperta di identità e sessualità.
Ma c'è una scena prima che io ho trovato incredibile, talmente delicata e forte che mi ha commosso.
Il piccolo Salvador sta insegnando a scrivere al bello ma ciucco pittore.
Ad un certo punto mette la sua mano in quella dell'altro, per aiutarlo a scrivere.
Credo che poche volte io abbia visto un gesto così piccolo e sussurrato che racconti l'omosessualità.
E non è la mano di un adulto che prende quella di un bambino ma quella di un bambino che prende quella di un adulto.
Io credo che in quella mano lì ci sia tanto di Dolor y Gloria, ci sia l'emozione, la paura, il dolore, il desiderio che poi tutto il film racconterà.
Io credo che in quella mano ci sia Pedro Almodovar.
Ed è per questo che un film normale può diventare bellissimo.
Come bellissimo è quel bimbo che legge nella sedia.
Qualcuno gli sta facendo il ritratto.
E in questa istantanea, in questo scambio di letture e desideri, c'è una vita intera, quella che verrà…

"Il cinema della mia infanzia odora di pipì, di gelsomino, e della brezza d'estate".
Don Pedro torna alla grande con questo "Dolor y gloria", opera autobiografica sincera fino allo spasimo, divisa tra i dolori della vecchiaia (soprattutto fisici, ma anche morali) e il costante anelito alla gloria, che naturalmente si identifica nell'Arte e dunque nel cinema. E' un'opera molto densa di riflessioni, di umori, di vere e proprie folgorazioni audiovisive, sia nei flashback che sono inseriti con estrema fluidità nel corpo del racconto, sia in alcune sequenze che acquistano una forte intensità espressiva, soprattutto la recita a teatro da parte di Asier Etxeandia del testo "La dipendenza", che darà l'occasione al protagonista di un nuovo incontro con un suo passato amore in una sequenza struggente e recitata benissimo. Almodovar ormai non deve dimostrare più niente a nessuno, nonostante che i suoi ultimi film siano stati accolti meno positivamente, dimostra molto coraggio nel mettere in scena un suo alter ego presumibilmente molto vicino alla sua realtà odierna, anche negli aspetti meno gradevoli, offre ancora una volta numerose ricercatezze visive e sonore all'occhio e all'orecchio dello spettatore, compresa una canzone di Mina che non conoscevo. Il gusto "camp" dei primi film è praticamente sparito, sostituito da una padronanza melodrammatica che qui eguaglia alcune delle sue migliori prove come "Tutto su mia madre" o "Volver"; la direzione degli attori è magistrale, con un Banderas che rende con notevole precisione gli sbandamenti e le contraddizioni di Salvador, affiancato dagli altrettanto bravi Asier Etxeandia, Leonardo Sbaraglia e da una Penelope Cruz come al solito luminosa e perfettamente a suo agio in un film del suo maestro…

Il ritorno di Pedro Almodóvar dietro la macchina da presa è vulnerabile, introspettivo, familiare, necessariamente doloroso e struggente. La pellicola è un esame nostalgico ed astuto della vita del cineasta, è il tempo che ti presenta il conto, la maturità, i limiti del corpo che invecchia e le fragilità dell’anima, sono i ricordi e quella voglia di andar via per sempreEppure va avanti facendo quello che sa fare meglio, il cinema. Ed è così che Almodóvar, per l’ennesima volta, ci porta dentro le immagini di una storia magnetica e intima, ma questa volta lo fa diversamente, questa volta riesce inaspettatamente ad andare oltre. La cornice della narrazione è sempre la sua amata Spagna che ci appare vera, intricata, con mille sfaccettature da scoprire, e meravigliosamente rossa, colore principale dell’intera pellicola ed usato in modo superbo…


