lunedì 30 settembre 2019

Burning - Chang-dong Lee

Jong-su è un ragazzo povero, che fa dei lavoretti per sopravvivere, con un furgoncino arrugginito.
così inizia il film, e non tutto quello che ascoltiamo e vediamo, forse, succede davvero.
resta un'assenza, quella di Hei-mi, e un rogo liberatorio.
il terzo protagonista è Ben, un riccone che "ruba" Hei-mi a Jong-su.
l'odore dei soldi e le passeggiate in Porsche, e non nel furgone arrugginito di Jong-su, convincono la ragazza al cambio di fidanzato.
e il fuoco, e la musica, e il gatto, e l'orologio e tante altre cose appaiono, e alcune convincono il povero Jong-su alla vendetta.
Chang-dong Lee ha fatto pochi film, tutti memorabili, e anche questo non è male, ma cercateveli tutti, non sarà tempo perso, promesso - Ismaele






…sono tantissimi gli indizi per farci pensare che tutto sia immaginato.
Quel gatto invisibile, la scena del mimo, le chiamate a vuoto (forse della madre persa da tempo. Poi quando si vedranno tutto sarà surreale), quella luce riflessa in casa di Hae-mi, il fatto che la stessa Hae-mi (ma anche Jong-su) si addormentino sempre, la figura di Ben che probabilmente rappresenta quello che il giovane Jong-Su vorrebbe essere (e non nascondo che più volte il film mi è sembrato Enemy), la storia sull'essere affamati di Vita, il pozzo che è esistito e non esistito, il bruciare serre da parte di Ben (che ci portano sia alla scena del passato di Jong-su che a quel suo bruciare i vestiti di mamma una volta che lei andò via), la scomparsa nel nulla di Hae-mi, quel correre disperato di Jong-su (come se la mente andasse a ricercare qualcosa che non trova), il suo continuo riferimento al romanzo che sta scrivendo (non può essere casuale)…

Imbastita una trama quasi criminale che incrocia quella romantica, il film fa cadere i suoi pezzi ad uno ad uno. Invece che aiutare il protagonista, fornendogli un buon intreccio su cui basare il suo romanzo, la storia del film lo frustra accumulando domande e mancati finali. Ovviamente frustra anche noi e non sempre Lee Chang-dong è in grado di compensare con sequenze mostruose per intensità, forza ed evidenza sentimentale come è la prima.
Qualcuno sparirà e tornerà, qualche conto invece non tornerà mai. Il punto è che per Burning - L’amore brucia non tutto si può vedere, molto poco si può conoscere e quasi nulla si può capire di quello che ci circonda, tantomeno i film o i romanzi possono portare vera conoscenza, semmai squarciare lampi di lucidità, stimolare riflessione, mettere dubbi e far balzare domande che prima non esistevano nemmeno.
Chi scrive non ha amato in toto il film (molto meglio Oasis!) ma è impossibile non nutrire un forte rispetto nei suoi confronti. Nella maniera in cui assorbe lo spettatore in uno spettacolo di vario genere, che cambia di continuo e che rifiuta metodicamente di obbedire alle buone regole della narrazione, trovando invece una maniera sua di mettere in scena tre persone, una storia, un enigma e il più classico dei motori, cioè un amore non corrisposto. Sembra tutto banale ma nelle mani di Lee Chang-dong, che manipolano Faulkner e Murakami, non lo è.

Ogni personaggio del film “esiste” laddove è presente anche Jongsu. Non sappiamo mai che cosa facciano gli altri in fuoricampo, tutto quello che accade nel film accade perché lo vede (lo immagina?) il suo protagonista, e questo vale tanto per i due coprotagonisti – Haemi e Ben – quanto per le figure di contorno, dal padre del ragazzo che continua a subire processi per i suoi scatti d’ira violenti, alla madre che ricompare – misteriosamente… –  dopo essere fuggita di casa 16 anni prima…

Jong-su vive un’esistenza precaria, priva di sicurezze, coltivando sentimenti pronti ad esplodere. Ben non si impone limiti perché niente gli è precluso, paragona la sua millantata piromania con la moralità della natura, la quale non sceglie di agire e distruggere sulla base del giusto o del torto, ma semplicemente nel nome dell’agire e del distruggere stessi. Due personaggi vicini e lontani, diversi per condizione sociale e per modo di essere, in grado di rappresentare tutte le contraddizioni sociali della Corea del Sud. Soprattutto quelle di una generazione arrabbiata, termine usato proprio da Chang-dong Lee per descrivere il più complesso stato di afflizione di un Paese pieno di conflitti interni ed esterni (dalla casa del protagonista si sentono, infatti, i messaggi propagandistici provenienti dall’altra Corea). Burning è dunque un racconto molto flemmatico, introspettivo e fuorviante che da un illeggibile microcosmo vuole disvelare un più evidente macrocosmo, attraverso una regia perfetta, quasi invisibile, e le interpretazioni maiuscole dei suoi protagonisti.

Burning es una excelente película y del mismo modo como ha pasado este año con Lazzaro feliz, se agradece que hayan arriesgado en ponerlas en sección oficial. De este modo también se nos invita a preguntar donde reside realmente lo fantástico y lo terrorífico, y si este puede estar impregnado en situaciones cuotidianas como las que plasman estas dos películas. Dos maravillosas muestras de cine sin barreras, que arriesgan, son mutables y llegan al corazón.


Chang-dong Lee dirige el drama misterioso de forma magistral. Personajes que parecen tener una moralidad negativa y discreta, relaciones que no parecen funcionar con estándares sociales normales, y un tratamiento pasivo de la paranoia. ‘Burning’ nos regala una travesía por la mente perturbada de un joven que nunca sintió y que ahora se enfrenta a un despertar sexual agresivo, y que casi inmediatamente se convierte en una búsqueda desesperada por la verdad. Y es acá donde la cinta realza el género abordado. La verdad detrás de los hechos podría no ser la que vemos en la historia, pero la realidad es que también podría serlo. La película conlleva a un ritmo claustrofóbico que nunca pretende solucionar el enigma principal. Tampoco aporta mucho para que giremos hacia el lado inocente del protagonista. Hay una preferencia explícita para mantener al espectador dialogando con su propia paranoia. Sí, hay algo extraño en Ben y su dilatadora expresión. El misterio existe y, si se materializa, podría ser una experiencia aterradora.
Pero ‘Burning’ no cae en lo típico del horror; se aleja de ser tan vulgar en su carácter de resolución. Manteniendo el límite para que Jong-su sea víctima de su propia ignorancia, la película se resuelve en una alegoría. Un tributo a lo más oscuro de nuestra capacidad de etiquetar a quien podría o no merecer una etiqueta, aunque las señales sean claras.

