lunedì 31 agosto 2020

High life – Claire Denis

una accozzaglia di reietti, anziché marcire in galera, aderiscono a una missione spaziale, verso un buco nero, senza ritorno.

la libertà è un'altra prigione, senza secondini.

uno scopo della missione è quella di capire se e come potrà nascere e crescere una vita, fra le altre cose.

piano piano, negli anni, quasi tutti scompaiono, lasciandosi morire, anche la dottoressa.

restano solo Monte e la figlia Willow, cibandosi anche dei frutti dell'orto, era una neonata, è diventata un'adolescente.

e insieme al padre prenderanno delle decisioni.

un film che vale, secondo me (se qualcuno deve ridere, lo avverto che non è un film per lui/lei) - Ismaele

 

 

 

 

 

La nenia che Robert Pattinson canta alla piccola figlia ci culla e ci accompagna in un viaggio spaziale che fa dell’uomo il suo punto centrale. Il corpo immerso nello spazio infinito, l’assenza di tempo, di vecchiaia, di scopo. Dove ci porterà questo viaggio, Willow? Nessuno lo sa, neppure la scienza. Iniziare una odissea perché non si ha scelta, si è in trappola. È questa la base concettuale da cui parte High Life, film del 2018 diretto da Claire Denis. I cosmonauti protagonisti non viaggiano per amore della scoperta, o per esigenze sociali, o almeno, fanno ciò solo perché costretti (lasciamo a voi scoprire il motivo, poiché il film vive di un montaggio alternato che pian piano ricostruisce il quadro “storico” della trama). Non ci sono eroi in High Life ma solo persone normali con passati controversi, da questa melma umana emerge un antieroe, che di eroico pone in essere solo una singola azione: crescere con amore e speranza una figlia nata su una astronave, che conoscerà solo l’infinito vuoto tra le stelle, le ingovernabili forze di un buco nero. E proprio comprendere queste forze è lo scopo della missione:ovvero riuscire a estrarre energia da un buco nero tramite il processo Penrose, per permettere all’umanità di accedere a risorse di energia infinite…

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High Life è dunque un oggetto filmico che rifugge da qualsiasi scansione testuale: come sempre nel cinema della Denis, c’è più materia che pensiero, più fisicità che speculazione. La flagranza del rapporto di questa regista con la sostanza fisica delle sue storie, coi corpi dei suoi personaggi, con la pulsionalità delle loro emozioni, è preponderante rispetto a qualsiasi logica. È anche per questo che amiamo tanto il cinema di Claire Denis.

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Affresco di un'umanità senza ideali e senza speranze, High Life è uno strano oggetto di riflessione che nel suo ultimo atto, la bambina è diventata una giovane donna che ha conosciuto e conoscerà un solo uomo, suo padre, interroga il tabù (assoluto) e la moralità. Perché Monte e Willow sono soli a bordo, soli al 'mondo'. Lunghi flashback che affiorano come bolle sulla superficie della coscienza di Monte, mostrano al pubblico che il peggio per loro è passato. Di quel pugno di mostri fuorilegge e fuori di sé spediti in orbita per crimini inconfessabili, non è rimasto che Monte che alleva la vita in una nave programmata per andare a morire. Veicolo di desideri primitivi, di piaceri solitari e funebri, di sesso meccanico, di pulsioni frustrate e di regime clinico, il vascello 7 è una fuck box (come quella che cavalca la dottoressa Dibs in una delle scene più perturbanti) che divora e dove tutti si divorano. Un monolite che rompe le geometrie asettiche delle navi tradizionali e fluttua inesorabile verso l'orizzonte dell'incesto. Orizzonte da tragedia greca a cui il protagonista Robert Pattinson resiste dominando le sue emozioni e lanciandosi verso l'incognita di un'altra galassia, di un'altra forma, verso la yellow light di Olafur Eliasson.
Il buco nero che costituisce il cinema di Claire Denis coincide in High Life col buco nero della morale. A lambirlo è il corpo (inter)siderale di Robert Pattinson. La bellezza del suo gesto, radicale e lirico, è la promessa di un'andata senza ritorno verso l'amore. Un amore cosmico che dialoga direttamente con Interstellar e non può che (ri)congiungersi con l'universo, malgrado tutto. Malgrado la morte fisica e morale dell'umanità in assenza di gravità e dentro una supernova narrativa propizia a tutte le interpretazioni. Il caos è in marcia e Claire Denis testa la resistenza fisica dello spettatore. Allacciate le cinture e bon voyage.