Dolor y gloria deve certamente molto (anche) a un Banderas in stato di grazia, che non nasconde neanche una ruga e sembra abbracciare nei lineamenti l’irrisolta inquietudine del personaggio, che fa un passo indietro laddove la valenza emotiva degli eventi potrebbe travolgerlo: non è un caso, in questo senso, che la sequenza forse emotivamente più esplicita – ambientata in un teatro – veda il protagonista fuori campo, fuori dal luogo fisico in cui il dramma – con l’incontro-chiave del film – si consuma; ma più che mai dentro la storia, rimpiazzato – ma non davvero sostituito – dall’amico con cui forse, ora, la comprensione reciproca diverrà più facile. Passato e presente, vita e creazione scenica, sogni mai rivelati e dolorose ricadute del loro tradimento, si alternano e mescolano davanti all’occhio dello spettatore senza strappi o scossoni, incastrandosi gli uni negli altri e nutrendosi a vicenda; fino alle estreme conseguenze di un finale in cui la valenza autobiografica della storia diviene esplicita e manifesta. Una conclusione in cui il carattere terapeutico (diremmo salvifico) del cinema, trova il suo ideale termine di paragone nella conservazione e cura del corpo fisico, quello finora offeso e quasi punito dal nichilismo del protagonista. La chiave di volta per arrivarci può essere un volto nella memoria, una parete imbiancata testimone di un mistero troppo difficile da comprendere per due ragazzini, o un disegno che ha attraversato chissà come i decenni. Ciò che conta è l’approdo, per Salvador come per Almodóvar, che come il suo protagonista ha probabilmente portato a casa una delle opere più importanti della sua carriera…

Pedro Almodóvar confeziona un'opera che ha dei momenti a volte surreali - la spiegazione in computer grafica dei malanni a inizio film sembra parte di una nuova serie di Quark - a volte irrimediabilmente comici - la telefonata in viva voce con il pubblico che aspetta Mallo a una proiezione - e altre volte di una dolcezza incredibile - il Mallo bambino che insegna a leggere e a scrivere al giovane carpentiere che in cambio aiuterà la madre con i lavori da fare nella nuova casa - ma sempre e in ogni caso lo fa in maniera delicata, soffice e gentile. 
Arrivando a sorprenderci in un finale che dimostra che Salvador Mallo, in fondo, ha ancora tantissime cose da dire... come Pedro Almodóvar. 
Più dolore che gloria in un film che commuove e affascina, con una messa in scena elegantissima e solida, interpreti in forma e una morbida sensazione che resta dentro a fine visione, di leggerezza e di riconciliazione con se stessi e con il Cinema.