El principal problema viene en la segunda mitad, donde la historia no lleva a ninguna parte, las interpretaciones se van perdiendo y la historia no consigue dar ninguna sola respuestas a sus continuos enigmas. Se me hacen muy pesados esos continuos silencios y la lentitud de la cámara en muchos momentos por parte del director. Se nota que Lee Chang-Dong maneja la situación como él quiere, pero no consigue atraparme y encima logra que la ultima hora de la cinta se me haga insoportable.

Brillante en todos los sentidos, tierna y poética, acaba convirtiéndose en una obra maestra apta para todos aquellos amantes de un cine diferente que va mucho más allá de las imágenes que van apareciendo en pantalla. Que estas acaben convirtiéndose en algo más que primitivas sensaciones, es algo que está alcance solo de los elegidos. Chang-dong Lee es uno de ellos.El elenco está a la altura. Empezamos por una hechizante y debutante Jong-sep Jeon en el papel de Hae-mi, todo un recital de riqueza interpretativa. Seguimos con el ya veterano a pesar de su edad Ah-In Yoo (SadoVeteran. Por Encima de la Ley) y acabamos con Steven Yeun (MayhemOkja) en un desconocido registro.
Estamos ante uno de los títulos, no ya de la temporada, sino de la década, en nuestra opinión claro está. De vosotros depende darnos la razón o no. Para eso tenéis que gastar 148 minutos que os podemos garantizar que serán de los mejores utilizados de vuestra vida.
da qui

…Si tratta, insomma, di un film di pura messa in scena. Un film che per trasmettere una storia in potenza, solo possibile, che non si realizza mai in atto se non nel momento in cui si inscrive in ciò che fin dall’inizio è fuori dalla dinamica potenza-atto in quanto destino (non riveleremo certo in che modo, ma è qui che si incastra, genialmente, la sottotrama sull’intemperante padre di Jongsu alle prese con la giustizia), gioca alla grande con la luce studiatamente naturale degli esterni, con le atmosfere di albe e tramonti, con la flagranza dei luoghi, con un dipanarsi della narrazione che è arioso ed ellittico al tempo stesso, e che accetta di perdersi in pause contemplative per seguire le danze di Haemi, o le interminabili corse nella campagna di un Jongsu le cui ragioni ci sono né chiare né oscure, ma piuttosto oscuramente chiare. Grazie a questo brillante lavoro di messa in scena, Burning riesce ad essere un film limpidissimo e segreto al tempo stesso. Come lo è del resto il dislivello di classe, e la conseguente invidia di classe, che Lee Chang-dong nelle interviste dichiara essere, abbastanza improbabilmente, il centro del film. La differenza tra l’agiatissimo Ben e l’indigente Jongsu, che è dentro fino al collo in un inferno di precariato giovanile di cui il film ha cura di sottolineare le aberrazioni, è lì, spiattellata davanti ai nostri occhi in tutta la sua visibilità. Ma è una visibilità tanto accecante quanto fine a se stessa: se c’è chi nuota nell’oro e chi invece si arrabatta come può, è così è basta. Senza ragioni.


sabato 28 settembre 2019

Elena - Petra Costa

due sorelle che hanno una differenza d'età che la grande fa un po' la sorella un po' la mamma.
quando Elena sparisce, drammaticamente e sola a New York, a Petra manca una sorella e anche più.
Petra ricerca le orme di Elena a NY.
è un film bello e doloroso, Petra ha biogno di ricordare e lasciare traccia della sorella, e, come Ungaretti dice dMoammed Sceab, solo Petra sa ancora che Elena visse.
un film che merita - Ismaele





QUI il film completo



...Ci sono casi, come questo, in cui il cinema è necessario come una terapia, anzi è la terapia stessa. Legata alla sorella scomparsa da una somiglianza abbagliante, da un amore spezzato e da troppe domande senza risposta, la regista ripercorre la vita della sorella, la propria e quella della madre in cerca di uno scarto salvifico.
Paradossalmente, nonostante s'incolli nella memoria del suo spettatore, Elena è un film fatto per essere superato dalla sua autrice: pena la stasi, la follia, il possibile riproporsi di un destino tragico. Solo mettendo nuovamente in scena la vita e la morte, solo facendosi scrittrice, regista e montatrice di un racconto (per quanto dolorosamente vero), Petra può chiudere il capitolo. Poco importa, allora, se certe immagini sono più forti di altre, se certi deliri più o meno toccanti o condivisibili: la forza del film, che è tanta, è tutta nel gesto del filmare, di indossare la voce dell'altra, di prendere la sua strada (letteralmente, la strada della casa di N.Y.), di andare fino in fondo alla confusione dell'una con l'altra, per uscirne diversa e sola. Soprattutto, la forza è quella sentimentale della restituzione di un grande affetto. C'è stata infatti una stagione della vita di Elena -lo testimoniano i materiali di repertorio- in cui il suo cuore non era vuoto ma pieno d'amore per la sorellina. Due decenni dopo, Petra ripaga con questo gesto tardivo ma obbligato i tanti gesti d'amore della sorella e lo fa con lo stesso mezzo che amava usare Elena, quello del cinema.
Parlare di documentario ha pochissimo senso per questo mosaico di suoni e immagini dove tutto è documento, direttamente dalla fonte, eppure tutto rimanda a una sfera altra, quella dell'emozione, fatta di ricordi sublimati, paure cronicizzate, rimorso, rimpianto e quanto di più bruciante la mente umana possa contenere ed elaborare. Il film stesso è così: non è fatto di molto, ma evoca anche le immagini che non possiede.

No es una obra de arte, es un filme discreto, pequeño, pero que al reflejarse sincero y humano sin complicaciones –no da esa sensación aunque ha tenido más que seguro trabajo- en tratar de acaparar la atención salvo algún toque de autor secundario que se amolda al conjunto tiene mucho atractivo para el espectador sensible, y por tal tiene ganado nuestro respaldo. Después, al ser una historia que acontece mucho en el ser humano, la subyugación al vacío, de la mente enajenada, sirve como una auscultación (personalizada) a una realidad, y queda como documento. Aunque lo más importante es aquel espíritu que sobrevuela el filme en la nobleza del amor incondicional y la rememoración audiovisual, un homenaje al ser amado, que deja de ser solo de Petra y pasa a ser de todos, en donde tras la pantalla Elena sonriente seguirá danzando en la calle para siempre.

giovedì 26 settembre 2019

La vita invisibile di Eurídice Gusmão - Karim Aïnouz

due sorelle inseparabili vengono separate da un padre all'antica, come ce ne sono sempre e dappertutto.
l'onore e la reputazione della famiglia sono stati alcuni dei grandi crimini dell'umanità, fra i tanti.
il film è "normale2 nella prima parte, ha una gine strepitosa, merito di una sceneggiatura a orologeria.
Guida insegue l'amore e si fa portare fino in Grecia, ma quello che la seduce è solo un trombeur de femmes.
Euridice l'aspetterà per sempre, vivendo una vita insoddisfacente, con un marito che la tiene praticamente prigioniera.
Esce in poche sale, cercatelo, non sarete delusi - Ismaele