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Un film di passioni e di istinti, di pulsioni, di corpi torturati dal dolore e dalla vertigine del desiderio, sui quali si stende però il velo di una forma smagliante e perfetta, di una bellezza in grado di sopraffare e neutralizzare ogni buco nero. Rispetto per Juliette Binoche, che non esita a lanciarsi in una missione impossibile (quante attrici del suo rango avrebbero accettato un personaggio come Dibs e recitato una scena disturbante come l’amplesso meccanico?). Ma a fare suo il film è Robert Pattinson, ormai una certezza e, più che un attore, una presenza assoluta, meraviglioso quale padre fragile e tormentato eppure di una fibra infrangibile. Claire Denis aveva pensato il film per Philip Seymour Hoffman, poi sappiamo cosa sia successo, e le ci sono voluti anni per trovare finalmente in Pattinson il protagonista che cercava.

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Questo non è un film per tutti. Non è uno scacciapensieri estivo da consumare fra popcorn e cocacola. Questo è un film-sfida. E’ un oggetto ipnotico e misterico dedicato a spettatori disposti a passare un paio d’ore dalle parti di Interstellar, o di Arrival, magari mescolandoli con il ricordo di Stalker e di Solaris, là dove la fantascienza si contamina con la filosofia e con i misteri del tempo, del sesso e della vita. Fra le poche uscite estive di questa strana estate, High Life di Claire Denis (uscita prevista il 6 agosto) è davvero quella imprescindibile.

Fantascienza? Anche, ma non solo. Anche prison movie, apologo filosofico, investigazione etica, ricognizione scientifica. Un uomo (Robert Pattinson) e una bimba appena nata sono a bordo di una navicella che galleggia nel buio oscuro dello spazio. Lui è il padre, lei sua figlia. Gli altri membri dell’equipaggio sono tutti morti. Con una serie di flashback successivi Claire Denis ci racconta come. Meglio: ce lo fa intuire, ce lo lascia supporre. Perché non c’è nulla di chiaro o di scontato, a bordo della Navicella 7.

Non è un’odissea nello spazio, quella a cui assistiamo. Qui non si torna a casa. Non c’è nessun ritorno possibile. Qui si va avanti. A oltranza. Verso un buco nero che potrebbe fornire l’energia necessaria per salvare la Terra dall’incombente catastrofe. A bordo sono stati imbarcati galeotti e prigionieri con colpe indicibili alle spalle, disposti a vivere una sorta di ergastolo infinito nello spazio. Perché non c’è più il tempo, a bordo della navicella. Non c’è il nostro tempo. Il nostro modo di misurarlo, gestirlo, riempirlo. C’è il vuoto, e c’è l’oblio. Dalla terra continuano ad arrivare immagini che sono come virus, come parassiti. Perché ancorano i membri dell’equipaggio a una nozione di tempo e spazio che a loro è preclusa per sempre. Indietro non si torna, mai più…

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…l’opera è molto modesta e manca completamente il bersaglio, come un arciere dalle grandi ambizioni. Il senso del film sfugge dalla sceneggiatura, la scenografia fa molto anni ’70, quasi fosse tutto di cartone. L’ambientazione, peraltro, è limitata a pochi ambienti che si ripetono, probabilmente per motivi di budget.

Gli attori sono svogliati e atoni, in particolare Juliette Binoche che si cimenta in un paio di scene che rasentano lo scult. Passabile Robert Pattinson che continua il suo percorso di allontanamento da Twilight. La pellicola insiste sui liquidi vitali: sangue, sperma, latte materno, è tutto un colare ripetuto e insistito.

Non aiutano neanche i piani temporali, non proprio chiarissimi e un finale un po’ flaccido. Beninteso, il film non è bruttissimo, ma Claire Denis è una grande autrice che trova sicuramente il suo senso tra le strade e i cuori parigini, non nello spazio.

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After many years lost in space, with Monte’s clothes now in tatters, his hair greying and Willow an adolescent, the film comes in for an ambiguous ending. Denis is more concerned with the affects of isolation on her subjects and on their behavior during this period than she is in learning about space travel. It’s that kind of unique space film that could have been shot on Earth, in a science lab, and the results would have still matched what the director was looking for–as she’s more interested in the journey than the destination to nowhere, which might be a metaphor for life on Earth.

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domenica 30 agosto 2020

Non conosci Papicha (Papicha) - Mounia Meddour Gens

Nedjma (interpretata da Lyna Koudri) è il motore del film, una ragazza che non si arrende mai, a rischio della vita, nel mattatoio che era l'Algeria.

le ragazze come Nedjma sono quelle che in questi mesi hanno manifestato nelle strade algerine, contro gli imbrogli e la corruzione del regime.