giovedì 23 maggio 2019

L’uomo che comprò la luna, un film pericoloso - Omar Onnis




L’uomo che comprò la luna, il film di Paolo Zucca che si sta guadagnando l’attenzione del pubblico anche in Italia, è un film pericoloso.
Proprio per questo va visto.
Naturalmente la sua pericolosità dipende dalla prospettiva sotto cui lo si guarda.
Comincerei da qui: i diversi livelli di lettura.
La confezione dell’opera, il suo involucro potremmo dire, è il genere “commedia all’italiana”, con risonanze felliniane. Il tema centrale sembrerebbero gli stereotipi relativi alla Sardegna.
Ed è vero. C’è anche questo. È uno dei livelli di lettura possibili e, a naso, è anche quello che il pubblico italiano fatica meno a percepire, ed anzi apprezza.
Una commedia leggera, agrodolce, visionaria, a contenuto “etnico”.
Il pubblico apprezza l’intreccio surreale, le dinamiche tra i personaggi, la comicità tipica delle commedie degli equivoci.
E va benissimo. Ma non c’è solo questo.
Un aspetto che mi incuriosisce molto è se e quanto sia diversa la ricezione da parte del pubblico sardo rispetto a quella del pubblico italiano.
Sul “se”, non ho dubbi. La ricezione è diversa.
Probabilmente per il pubblico italiano in fondo si tratta di una commedia che rilancia i più familiari cliché sui sardi, a cui è abituato da tempo.
In questo senso, il rischio era di rievocare e rinnovare la tendenza a compiacere lo sguardo dell’osservatore esterno, tipica del nostro rapporto subalterno con l’Italia e con gli italiani.
Pericolo in buona parte disinnescato dalla ben architettata problematizzazione proprio di questa dinamica relazionale.
È uno dei motori narrativi del film.
La stessa assurdità di un “esame di sarditudine”, presieduto e valutato da “esperti” italiani, dovrebbe suscitare non solo l’ilarità ma anche qualche dubbio su una relazione tutt’altro che pacificata ed esente da equivoci di vario genere.
Per il pubblico sardo, invece, gli aspetti principali sono altri due.
Intanto è fondamentale che a fare dell’ironia e dell’umorismo sulle nostre fissazioni identitarie sia uno sguardo sardo.
Com’è giusto che sia, il nostro grado di accettazione dell’ironia o dell’umorismo sul nostro conto cambia drasticamente se essi provengono dall’esterno o se sono auto-riferiti.
Tanto meglio, poi, se ad essere messa alla berlina è proprio la pretesa dei non sardi di sapere perfettamente cosa sia “vero sardo” e cosa no.
La leggerezza e la capacità narrativa di Paolo Zucca (e ovviamente delle due autrici del soggetto e della sceneggiatura, Geppi Cucciari e Barbara Alberti) consentono di giocare sul tema della “sardità” senza che questo risulti mai offensivo, o volgare, o paternalistico (approccio figlio di una visione “razziale”, in fondo).
Regia e scrittura esaltate poi dalla recitazione efficace e “in parte” dei due protagonisti sardi principali, Jacopo Cullin e Benito Urgu.
I quali per altro mettono in scena una dialettica particolarmente intelligente tra le due anime della nostra diaspora.
Da un lato, la vergogna di sé e la rimozione della propria appartenenza (il Kevin Pirelli/Gavino Zocheddu di Jacopo Cullin).
Dall’altro l’auto-rappresentazione identitaria stereotipata e ferma nel tempo, fino a diventare cliché folkloristico (il Badore di Benito Urgu).
Nel film viene efficacemente disinnescato – proprio perché enfatizzato parodisticamente – l’auto-razzismo tipico del ceto medio istruito e intellettuale isolano, ma interiorizzato, tramite un duraturo e profondo processo egemonico, dalla maggior parte dei sardi.
Possiamo ridere di noi stessi e del nostro stesso mito identitario, insomma.
Ed è un riso liberatorio, perché fa giustizia tanto del nostro complesso di inferiorità (paralizzante e patogeno), quanto delle possibili pulsioni auto-esaltatorie (che non si sa mai dove finiscono).
Già in questo c’è un pericolo, attenzione. Ma non è tutto.
In realtà questo film ha anche una sua carica politica notevole.
Ben mimetizzata e tenuta a freno il tanto che basta a non farlo diventare uno stucchevole film “a tema”, o un manifesto ideologico.
Sia chiaro, non lo è e non ci si avvicina nemmeno.
Però è innegabile – e sfido a sostenere il contrario – che un altro dei nuclei tematici dell’opera sia una fortissima vena di riscatto storico.
Di cui la ribellione agli stereotipi degradanti, cui per tanto tempo la maggior parte dei sardi ha aderito acriticamente, è solo una premessa.
La potenza narrativa del film – altrimenti classificabile, appunto, come commedia surreale con venature etniche – risiede precisamente in questo livello di lettura più profondo.
Il cui segno più evidente è la trovata delle anime dei nostri personaggi storici (“che hanno lottato per a giustizia”) ospitate sulla Luna.
Luna, che, dunque, a buon diritto, anche per questa ragione può essere legittimamente posseduta da un sardo, a dispetto delle pretese statunitensi (con una significativa sequenza finale).
La stessa messa in scena del conflitto tra Sardegna e USA (con la mediazione degli apparati di sicurezza italiani) è una potente allegoria politica, nemmeno tanto mascherata.
La Sardegna – come pochissimi sanno fuori dall’isola – è uno dei principali teatri di addestramento e sperimentazione bellica della NATO, in Europa.
Cosa possa significare una rivendicazione di libertà dalla prepotenza *che viene dal mare* (come didascalicamente rappresentato nel film), per di più in nome della nostra stessa storia e dei personaggi rilevanti che l’hanno animata, non è una presa di posizione banale e contribuisce alla sensazione che questo film sia pericoloso.
Gli stessi personaggi sardi scelti sono estremamente indicativi della cifra politica che alimenta questo livello di lettura meno visibile.
Da Ampsicora, ad Eleonora d’Arborea, da Sigismondo Arquer a Giovanni Maria Angioy. E ancora, Paschedda Zau, Grazia Deledda, Emilio Lussu, Nino Gramsci, forse (mi è stato suggerito ma non sono riuscito a verificare) Michele Schirru.
Tutti lì, squadernati e presentati come nodi di una lunga trama che attraversa i secoli, di cui però non siamo consapevoli.
Per questi motivi si tratta di un film pericoloso.
È pericoloso per chi si aspetta di perpetuare la nostra condizione di subalternità contando sulla nostra passività o addirittura sulla nostra adesione.
È pericoloso per chi ancora vorrebbe usare la negazione di noi stessi e della nostra storia come strumento di controllo e di dominio.
È pericoloso per chi usa e vorrebbe continuare a usare la Sardegna per scopi e in nome di interessi esterni, privati, ostili a chi ci abita, eticamente discutibili, politicamente imbarazzanti.
È pericoloso anche per l’establishment politico e culturale isolano, sempre così pronto a farsi docile intermediario degli assetti di dominio grazie ai quali può prosperare, sia pure a discapito della maggioranza dei sardi.
È pericoloso anche perché è un film che ci insegna a non essere vittima noi stessi dei nostri complessi di inferiorità, facili a trasformarsi nella reazione megalomane che ne è il reciproco inverso.
Tutto questo, servito con la semplicità dello sguardo fanciullesco, che discerne il giusto dall’ingiusto senza troppi filtri e senza troppe sovrastrutture.
Proprio perché così pericoloso, è un film che bisogna vedere e di cui è necessario parlare.