Vincitore del prestigioso primo premio della sezione Un Certain Regard all'ultimo Festival di Cannes, il film si concentra su due sorelle, Euridice e Guida, cresciute in Brasile in una famiglia rigida e conservatrice. Le due sono unite e inseparabili, ma tutto cambia quando Guida scappa all'estero con il suo amante. Mesi dopo, la ragazza torna a casa, sola e incinta, ma il padre non riuscirà a perdonarla: la bandisce dalla famiglia e le dice che sua sorella è partita per studiare musica a Vienna e che non vuole più avere alcun contatto con lei.
Tra i nomi più interessanti del cinema brasiliano contemporaneo, Aïnouz firma con questa pellicola il suo lavoro migliore, un dramma intenso, giocato sui segreti e le bugie di un nucleo familiare controllato da un padre autoritario, che decide di forzare le due figlie a rimanere distanti.

Euridice e Guida cercano di prendere il controllo dei loro destini separati, tentando di trovare da sole la forza per superare diversi ostacoli, senza l'appoggio reciproco, ma con il comune desiderio di ritrovarsi.
Qualche passaggio narrativo può risultare troppo costruito a tavolino, ma nel complesso il film funziona e convince, soprattutto per il notevole approfondimento psicologico dei personaggi.
Anche l'apparato formale è raffinato, ma colpiscono ancora di più le prove di un cast in buona forma, in cui tutti gli attori risultano credibili al punto giusto.

 dalla tessitura davvero ammaliante di immagini e suoni con cui Aïnouz, architetto e artista prima che regista, avvolge queste due vite segnate dal segreto.

L’acqua di una cascata, un’esecuzione musicale, la prima notte di nozze di Euridice, gli avvertimenti di un’amica, la nuova e più ricca vita di Guida accanto a una nera dei quartieri umili, le umiliazioni e le riscosse di entrambe, la fierezza e la coscienza di sé che non le abbandonano mai: in ogni momento, dal più lirico al più osceno (il sesso è filmato con disincantato realismo), Aïnouz trova il taglio, il ritmo, la grana, i colori, per dominare il tumultuoso susseguirsi di eventi andando dritto al cuore, delle protagoniste e dello spettatore. Il romanzo di Martha Batalha da cui è tratto il film (Feltrinelli) non poteva trovare trascrizione più libera e più emozionante
“La vita invisibile di Eurídice Gusmão”

Un’epopea personale ed intima senza quella patina glamour che spesso i film d’epoca hanno, soprattutto se virati al femminile.
Un’opera che sarebbe un peccato perdersi e che può farci scoprire una cinematografia come quella brasiliana, spesso in difficoltà ma con una gran voglia di non farsi schiacciare da politiche infelici e farsi strada a livello internazionale. Un modo è sicuramente anche quello di raccontare storie come questa.
da qui

… A metà strada fra Douglas Sirk e Pedro Almodovar (ma in assoluta autonomia) la pellicola è anche una interessante, profonda riflessione sul melodramma e sulla sua importanza narrativa, poiché qui sono proprio le modalità classiche del genere che aiutano il regista  a  rendere palpabile l’interiorità  di queste due figure così ben raccontata nel romanzo attraverso l’utilizzo delle parole  (che sono una peculiarità specifica della letteratura) ma così difficile da trasferire  sullo schermo con la stessa intensità e chiarezza, se non si vuole essere verbosi e didascalici. Qui l’operazione è perfettamente riuscita anche in forma prettamente cinematografica, poiché i loro intimi sentimenti ci vengono fatti percepire attraverso il sapiente utilizzo dei corpi e dei loro movimenti, con l’ulteriore aiuto degli sguardi, delle espressioni dei volti, del montaggio e della composizione interna alle inquadrature, tutti elementi che Aïnouz  domina con assoluta maestria e utilizza altrettanto bene rispettando (ma anche innovando perché non va mai sopra le righe ed evita ogni piccola, possibile smagliatura o caduta di ritmo - e il film dura ben oltre le due ore!) le regole canoniche fissate per il melodramma.
Il film di Aïnouz insomma, oltre ad essere un dramma potente e un vero canto d’amore fra sorelle, ha anche una valenza sociale  di straordinaria rilevanza poiché è sì ambientato nel retrogrado Brasile degli anni ’50 del secolo scorso. ma  quello che racconta si riverbera magistralmente anche sul presente e non solo del Brasile (che si presenta ancora ai giorni nostri più arido di affetti che torrido di clima se mi si consente questo paragone) ma del mondo intero poiché vediamo tutti anche nella stretta cerchia delle nostre conoscenze, quante sono ancora ai giorni nostri le donne alle quali vengono tarpate le ali…

È visivamente ricco, La vita invisibile di Eurídice Gusmão, di una ricchezza che per una volta non collide – ma anzi si integra alla perfezione – con la densità e pregnanza della sua narrazione. La macchina da presa del regista sta incollata alle sue protagoniste, colora volti e ambienti con le tonalità dei diversi gradienti emotivi della storia, supportata in questo da un tappeto musicale che (spesso coincidente con le inquiete composizioni di Eurídice) interviene con parca ma – laddove è richiesto – “piena” parsimonia. Il film di Karim Aïnouz riesce a farsi spaccato sociale anche mantenendosi intimo (e fortemente empatico) nello sguardo, evocando costantemente il fuori senza mostrarlo, giocando continuamente con la dimensione immaginifica – strettamente legata a quella dell’assenza – e col suo rapporto dialettico con la crudezza della realtà. Un’opera che si prende il suo tempo per articolare il suo (melo)dramma, non avendo paura, nel finale, di piazzare un ellissi temporale che spiazza, ma che poi si rivela non solo giustificata nell’economia generale del racconto, ma persino necessaria. In un mondo trasformato, la (doppia) parabola di vita a cui abbiamo assistito può finalmente giungere a compimento; ma la dimensione onirica, plasticamente incarnata dall’ultima sequenza, resta lì, viva e inquieta quanto necessaria.

martedì 24 settembre 2019

Memoria del saqueo – Fernando Solanas

il film racconta la storia di un periodo tragico della storia argentina, che non finisce mai, purtroppo (vedi qui).
è l'occasione per vedere quello che può succedere da un anno all'altro, quando i padroni del mondo decidono di agire, o di non agire (come la Grecia insegna).
tutta l'economia passa di mano, il paese viene espropriato, con l'aiuto determinante (o forse neanche determinante) dei servi al governo, che tradiscono i cittadini.
bambini che muoiono di fame, miseria crescente, picchiati e sparati dalla polizia, sia quella a cavallo, che quella negli squadroni degli aguzzini.
Solanas racconta la resistenza delle Madres de Plaza de Mayo, dei cittadini de "El pueblo no se va", delle sinfonie di pentole e casseruole.
un film da non perdere, per capire il passato, il presente e il futuro.
buona visione - Ismaele



