sabato 25 maggio 2019

Dolor y Gloria – Pedro Almodovar

un film d'amore, verso tutti, la madre, la vecchia fiamma argentina, il pittore della grotta, quando Mallo era bambino, nessuno escluso.
da un bel po' Pedro Almodóvar (senza Pedro, nei titoli del film) ha abbandonato le commedie fracassone della gioventù, per arrivare a film che parlano a tutti, come questo.
come sempre i film di Almodóvar hanno ottime musiche, qui il regista riscopre una canzone di Mina del 1961, musiche di Pino Donaggio.
Almodóvar sa come si fanno i film, ogni volta meglio.
se vi volete bene non privatevi di Dolor y Gloria, non ve ne pentirete, promesso - Ismaele 

ps: in una scena, a casa di Mallo (interpretato dal bravissimo Antonio Banderas, che ha appena vinto la Palma d'oro a Cannes come miglior attore, altro che i biscotti del Mulino Bianco) è poggiato sul tavolo di cucina un libro dei quadri di Antonio Lopez, pittore immortalato da Víctor Erice, nel film intitolato El sol del membrillo (in italiano è Il sole della mela cotogna), che aveva vinto il premio speciale della Giuria a Cannes nel 1992.





…E' un film malinconico ma che ha un vestito sgargiante e solare, un film malinconico ma non pessimista.
E poi la prova di Banderas è superlativa, la prova di qualcuno che sta dando vita proprio a chi a lui ha dato vita.
E come non finire sul passato, il passato di quei flash back che, scopriremo poi, altro che flash back sono, anzi, tutto l'opposto, sono il futuro di Salvador, sono la sua rinascita, sono il suo ritorno al lavoro, sono la sua serenità.
E sono tante le scene belle o bellissime, specie quelle nella magnifica location della grotta.
Come dimenticarsi ad esempio di quel bimbo che vede il ragazzo nudo e crolla, crolla giù sopraffatto dall'emozione, probabilmente il giorno zero della sua scoperta di identità e sessualità.
Ma c'è una scena prima che io ho trovato incredibile, talmente delicata e forte che mi ha commosso.
Il piccolo Salvador sta insegnando a scrivere al bello ma ciucco pittore.
Ad un certo punto mette la sua mano in quella dell'altro, per aiutarlo a scrivere.
Credo che poche volte io abbia visto un gesto così piccolo e sussurrato che racconti l'omosessualità.
E non è la mano di un adulto che prende quella di un bambino ma quella di un bambino che prende quella di un adulto.
Io credo che in quella mano lì ci sia tanto di Dolor y Gloria, ci sia l'emozione, la paura, il dolore, il desiderio che poi tutto il film racconterà.
Io credo che in quella mano ci sia Pedro Almodovar.
Ed è per questo che un film normale può diventare bellissimo.
Come bellissimo è quel bimbo che legge nella sedia.
Qualcuno gli sta facendo il ritratto.
E in questa istantanea, in questo scambio di letture e desideri, c'è una vita intera, quella che verrà…

"Il cinema della mia infanzia odora di pipì, di gelsomino, e della brezza d'estate".
Don Pedro torna alla grande con questo "Dolor y gloria", opera autobiografica sincera fino allo spasimo, divisa tra i dolori della vecchiaia (soprattutto fisici, ma anche morali) e il costante anelito alla gloria, che naturalmente si identifica nell'Arte e dunque nel cinema. E' un'opera molto densa di riflessioni, di umori, di vere e proprie folgorazioni audiovisive, sia nei flashback che sono inseriti con estrema fluidità nel corpo del racconto, sia in alcune sequenze che acquistano una forte intensità espressiva, soprattutto la recita a teatro da parte di Asier Etxeandia del testo "La dipendenza", che darà l'occasione al protagonista di un nuovo incontro con un suo passato amore in una sequenza struggente e recitata benissimo. Almodovar ormai non deve dimostrare più niente a nessuno, nonostante che i suoi ultimi film siano stati accolti meno positivamente, dimostra molto coraggio nel mettere in scena un suo alter ego presumibilmente molto vicino alla sua realtà odierna, anche negli aspetti meno gradevoli, offre ancora una volta numerose ricercatezze visive e sonore all'occhio e all'orecchio dello spettatore, compresa una canzone di Mina che non conoscevo. Il gusto "camp" dei primi film è praticamente sparito, sostituito da una padronanza melodrammatica che qui eguaglia alcune delle sue migliori prove come "Tutto su mia madre" o "Volver"; la direzione degli attori è magistrale, con un Banderas che rende con notevole precisione gli sbandamenti e le contraddizioni di Salvador, affiancato dagli altrettanto bravi Asier Etxeandia, Leonardo Sbaraglia e da una Penelope Cruz come al solito luminosa e perfettamente a suo agio in un film del suo maestro…