mercoledì 22 maggio 2019

Was du nicht siehst (What you don't see) - Wolfgang Fischer

una vacanza diversa, per Anton, quando appare Frederick Lau (già protagonista de L'onda).
Anton conosce il rischio, la paura, il sesso, forse l'amore, nel rapporto con David e Katja.
in alcuni momenti si può pensare che scivolerà verso qualcosa del tipo Funny Games, ma è un timore ingiustificato.
vi auguro una buona visione - Ismaele









Anton, 17 anni, passa le vacanze in un cottage sulla scoscesa costa atlantica con sua madre Luzia e il suo fidanzato Paul. Mentre tra Luzia e Paul la relazione si fa sempre più serena, Anton viene tagliato fuori. Nel mezzo del paesaggio frastagliato della costa incontra una coppia di adolescenti, Katja e David. Anton si ritrova attirato in un vortice sempre più forte di confusione emozionale, in cui la scoperta del sesso, la seduzione e una violenza inaspettata hanno un ruolo fondamentale.

A strange and often fascinating melange of Hollywood psychological thriller and German romantic philosophy, "What You Don't See" (Was Du Nicht Siehst), the first film of 40-year-old Wolfgang Fischer, won't be liked by everyone. However, this broodingly dark and intermittently powerful film is highly evocative, and those who do like it will like it a lot. Similarly, what some may describe as a confused mess, others will find thematically rich.
Given the diversity of opinion that the film is likely to encounter, robust sales don't seem to be in the picture. Owing to its high production values, however, international ancillary sales, especially for television, should be excellent. A decent life on DVD also seems likely…

lunedì 20 maggio 2019

Stanlio e Ollio - Jon S. Baird

premessa 1
se esistesse il Paradiso, Stanlio e Ollio avrebbero entrambi la tessera numero 1, chi ha fatto ridere di gusto in tutto il mondo più di loro due?

premessa 2
quando ero ragazzino c'era un programma intitolato "Oggi le comiche", il sabato, e tornavamo da scuola velocissimi per non perderci neanche una puntata.

premessa 3
quando esistevano i cinema, ancora negli anni '70, la domenica mattina davano film comici o cartoni animati. 
la sala era piena di bambini  e bambine, ragazzine e ragazzini, centinaia e cantinaia, che facevano casino e ridevano, ma quando apparivano Stanlio e Ollio si rideva soltanto, anche se quel film o quella comica l'avevi già vista più volte.