QUI il film completo, in spagnolo


"Fernando Solanas, tornato in patria dopo l'esilio parigino costretto dall' 'Ora dei forni', sta finendo una trilogia sui peggiori anni della vita in Argentina; ma da noi, mossa geniale, è uscito prima la 'Dignità degli ultimi', mentre questo era l'incipit di un orrore sociale senza uguali. La storia politica fino al crollo di De La Rua è narrata dall'autore in una docu-fiction di massa con grande pathos e corredata da spaventose cifre: tassi di credito al 50%, 80.000 alle ferrovie senza lavoro, 130 milioni di dollari di debito pubblico, quindi strapotere degli americani, del dollaro, dell'ideologia liberista che svende l'industria locale. Il film lotta con memoria pedagogica contro l'oblio, accelera questioni non solo argentine, osservando un mostruoso diario d'eventi dal 1989 in poi, anni colpiti al cuore dalla peggior globalizzazione. Cry, cry for me Argentina." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 23 giugno 2006)

È un resoconto preziosissimo questo di Solanas – come del resto lo era L'ora dei forni realizzato nel 1968 assieme a Octavio Genino che in qualche modo aveva profetizzato quella povertà che poi ha colpito il paese – sdegnato ma mai retorico. Del resto il documentario è proprio il genere dove il cinema di Solanas ha quell'efficacia e quella forza che invece tende a disperdere in quella struttura grottesco-poetica dei film di finzione, come per esempio in La nube (1998). E di questo documentario restano soprattutto momenti di dolore 'privato' come quello del funerale di un bambino o l'immagine di un neonato denutrito. La macchina da presa attraversa i luoghi ma va soprattutto sui volti delle vittime, con una complicità totalmente autentica.

"Memoria del saqueo" se configura así como el complemento imprescindible de todas esas películas argentinas que, de una forma u otra, nos han ido familiarizando con los estragos de la crisis, con el tristemente famoso "corralito", y con el progre-sivo empobrecimiento y la práctica desaparición como tal de lo que antes podía considerarse una clase media. Su capacidad de con-moción reside además en que, por mucho que uno se considere medianamente bien informado sobre las causas que llevaron a las revueltas de diciembre del 2001, la película ofrece multitud de datos y hechos desconocidos para el espectador europeo, tantos que uno no puede sino preguntarse sorprendido cómo pueden las insti-tuciones de aquel país haber sobrevivido al descrédito y al abismo abierto entre ellas y el pueblo a lo largo de los últimos años de de-mocracia. Solanas pone el acento en lo que verdaderamente resul-ta inquietante: cómo puede gestarse ese proceso desde la legali-dad democrática. Es terrorífico asistir a la forma en la que Menem consiguió que el poder legislativo delegara sus atribuciones en el poder ejecutivo, que tuvo así las manos libres para poder aplicar una política de privatizaciones masivas que se tradujeron en el ex-polio del patrimonio del país, con la bendición, faltaría más, de los organismos internacionales, que además festejaron aquello como "El Milagro Argentino" del que tanto se ufanaban sus dirigentes. Que una figura tan siniestra como Menem, señalado como inequí-voco responsable de muchos de los hechos que se narran en el film, ande hoy en día postulándose como senador, con el nada disi-mulado propósito de conseguir cierto tipo de inmunidad parlamenta-ria, en lugar de estar entre rejas no deja de ser un dato tan signifi-cativo como alarmante.
  Con todo, hay que reconocer, dejan-do aparte esas inevitables acusacio-nes de demagogia y partidismo por parte de aquellos a los que la verdad siempre escuece, acusaciones que se desmontan con la simple enumera-ción de los incontestables hechos ob-jetivos, el enorme mérito que tiene sa-lir airoso en ese empeño que Solanas denomina "inventar el film como he-cho cinematográfico", o sea, convertir más de cien horas de grabación de un material heterogéneo y casi inacaba-ble en dos horas plenas de ritmo, presentadas de una forma tan comprensible como inteligente gracias a un magnífico traba-jo de montaje capaz de condensar ese enorme torrente de información en una película que, como dice acertadamente Ta-vernier, emociona e indigna a partes iguales mientras petrifica en la butaca al espectador, al que no le queda más remedio que seguir atónito este análisis preciso y lúcido de los motivos por los que un país de la envergadura de Argentina ha logrado convertirse en uno de los más pobres del planeta. Solanas ha inventado el término "Mafiocracia" para definir esa manera en la que la estructura demo-crática de un país se retuerce y se corrompe hasta más allá de lo legítimo (que no de lo legal) con tal de que la clase dirigente consi-ga sus objetivos de enriquecerse y agrandar el abismo existente entre el pueblo y sus representantes políticos. En frío, puede pare-cer exagerado. Acepten el reto de ver este imprescindible film y for-marse su propio criterio al respecto.

 

lunedì 23 settembre 2019

C'era una volta a...Hollywood - Quentin Tarantino

Dicono che è un film troppo lungo, dicono che non è più il Tarantino di una volta, dicono che a tratti è noioso, tutti, come è giusto, ma ciascuno veda coi suoi occhi e la sua testa.
Per me, quasi sempre, e questa è una di quelle volte, vedere un film di Quentin Tarantino è come fare un giro in una giostra, come quando eri bambino.
Sai già che sarai a bocca aperta, e che tante scene saranno di un altro pianeta, come il dialogo fra Leonardo Di Caprio e la bambina.
E poi il film è un omaggio esplicito al cinema italiano degli anni '60 e '70, quando era di serie A, senza dubbio.
Tarantino riscrive la storia, non come Benigni che fa entrare per primi gli statiunitensi ad Auschwitz, anziché i russi, e questo e un falso storico.
Tarantino "solo" fa entrare il Male di Manson, e delle sue due scagnozze, in una casa in cui credevano di chiudere i conti con chi li aveva trattati male, pensando in una passeggiata, per poi chiudere la serata con Sharon Tate.
Purtroppo per loro le cose vanno diversamente e Sharon Tate è salva.
Ah, come le cose vanno male nella vita vera, ci dice Tarantino, e si inventa una ucronia, e lo fa con affetto, con delicatezza, per proteggere gli innocenti.
gli interpreti sono strepitosi, guidati con mano ferma e sapiente, e nell'ultima parte Leonardo DiCaprio sembra la controfigura di Jack Black.
Se il film ti piacerà la metà di quanto è piaciuto a me, non sarai deluso, la sala cinematografica ti aspetta, alla tv di casa questo film perderà quasi tutta la sua forza. - Ismaele