Il ritorno di Pedro Almodóvar dietro la macchina da presa è vulnerabile, introspettivo, familiare, necessariamente doloroso e struggente. La pellicola è un esame nostalgico ed astuto della vita del cineasta, è il tempo che ti presenta il conto, la maturità, i limiti del corpo che invecchia e le fragilità dell’anima, sono i ricordi e quella voglia di andar via per sempreEppure va avanti facendo quello che sa fare meglio, il cinema. Ed è così che Almodóvar, per l’ennesima volta, ci porta dentro le immagini di una storia magnetica e intima, ma questa volta lo fa diversamente, questa volta riesce inaspettatamente ad andare oltre. La cornice della narrazione è sempre la sua amata Spagna che ci appare vera, intricata, con mille sfaccettature da scoprire, e meravigliosamente rossa, colore principale dell’intera pellicola ed usato in modo superbo…


Dolor y gloria deve certamente molto (anche) a un Banderas in stato di grazia, che non nasconde neanche una ruga e sembra abbracciare nei lineamenti l’irrisolta inquietudine del personaggio, che fa un passo indietro laddove la valenza emotiva degli eventi potrebbe travolgerlo: non è un caso, in questo senso, che la sequenza forse emotivamente più esplicita – ambientata in un teatro – veda il protagonista fuori campo, fuori dal luogo fisico in cui il dramma – con l’incontro-chiave del film – si consuma; ma più che mai dentro la storia, rimpiazzato – ma non davvero sostituito – dall’amico con cui forse, ora, la comprensione reciproca diverrà più facile. Passato e presente, vita e creazione scenica, sogni mai rivelati e dolorose ricadute del loro tradimento, si alternano e mescolano davanti all’occhio dello spettatore senza strappi o scossoni, incastrandosi gli uni negli altri e nutrendosi a vicenda; fino alle estreme conseguenze di un finale in cui la valenza autobiografica della storia diviene esplicita e manifesta. Una conclusione in cui il carattere terapeutico (diremmo salvifico) del cinema, trova il suo ideale termine di paragone nella conservazione e cura del corpo fisico, quello finora offeso e quasi punito dal nichilismo del protagonista. La chiave di volta per arrivarci può essere un volto nella memoria, una parete imbiancata testimone di un mistero troppo difficile da comprendere per due ragazzini, o un disegno che ha attraversato chissà come i decenni. Ciò che conta è l’approdo, per Salvador come per Almodóvar, che come il suo protagonista ha probabilmente portato a casa una delle opere più importanti della sua carriera…

Pedro Almodóvar confeziona un'opera che ha dei momenti a volte surreali - la spiegazione in computer grafica dei malanni a inizio film sembra parte di una nuova serie di Quark - a volte irrimediabilmente comici - la telefonata in viva voce con il pubblico che aspetta Mallo a una proiezione - e altre volte di una dolcezza incredibile - il Mallo bambino che insegna a leggere e a scrivere al giovane carpentiere che in cambio aiuterà la madre con i lavori da fare nella nuova casa - ma sempre e in ogni caso lo fa in maniera delicata, soffice e gentile. 
Arrivando a sorprenderci in un finale che dimostra che Salvador Mallo, in fondo, ha ancora tantissime cose da dire... come Pedro Almodóvar. 
Più dolore che gloria in un film che commuove e affascina, con una messa in scena elegantissima e solida, interpreti in forma e una morbida sensazione che resta dentro a fine visione, di leggerezza e di riconciliazione con se stessi e con il Cinema.



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