il film
è una storia d'amicizia, quasi amore.
Steve Coogan (Stanlio) e John C. Reilly (Ollio) sono bravissimi, e convincenti, a interpretare i due giganti sul viale del tramonto.
ci sono dei momenti, sopratutto verso la fine, che commuovono, i due si dicono tante cose che mai si erano detti, e trovano finalmente le parole.
sono fragili, in balia degli impresari, Stanlio e Ollio, si fanno fregare sempre, loro sanno e vogliono solo far ridere, una delle cose piu difficili del mondo.
un film che ti dà più di quello che ti aspetti - Ismaele

ps: se qualcuno vuole rivedere i lavori di Stanlio e Ollio, ecco che 
raiplay ci offre decine dei loro lavori.


Poche cose sono tristi, cinematograficamente, come le narrazioni dei declini. Si dice che i comici siano dei depressi, e in quello che si dice c’è sempre qualcosa di vero; sul piano psicoanalitico, la loro tristezza diventa, per formazione reattiva, allegria e comicità. È con questa tristezza che ci mette a contatto il bel film di John Baird, dedicato a due personaggi che resteranno per sempre vivi nell’immaginario e nella memoria collettiva, Stanlio e Ollio…
 Come elaborare il lutto, il doppio lutto abbiamo visto di passato e di futuro, per due persone che hanno perso il solo mondo che conoscevano? Benché entrambi teneramente amati dalle rispettive mogli, io credo attraverso la loro amicizia, straordinario sodalizio umano e artistico per cui non si dà l’uno senza l’altro; la vera coppia sono loro. La reciproca dedizione, l’assoluta sintonia sembrano il mezzo, tutto umano, che consente la tolleranza di un declino inglorioso: ricordati eternamente per il film degli anni ’30, e del tutto dimenticati dopo.
Un dettaglio concentra il senso di questa fedeltà e l’intensità di questa nostalgia. Anche dopo la morte di Ollio, Stanlio continuerà a scrivere per loro due, per una coppia che non esiste più se non come oggetto interno e consolazione della memoria. Ma , indifferente al tempo, lui continua a scrivere per “Stanlio e Ollio”.



Il film di Jon S. Baird racconta un momento difficile come quello del declino della carriera di un attore: quanto è difficile reagire quando il successo ottenuto svanisce? Coogan ci ha detto ridendo: "Non lo so perché la mia carriera non ha mai avuto cedimenti. Sempre sulla cresta dell'onda". Qual è quindi il segreto di Stanlio e Ollio? "Penso che sia il loro cuore e quanto amassero gli esseri umani: nella loro commedia non c'è mai cattiveria, ma bonarietà e conoscenza della fragilità umana. Poi c'è anche un'amicizia duratura, una collaborazione affettuosa attraverso tutti questi folli guai" ci ha detto John C. Reilly. D'accordo il collega: "La cosa bella è che, non importa quante cose brutte siano accadute a Laurel e Hardy, sono sempre rimasti amici. Avevo un po' di paura a interpretare questo ruolo, ma è una cosa buona: è un bene essere spaventati, perché rimani concentrato. Sono i pionieri della commedia al cinema: la loro commedia è così essenziale che non è invecchiata, è senza tempo. È per questo che parliamo di loro ancora oggi"…

…A rendere tutto ancor più piacevole sono i due protagonisti, perfettamente calati nei rispettivi ruoli. Entrambi sono stati bravi a tirar fuori senza cadere nel caricaturale o nel macchiettistico gli aspetti più intimi e le sfumature dei due personaggi. Sebbene John C. Reilly abbia ottenuto per il ruolo di Ollio una nomination ai Golden Globes, mi sento di elogiare il lavoro di Steve Coogan, meno “aiutato” da mezzi tecnici come trucchi, nel dare il giusto aplomb e il giusto equilibrio alla sua interpretazione. Lodevoli sono anche le prove di Nina Arianda e Shirley Henderson, che hanno vestito i panni delle compagne dei due. Il loro arrivo dà un contributo notevole all’evoluzione dell’opera e permettere allo spettatore di scrutare ancor di più nelle mura domestiche di questi due grandi personaggi.

il film ha una vena didattica riscattata dalle performance strepitose dei due attori, che andrebbero sentiti in originale – il doppiaggio rovina l’incanto, quanto tempo ancora servirà per capirlo? Accanto a John C. Reilly c’è Steve Coogan di “Philomena”: il trucco aiuta, ma la precisione nei movimenti, quando ballano atteggiandosi a signorine con la gonnella, o quando rifanno qualche celebre gag, è impressionante.