C’era una volta a… Hollywood all’apparenza, o almeno per lunga parte della sua durata, pare un film minore, poco ispirato, a tratti anche impersonale nella filmografia del regista de Le iene. Un film seduto, appiattito, col fiato un po’ corto ma tirato per le lunghe. La macchina da presa non è atletica e acrobatica come nei film precedenti, né il montaggio le viene in aiuto. La colonna sonora, però, quella sì, è pienamente tarantiniana, anzi forse è una delle più belle e composite dal Duemila a oggi. Ma come dicevo, è tutta un’impressione, tutta un’apparenza. Perché Tarantino non è ancora un bollito. E ce lo dimostra con un finale in cui “pare” ritrovare se stesso. In realtà, come ho già detto, non si è mai perso. Ma in C’era una volta a… Hollywood lancia un grosso guanto di sfida al suo cinema, allo spettatore e in primis a se stesso. Il finale è godurioso al limite del granguignolesco, sornione e seducente, di un’iper-reale che si fa ir-reale. Dopo averci mostrato il suo animo più realistico (a questi livelli d’integralismo narrativo ci è arrivato solo Jackie Brown), Tarantino libera i propri “freni inibitori” e a briglia sciolta dà sfogo al Cinema in tutta la sua componente più divertita, smodata e immaginifica, alterando e vendicando la realtà dei fatti intorno a quel tragico 8 agosto 1969 in cui Sharon Tate fu massacrata. Nel cinema di Tarantino, ancora una volta il Cinema vince sulla Realtà. E questo è semplicemente meraviglioso, poiché il Cinema veste e sposa il massimo della sua missione, ovvero rendere reale ciò che non è mai avvenuto. Quella realtà che scorre lenta e senza colpi di scena, con tutti i suoi tempi morti, come dimostrano le prime due ore di film.
Tarantino riesce quindi nel far convivere e combaciare gli opposti, mettendo alla prova la resistenza dello spettatore per poi gratificarlo con un finale (che a molti sembrerà stonato!) che ripaga ampiamente le sensazioni di scontento innegabilmente provate durante la visione...

Tarantino aveva già usato l'ucronia in Bastardi senza Gloria. Quel rivoltare la Storia era operazione a metà tra il divertente, la vendetta e il gioco.
Stavolta quella che è stata cambiata è una storia molto più piccola e personale, solo quella di 4 uomini.
E, anche se sembra un paradosso - viste le piccole proporzioni della vicenda Tate rispetto alla morte di Hitler - questa scelta è molto molto più delicata, eticamente discutibile e, concedetemelo, profonda.
Io sono molto combattuto.
Al cinema mi sono emozionato, ho vissuto quel finale come un commovente omaggio alla Vita e al Cinema, come un atto d'amore di Tarantino alla figura della Tate, come a un delicatissimo omaggio.
E, al contempo, come un nuovo sberleffo al Male, una presa in giro (come fu per Hitler) di un manipolo di hippie fulminati di testa.
Sì, a fine visione credevo (e forse credo ancora) che questo sia un finale che ricorderò per sempre.
Ma ci sono due problemi.
Il primo è che no, non è andata così, e il Male quella notte vinse su tutto e tutti. Possiamo sbeffeggiarlo ma la realtà è un'altra, vinsero loro.
Però non ci sono vie di mezzo, se uno ha apprezzato questo atto d'amore deve anche accettare il revisionismo immaginario di Quentin (del resto il titolo del film è molto favolistico).
Il problema principale è un altro.
Il problema è che il Tarantino cazzone che conoscevamo, quello che per quasi tutto il film si è nascosto, è forse arrivato nel momento più sbagliato e nel modo più sbagliato.
Perché non puoi fare l'adulto per tutto il film e poi il ragazzino mai cresciuto in un punto delicato come quello. Hai fatto una scelta, forse una grandissima scelta (oh, io mi sono commosso nel vedere la Tate viva, questa realtà alternativa), ma per una buona volta dovevi contenerti, saper gestire tutto, non rendere barzelletta un fatto che, ahimè, è stata una immane tragedia.
E sì, la scena è spettacolare, divertente, esagerata ma non ce n'era bisogno, il tuo omaggio alla vita aveva bisogno di un tatto diverso.
Raramente ho amato e odiato allo stesso tempo un finale come successo con questo.
Ma Quentin è questo, un essere vivente di puro amore, uno che non crescerà mai, un bambino eterno.
Lo si ama per questo ma, a volte, essere adulti è indispensabile
da qui


In risonanza con Django Unchained e Bastardi senza gloria, che offrivano un'alternativa alla Storia facendo un falò dei gerarchi nazisti e dei bianchi schiavisti dell'America alla vigilia della Guerra Civile, C'era una volta...a Hollywood segue lo schema appropriandosi della storia del cinema, di una storia del cinema. La vendetta, sempre. Sempre più catartica, sempre più selvaggia, sempre più appassionante e sadica sul piano della rappresentazione. A compierla è un altro irresistibile tandem, due naufraghi della sottocultura hollywoodiana, un attore di serie B e la sua controfigura, che sembrano sognare ciascuno la vita dell'altro mentre le rispettive carriere colano a picco sotto il peso dei fallimenti e delle frustrazioni. Ma la vendetta questa volta non è quella dei personaggi, inconsapevoli 'dei fatti reali', ma è quella di un autore romantico che crede nell'immenso potere del cinema, che crede che tutto sia ancora possibile, come se la finzione potesse deflagrare la realtà.

Agli spettatori Tarantino offre un'esperienza differente, imbarcandoli nella sua nostalgia e nella deambulazione urbana piuttosto che costruire daccapo intrighi esplosivi. Per la prima volta rinuncia alla cavalleria, evocando con riguardo e pudore il soggetto che gli sta più a cuore: il suo amore per il cinema. C'era una volta...a Hollywood è un film intimo e contemplativo, lisergico e (incredibilmente) lineare su un'età dimenticata, perduta, sul cinema della sua infanzia, quello che lo ha innamorato perdutamente mentre il colore diventava la norma e Hollywood perdeva la sua innocenza sotto i colpi di coltello di Charles Manson e dei suoi adepti…


giovedì 19 settembre 2019

Soy Cuba - Michail Kalatozov

un film che dura, girato nel 1964, poi messo in qualche ripostiglio, riscoperto grazie a Martin Scorsese e a Francis Ford Coppola, che lo hanno fatto restaurare e poi fatto girare.
se uno non capisce niente di cinema, quando si tratta di un film che è piaciuto a quei due lo cerchi e lo veda, non resterà deluso.
il film ha i toni epici della nascita di una nazione, attraverso quattro episodi molto belli.
le cose più belle, fra le altre, sono due piani sequenza che da soli rendono il regista memorabile.
cercate il film e godetene tutti, solo se vi volete bene, intendo - Ismaele 




…E' un peccato che un film di tale spessore sia stato triturato per quasi quattro decenni. La tecnica è davvero magistrale, in alcuni punti anche meglio di geni come Kubrick, Welles, MurnauOpera poetica, comunista, emozionante, che mi riserverei di consigliare a chi possiede una buona cultura cinematografica. Non per altro, per carità di Dio, ma potreste annoiarvi annullando con un cenno di diniego un film che vale veramente molto.

Il film venne infatti commissionato nel 1964, durante il periodo di maggior collaborazione tra l’URSS e il nuovo governo di Fidel Castro. La regia fu affidata al regista russo Mikhail Kalatozov dall’Instituto Cubano del Arte e Industrias Cinematográficos e dalla Mosfilm, le principali case produttrici dei due Paesi. Kalatozov decise di non adottare una narrazione unitaria, ma di descrivere i vari aspetti della società cubana attraverso quattro storie, legate da una voce narrante definita The Voice of Cuba.
Influenzato dalle immagini di Orson Welles, del Neorealismo italiano e dalla Nouvelle Vague francese, il regista russo fonde i tratti tipici della propaganda cinematografica a sfumature più artistiche. All’inizio di Soy Cuba sorvoliamo oniricamente la costa cubana mentre la Voce di Cuba ci accompagna dolcemente verso le sue rive. Poi, bruscamente, siamo trasportati sul tetto di un casinò, stracolmo di quelli che potremmo definire “simboli del capitalismo” — donne, alcol e musica…
Alla sua uscita il film fu disprezzato da entrambe le critiche. I cubani videro in Soy Cuba una rappresentazione stereotipata delle abitudini e della storia cubana, mentre i russi lo ritennero troppo poco rivoluzionario e lascivo nei confronti della borghesia. Il film fu archiviato come esperimento di propaganda fallito, per poi essere riscoperto trent’anni dopo da autori che nei piani sequenza videro un’autenticità introvabile in altre pellicole.
Con la morte di Fidel Castro le nuove generazioni riscoprono un periodo storico che non hanno vissuto ma che ha inciso profondamente sul quadro politico contemporaneo. Soy Cuba, sebbene di parte, è il perfetto punto di partenza — politico e culturale — per avvicinarsi alla storia della rivoluzione cubana.

E’ in effetti proprio, e voglio usare ancora questi termini, nelle scelte formali, che il film raggiunge una bellezza assoluta.
La macchina da presa esegue, con maestria, tutti i più sofisticati movimenti di macchina che hanno, nel tempo, definito il linguaggio audiovisivo.
Dagli interminabili iniziali piano sequanza, alle carrellate, alle panoramiche orizzontali e persino alle complesse panoramiche verticali ed alle riprese aeree con improvvisi zoom.
Molte altre cose si potrebbero dire con riferimento all’espressività dei primi piani sia maschili, ma, soprattutto, di quelli femminili.
Un suggello alla prospettiva femminea del punto di vista narrativo.
In quei volti Mikhaïl Kalatozov riesce ad imprimere una mescolanza di contraddittoria espressività tale, da raggiungere una coerenza simbolica assoluta con i messaggi verso l’alto della trama, come solo la mano di un grande maestro può fare…

There is a shot near the beginning of "I Am Cuba" that is one of the most astonishing I have ever seen. Reflect that it was made in 1964, long before the days of lightweight cameras and Steadicams, and the shot is almost impossible to explain.
It begins on a rooftop deck of a luxury hotel in pre-Castro Havana. A beauty pageant is in progress. The camera sinuously winds its way past bathing beauties, and then moves over the edge of the deck and descends vertically, apparently floating, down three or four stories to another deck, this one with a swimming pool. The camera approaches a bar, and then follows a waitress as she delivers a drink to some tourists, after which one of the tourists stands up and walks into the pool - and the camera follows her, so that the shot ends with the camera actually underwater…



lunedì 16 settembre 2019

Mio fratello rincorre i dinosauri - Stefano Cipani

meno male un film nel quale gli adolescenti non sono (o non fanno finta di essere) idioti.
la storia è tratta da un libro e racconta la storia privata di una famiglia nelle quale nasce un figlio down. 
con il libro e poi con il film diventa una storia pubblica, che viene condivisa con gli altri, per spiegare e capire che un figlio down non è un peso o una disgrazia, è solo un bambino speciale.
bravissimi gli attori, tutta la famiglia.
non sarà il film dell'anno, ma è proprio un gran bel film, non perdetevelo - Ismaele





…Potrebbe sembrare una favola edulcorata e poco credibile, invece in questo film c’è una storia di vita vera: è la storia della famiglia Mazzariol, che abita nel trevigiano, raccontata dal “vero” Giacomo nell’omonimo libro da cui è tratto il film, pubblicato nel 2016 quando Jack aveva 19 anni (oggi 300.000 copie vendute).
Alla sua opera prima, Stefano Cipani adotta uno sguardo tenero e divertente al tempo stesso, con l’intento di mantenere la leggerezza del romanzo di formazione per parlare di diversità con un linguaggio semplice e genuino.
Seppure qualche passaggio nella sceneggiatura possa risultare frettoloso o poco approfondito, si esce dalla sala con il sorriso stampato sulle labbra e una buona dose di gratitudine per questo esempio familiare di vitalità e apertura.
La coppia Alessandro Gassman – Isabella Ragonese restituisce poi con gentilezza la complicitá di due genitori che nelle sfide del quotidiano non dimenticano la positività contagiosa dell’ironia.
Ce lo ricorderemo allora come un film per tutta la famiglia, che emoziona e fa, semplicemente, bene al cuore.

Un film adolescenziale dove i ruoli tra gli amici e i fratelli si ribaltano, linguaggio semplice e non volgare, essenzialità, commedia mista a problemi familiari e gli adulti che non sempre sanno cosa fare.
Una certa modalità ‘corretta’ e di ‘facile fruizione’ è un modo per renderlo vendibile alle famiglie e agli stessi ragazzi. Si legge che stanno aumentando le copie di distribuzione. Niente incassi stratosferici però sta prendendo un certo pubblico.
Resta una pellicola ‘media’ che tende al film-tv, simbolica ma non eccessivamente, commedia ma non più di tanto, seriosa ma con moderazione, a incastri ma qualche pezzo resta solitario.
Intanto la ‘piccola’ vendetta è servita fredda….da Davide all’amico strano: ‘…oltre a tutto il buono che ci dà Gio…lo Stato ci offre anche 400 euro al mese...