Ad interpretare il duo negli ultimi anni di carriera sono due attori che si superano in quanto a capacità mimetiche: Steven Coogan e John C. Reilly sono infatti incredibilmente vicini agli originali, riproducendone al meglio tic, guizzi e movenze; alla loro qualità si aggiunge il merito del regista di aver calato il racconto in un'atmosfera generale di romantica malinconia, assecondando una sceneggiatura (di Jeff Pope) che ha l'esatto intento di sottolineare come a determinare le loro scelte, specie avvicinandosi inesorabilmente al canto del cigno, sia stato proprio un legame profondo e indissolubile fatto di affetto oltre che di rispetto e stima. In un film che si incentra sulla relazione umana intercorsa tra Laurel e Hardy filtrandola attraverso il ricordo di quello che è stato il loro genio ed il loro contributo all'arte comica a livello artistico, le scenette improvvisate (alla reception di un albergo come per la strada), così come gli screzi seguiti al riemergere dei fantasmi legati alla fine del vecchio sodalizio, o le difficoltà e le scelte sempre condivise in base alle condizioni di salute incerte di Oliver (con un ginocchio in disordine e il cuore debole) hanno sempre - e intenzionalmente - il sapore naif e genuino di un'amicizia tenera e vera.

…Il film di Baird utilizza poi il lavoro successivo del duo, per il mai realizzato Le fiabe di Laurel & Hardy, per farne un controcanto alla loro ultima tournée: nonostante i due attori continuino a provare e a lavorare a nuove gag comiche, il film non si farà mai. Entrambi lo sanno, ma nessuno ha il coraggio di dirlo all’altro: il loro tempo è passato, tocca ad altri.
Eppure è qui che Stanlio e Ollio si fa più elegiaco e amaro: nel racconto dei due giganti indistruttibili sullo schermo, che la vita ha trasformato inesorabilmente in uomini fragili, vessati dall’età e dalla malattia, capaci ancora di ritrovare se stessi solo sulle assi di un palcoscenico, per un ultimo spettacolo assieme.
Baird è bravo a ricostruire la perfezione comica di quegli sketch, la consumata abilità dei due di giocare con se stessi e con i loro ruoli.
Quando si spengono le luci, tutto è ancora possibile: l’inganno è sotto gli occhi di tutti, ma il trucco è riuscito ancora. La magia si innova, il pubblico ride. Non restano che gli applausi.

domenica 19 maggio 2019

Remember - Federico Zampaglione


La prima cosa bella – Gabriele Romagnoli


La prima cosa bella di giovedì 16 maggio 2019 è la battuta di un vecchio film. Su Sky avevano dedicato un canale a Sergio Leone (reperibile su Sky Go). Ognuno ha il suo film preferito. Il mio è Giù la testa. Un po’ per il ricordo di quando, a 11 anni, mio padre mi portò a vederlo, al Corallo, una sala di seconda visione alla periferia di Bologna.

Il Corallo poco dopo divenne un cinema porno che, unico nel genere, apriva alle 10 e sulla locandina di Labbra bagnate qualcuno aggiunse “di cappuccino”. E un po’ per quella battuta, diventata famosa. James Coburn, enorme nella parte dell’Irlandese, viaggia sul treno destinato a schiantarsi contro quello dei nemici, imbottito di tritolo.

Un attimo prima di saltare, su quel confine di verità tra la vita e la morte, dice al dottore: “Quando ho cominciato a usare la dinamite, allora credevo in tante cose, in tutte... e ho finito per credere solo nella dinamite”.