«Il romanzo di Giacomo Mazzariol ha avuto un forte impatto sulla mia immaginazione e quando ho conosciuto Jack e Gio e la loro famiglia mi sono reso conto di essere di fronte a qualcosa di davvero unico: una storia importante. La famiglia Mazzariol è dirompente: la loro indole e il loro senso di risolutezza è un esempio di umanità. La trama del film ruota intorno a una bugia terribile, spaventosa ma spontanea. Ciò che mi premeva era portare sullo schermo le emozioni e lo stato d'animo di Jack, un ragazzino di tredici anni che si confronta con la disabilità del suo tanto desiderato fratellino. Trovo affascinante, poetico e universale l'immagine di un adolescente che scappa dalla paura, fugge il confronto e che s'innamora per dimenticare, creandosi una nuova identità». [Stefano Cipani]

sabato 14 settembre 2019

Martin Eden – Pietro Marcello

Pietro Marcello riesce finalmente a girare un film che si può vedere in tante sale, col protagonista Luca Marinelli vincitore come miglior attore al Festival di Venezia.
si tratta di un film coraggioso, si attraversa mezzo secolo, ed è un film collettivo, Martin Eden dentro di sè è tante persone, come Stig Dagerman, e tanti altri "irregolari", come anche Martin Eden è.
Pietro Marcello è un regista di serie A, Bella e perduta era il primo film della mia classifica del 2015-2016 (lo potete vedere qui).
cercate Martin Eden e godetene tutti.
se, dopo aver visto il film, leggete il libro di Jack London e quelli di Stig Dagerman non restererete delusi, ci scommetto - Ismaele





Attenti al cane! – Stig Dagerman
“Certo è deplorevole
che gente che vive di sussidi si tenga poi un cane”
ha dichiarato un responsabile
della Previdenza Sociale
del Varmland
La legge ha i suoi difetti
I poveri han diritto di tenere un cane
Potrebbero tenere dei topi invece:
van bene anche loro e sono esentasse
Se ne stanno in anguste stanzette
coi loro costosi bastardi.
Perché non giocano con le mosche?
Non sono animali da compagnia?
E al Comune tocca pagare.
Bisogna farla finita
o c’è da temere
che si comprino delle balene
Una decisione va presa:
abbattere i cani! Non è una buona idea?
Il prossimo provvedimento. abbattere i poveri
Così il Comune risparmierà qualcosa.

Un regista coraggioso alla sua prima esperienza con un lungometraggio di due ore in cui c’è tutto: politica, lotte sindacali, filosofia, passione per la scrittura come mezzo per liberare l’anima, amore fraterno e amore con la A maiuscola, amicizia e solidarietà, ipocrisia e classismo.
Un Film che racconta un secolo intero capace di trasportare il sogno americano secondo cui a tutti è data la possibilità di emergere, basta volerlo intensamente, in una nazione in cui questo non è vero , attraversando il secolo presente attraverso un mix di scene recitate ed immagini di repertorio. Televisori da boom economico e abiti da primi Novecento, mercati e balere, una Napoli senza tempo con i suoi vicoli e i suoi popolani, truppe fasciste e emigrati sulla spiaggia, il tutto fa da sfondo alla storia che Jack London, convinto socialista, inventò tra il 1908 ed il 1909. Il libro è un attacco all’individualismo inteso come basato su convinzioni individualiste di stampo nietzschiano ed è anche un attacco al capitalismo imperante in America che aveva ridotto alla fame miglia di persone…

Pietro Marcello ha dichiarato di aver girato Martin Eden: «In stato di grazia, con un gruppo di lavoro che è diventato come una famiglia. Abbiamo scelto di traslare la storia a Napoli perché è una città di mare, come la San Francisco del libro, ma noi volevamo portare la storia nel Novecento europeo. Napoli è un laboratorio all’aperto, una città accogliente e tollerante in cui non si può che essere disponibili all’imprevisto e all’imprevedibile, come mi ha insegnato il documentario». Secondo il regista campano, Martin è «un personaggio negativo, che perde il contatto con la realtà e si autodistrugge, un po’ come Michael Jackson o Fassbinder, artisti che sono stati in modo diverso vittime del loro successo»…

c’è tanto Pietro Marcello: in Martin Eden troviamo molto dell’ottimo La bocca del lupo, ma anche di Bella e perduta. Il regista casertano ha fatto ricorso a molti materiali di archivio con un montaggio contrappuntistico – alcuni realizzati dallo stesso Marcello – Una scelta fatta per raccontare la grande storia, per raccontare il Novecento tra pregi e difetti.
Dall’apertura con Errico Malatesta, tra i principali teorici del movimento anarchico, ai parallelismi con poeti rivoluzionari come Vladimir Majakovskij e Stig Dagerman: Pietro Marcello segue una strada ben precisa per raccontare il personaggio e tutto ciò che gli sta intorno. Esemplare in tal senso il ruolo di Carlo Cecchi con il suo Russ Brissenden, un semi-anarchico cinico e disperato: è lui il principale interlocutore di Martin Eden ed è lui a spingerlo verso il socialismo. Poi lo spaesamento e il nichilismo individualista, l’infelicità come unico stato d’essere. Degno di nota il lavoro dei due montatori Aline Hervé e Fabrizio Federico, come del resto la grande varietà del commento sonoro a cura di Marco Messina e Sacha Ricci. Pietro Marcello si conferma uno dei cineasti più originali in circolazione: una regia variegata ed un racconto personale, fuori da ogni schema.
Il film della maturità, un’opera poetica che entra dentro lo spettatore e lo conquista anche grazie ad un Luca Marinelli in stato di grazia. Da non perdere.

tutto in questo film sembra magnificamente sbagliato, perché Pietro Marcello si rifiuta di ricostruire un’epoca precisa. Televisori da boom economico sono affiancati ad abiti da primi Novecento, truppe fasciste sono mostrate dopo che il protagonista cammina per strada accanto a persone vestite come nel nostro presente. Ci sono sostanzialmente tutte le epoche del Novecento italiano insieme, schiacciate e mescolate per arrivare a un non-tempo; l’affermazione più forte sulla storia sempre uguale del nostro paese, caratterizzato dai medesimi atteggiamenti, cent’anni fa come oggi.
Qui sta l’incredibile intuizione: prendere un romanzo con una trama non vicina alla nostra cultura, fondato sul rifiuto del fatalismo e l’affermazione che ognuno è artefice del proprio destino, che tempo e volontà possono ribaltare condizioni avverse, che duro lavoro e abnegazione vengono premiati, e dargli un afflato italiano più che una vera contingenza italiana. Aver trovato la maniera in cui una storia simile possa dire qualcosa riguardo un popolo a cui non appartiene è il vero traguardo.
Una colonna sonora molto armoniosa, da romanzone americano anni Cinquanta, contribuisce a unire quello che vediamo con la provenienza anglosassone all’insegna del cinema classico, anche se questo film classico assolutamente non è. Ma lo stridore tra immagini e musica risulta misteriosamente piacevole…

Il Martin Eden di Marcello (e del suo cosceneggiator Maurizio Braucci) non abita più a San Francisco, ma in una Napoli e in un’Italia sospesa e spaccata tra miseria e nobiltà, tra cenciosità e lussi borghesi. In un tempo indistinto che mescola ere e passaggi storici, con avantindietro tra primo Novecento, anni Trenta e Quaranta (forse), anni Cinquanta e Sessanta. Senza però andare oltre quella soglia temporale. Fermandosi, m’è parso, alla vigilia del gran miracolo economico che stravolse l’Italia, che innescò un’irreversibile mutazione antropologica, come avvertì e lamentò Pasolini. Pietro Marcello, che ne sia o meno consapevole, appartiene a quel drappello di nostri cineasti che non possono non dirsi pasoliniani (Claudio Giovannesi, per citare un nome), per come si ostinano a cercare, alcune volte trovandola altre rimpiangendola, l’Italia vitale, triste e allegra, povera e innocente prima della caduta nell’uniformità globale e nel consumo di massa. Perché abbia scelto Martin Eden di Jack London come canovaccio e grimaldello per penetrarla, ricordarla, riproporla anche feticisticamente suona quantomeno paradossale, vista la distanza cultural-antropologica del romanzo. Ma ammetto che l’operazione pur bizzarra funziona molto, molto bene per gran parte del film, quando i materiali utilizzati da Marcello – videodocumenti d’archivio, residui ancora reperibili dell’Italia preboom, paesaggi italiani (anche umani) sopravvissuti alla grande distruzione-modernizzazione, tracce narrative di immediata derivazione londoniana – si fondono miracolosamente nonostante la loro eterogeneità e incongruità in puro cinema, in flussi di immagini sature di senso, risonanze, suggestioni. Ma è un esercizio acrobatico a continuo rischio caduta, e qua e là le cadute ci sono. Allora Martin Eden rivela le sue fragilità strutturali, l’insieme si disaggrega nei suoi elementi e il viaggio spazio-temporale diventa virtuosismo autoreferenziale, celibe…

Martin Eden narra la vida de su protagonista. Pero no es una biografía al uso. Por supuesto que nos cuenta la historia del personaje, pero la cámara de Pietro Marcello presta especial atención a su entorno. Desde las calles de los barrios pobres de Nápoles a los decadentes palazzos burgueses. Siempre con ese estilo realista que le caracteriza. Pero esas imágenes naturalistas que reflejan la peripecia de su protagonista son interrumpidas de forma sorprendente y sugerente por imágenes de archivo, no necesariamente relacionadas en el tiempo o en el espacio, pero sí en su fondo con la acción de la película, dando como resultado una combinación mágica y evocadora.



…Visto che gli italiani di oggi sono tanto prodighi di lodi ai registi sperimentali e pronti ad andare in estasi per la favola anticapitalista del povero straccione che tutti i ricchi disprezzano e perfino i suoi amici proletari commiserano, ma che alla fine è migliore di tutti e resta disperatamente solo anche e soprattutto dopo aver raggiunto il successo, perché come l’Albatros di Baudelaire vola troppo in alto per i comuni mortali… visto tutto questo e vista l’incredibile attenzione riservata a un regista che usa il metodo del cosidetto “montaggio a contrappunto”, che è antinaturalista e astratto, che mescola generi e situazioni a piene mai e gode nello spiazzare lo spettatore, non rispettando neppure la più elementare cronologia… ecco visto che il pubblico è così maturo dimostrando tanta intelligenza e tanta capacità di capire, allora come mai il sullodato pubblico non scende in piazza compatto, bruciando gli studi televisivi che proiettano per l’ennesima sera Abbronzatissimi e Piedone lo sbirro a intontire lo spettatore con un’overdose di pubblicità demenziale che manco il metadone a manetta la caccerebbe mai via dalle vene? E come mai non si gridano slogan come “Prima serata libera!”,“Aridatece Bergman e Fellini!” oppure “Siate realisti: chiedete l’impossibile”? E anche senza sognare eccessivamente, perché tutti questi saccenti critici che sbavano di fronte ai giovani disprezzati dai potenti e schiacciati dalle “magnifiche sorti e progressive” degli opposti neoliberismi non esigono, con minacce di sciopero della vista, la proiezione del Giovane meraviglioso di Martone ogni sera che Dio comanda? Già, perché, senza dovere andare peregrinando per i sette mari come Martin Eden, la Napoli adottiva di questo eroe yankee è la stessa che ha adottato l’ altro giovane meraviglioso scrittore che tutti rifiutavano, quel Leopardi che Martone ha portato sulla scena e in particolare nei vicoli dei Quartieri Spagnoli con un’audacia, una fermezza, una bravura superlativa, da far impallidire ogni teoria del “montaggio a contrappunto” e ogni critico filisteo che prima chiagne e fotte mattina e sera ma dopo una onorata carriera di leccapiedi si mette le penne del pavone e diventa improvvisamente un collega di Truffaut sui Cahiers du cinéma che stravede per il cinema sperimentale. Cosa dire poi del meraviglioso Vincere di Bellocchio, che mette a fuoco così bene che Mussolini era un Mostro peggio del Mostro di Dusseldorf e viene per questo sonoramente snobbato da un volgo disperso che nome non ha, che però si ringalluzzisce subito quando il primo pennivendolo mediocre e ignorante sulla piazza sforna un volumone bric-à-brac, un mattone pieno di errori, smarronate, confusioni e scemenze sullo stesso tristo «Pirgopolinice (di Plauto) con le gambe a squadra», facendolo passare per una specie di Harrison Ford alla ricerca dell’arca perduta, un avventuriero un po’ ribaldo ma in fondo tanto simpatico, come tutti i malandrini del nostro adorabile strapaese?
Ecco se queste domande trovano ricetto nei miei sempre più scarsi lettori, allora potremo vederci in pace Martin Eden che è senza dubbio un bel film (anche se la fine è un po’ incasinata e confusa) e dare i giusti onori a un regista molto bravo come Pietro Marcello, senza paura che troppe lodi e troppa carità pelosa lo possano trasformare in un genio compreso, una figura tanto cara al nostro inossidabile, piccoloborghese, neodannunzianesimo straccione, il quale pensa ossessivamente che l’eroe sia solo il bel tene-o-broncio e non sa nulla dell’eroico eroe per caso che per caso sorride con un triste sorriso a chi è come lui, a chi non ha niente da perdere, neppure le sue catene, come la leopardiana Teresa Fattorini «assai contenta di quel vago avvenir che in mente aveva».