La battuta è perfetta perché è un’intuizione della natura umana. Guardatevi intorno. Quanti avevano idee, discutibili o no, scrivevano libri, conoscevano l’arte, facevano politica con qualche intenzione, poi un giorno hanno esploso un petardo, la cosa ha fatto rumore e da allora sono tutta dinamite e niente idee. Poi solo fumo. Poi niente.

sabato 18 maggio 2019

Journal 64 (The Purity of Vengeance) - Christoffer Boe

un'altra strepitosa avventura di Carl e Assad, è il quarto film che fanno insieme, li ho visti tutti, sono film che danno soddisfazione, e anche questo è un film per il quale ci sarebbero le file per vederlo.
non li portano mai da noi, ma voi sapete come fare per vederli tutti e quattro.
potrei dirvi qualcosa sul film, ma non ve lo dico, per non togliervi la sorpresa.
cercat li e godetene tutti - Ismaele






L'ultimo capitolo, si dice definitivo, della coppia di poliziotti danese e del Dipartimento Q, affronta un tema non certo nuovo, ma sicuramente attuale. Una macabra scena del crimine che uno squarcio sui lati più oscuri della Danimarca passata, tra istituti fin troppo simili alle Magdalene irlandesi ed esperimenti che ricordano I ragazzi venuti dal Brasile. Sterilizzazione di donne traviate nel passato e subite da etnie immigrate nel presente, sempre con avalli più o meno nascosti a livello governativo. Sempre di qualità eccellente, con personaggi ormai familiari per coloro che hanno visti i film precedenti ed un cattivo degno del Mengele nazista. Qualche situazione un po' forzata a livello di sceneggiatura, ma sono piccoli difetti.

Pour devenir un grand film, Dossier 64 aurait dû être plus ambitieux, original et sombre. Il aurait même pu se dispenser de clichés gênants. Mais ce n’est pas ce qu’il vise : polar de dénonciation, il aspire à ce que son spectateur soit pris dans une intrigue bien ficelée et qu’il en profite pour réfléchir (un peu). Ce n’est donc pas ici qu’il faut s’attendre à un renouvellement du genre ou même à sa contestation. Au moins y passe-t-on un moment agréable où l’on pourra frémir et s’indigner en toute bonne conscience. La morale, simple et laconique, proférée par Carl, mérite d’être citée : « Dieu est mort, l’État est démissionnaire, mais l’amour triomphe»
Y lo cierto es que el director Christoffer Boe cumple con las expectativas previas que pudiera sugerir su cinta, a la que, además, refuerza y perfila con constantes toques de humor negro esparcidos a lo largo de la trama que de alguna forma subvierten la cargante atmosfera de seriedad y pesadez grandilocuente y pseudotrascendente característica de este tipo de literatura –y las adaptaciones resultantes–.
Uno de los grandes aciertos de Expediente 64 radica, pues, en no tomarse en serio a sí misma. La pareja protagonista adquiere un papel determinante para este fin desmitificador: si bien su relación evoluciona de manera tópica y forzada, el carisma de los dos protagonistas se sobrepone a este hándicap para ganarse el favor de un público que quizá no cree tanto en lo que ocurre, pero sí en a quién le ocurre. El contraste tonal alcanza un equilibro completo en el clímax del filme, donde lo sobrecogedor de los hechos se complementa brillantemente con la hilaridad de las formas.

Desde el 2015 hasta ahora hemos tenido varias películas basadas en las novelas de Jussi Alder-Olsen. En este caso nos llega la cuarta entrega de un departamento que no es que resuelva sus casos con un singular estilo, es que tiene una pareja de investigadores con mucho gancho.
Esta buddy movie conserva sus dos protagonistas de siempre, los cuales son muy diferentes entre sí. Uno de ellos bastante borde, frío y carente de tacto. El otro mucho más cercano y empático. En este nuevo título su relación está en peligro y eso impacta en la investigación de un caso que arranca con una escena del crimen potentísima.
El desarrollo y conclusión del nuevo crimen que ha sido dirigido por un nuevo director en la saga, Christopher Boe, es casi lo de menos. La fuerza de sus imágenes y escenas o el valor de la historia que cuenta son lo más importante en una serie de películas que queremos seguir viendo y que desde hoy mismo Vértigo Films continúa en cines.