Nedjma disegna e produce abiti, per ragazze e donne che dovevano indossare il chador, o cose del genere.

e un film sui vestiti e sul ritratto di una stilista da giovane (e delle sue amiche) diventa un film sulla libertà e sui costi necessari per difenderla,contro tutti i piccoli e grandi tiranni.

gran film, al cinema, non perdetevelo - Ismaele


  

 

 

La tensione cresce, quasi in parallelo al dolore, perché la catarsi concepita non è fine a sé stessa. La drammaturgia si estende e svela, libera dall’asserzione, il coraggio, l’uniformità, la remissione, e l’ostinazione che si incarnano, ciascuna, nei personaggi. Papicha è un universo pienamente femminile e non c’è spazio per la commiserazione o per il lamento. Gli uomini sono assenti e quelli che ci sono rimangono violenti, ostinati, insistenti nei loro giudizi e incapaci di accettare che un altro bene è possibile. E il desiderio di rimanere, anche se nel posto apparentemente sbagliato, non è un semplice desiderio emotivo. Papicha è un film che rimane nel cuore perché Mounia Meddour riesce a raccontare quell’Algeria “libera” che non vuole essere annientata da una società che fa dell’intimidazione e della morte la sua affermazione.

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L'attrice Lina Koudri al suo terzo film firma una performance sensazionale: la sua Nedjma è un personaggio che resta nel cuore. Un'eroina per caso, una che non si arrende di fronte a nulla. Vuole decidere da sola il proprio destino e lo fa con tutte le forze che possiede, resistendo con perseveranza e coraggio a chiunque pretenda - per usare un eufemismo - di addomesticarla. Una ragazza che sa attraversare il dolore trasformandolo in colore e creazione, e sceglie di farsi paladina di una commovente rivendicazione collettiva: una sfilata di studentesse per poter affermare, l'una di fronte l'altra, di esistere.

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La cinta está estupendamente dirigida, con un ritmo vertiginoso de la cámara que introducirá al espectador rápidamente en la historia. La puesta en escena y las interpretaciones de las tres protagonistas son de un gran nivel. La película refleja muy bien el avance del radicalismo en el país y aunque cada día que pasa el ambiente es más irrespirable, eso no hace que disminuya la creatividad de las chicas. Un desfile de moda que organizan en la residencia donde viven les traerá graves consecuencias.
En definitiva estamos ante una gran película y uno de los mejores estrenos post pandemia que se pueden disfrutar en este momento. Aunque se le puede tachar de algo feminista, eso no impide para que pueda ser disfrutada por todo tipo de espectadores. Muy recomendable.

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La propuesta de Meddour no aporta nada nuevo al estilo ni al tipo de historia que narra. Se trata de escoger una protagonista con gancho (siempre amparado por el “inspirado en hechos reales” de rigor), contar una historia de liberación en la que cada giro es necesario y previsible, y donde la transparencia narrativa es más importante que la propuesta visual: es decir, la historia (el qué) por encima de la experiencia cinematográfica (el cómo, el estilo). En ese sentido, nada que reprochar: Meddour no esconde sus cartas en ningún momento y es honesta con el tipo de película que se propone presentar al público. Quizás juega demasiado en su contra ese manido recurso de repetir imágenes felices de los primeros momentos del filme justo después del trágico clímax final, algo que va en detrimento del propio desarrollo propuesto (si es necesario recuperar imágenes para subrayar una idea con la que el público ya de por sí se puede identificar rápidamente, es que algo no se ha acabado de hacer bien). Con todo, y como suele pasar, este género cannoise siempre esconde un as debajo de la manga: el descubrimiento de una joven actriz talentosa que se luce en un papel lleno de rabia, ternura y posibilidades de lucimiento actoral. En este caso, Lyna Khoudri (y el resto de las actrices que la acompañan) encajan, de nuevo, en la descripción

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Quello della protagonista Nedjma, che ci rivela il talento viscerale dell’attrice Lyna Khoudri, prossimamente sugli schermi anche nel nuovo film di Wes Anderson, è un percorso tanto doloroso quanto necessario. La sua volontà di rimanere libera è trascinante e nasce da un profondo amore per la sua terra, che in più sequenze stringe, addirittura assaggia, e per la sua arte, che diviene una metafora della possibilità di emanciparsi definitivamente. Non ci sono soluzioni di compromesso, la fuga in Francia per sottomettersi a un immaginario terribilmente fallocentrico non è nemmeno contemplata. La lotta di Nedjma è hic et nunc ed è collettiva.

Mounia Meddour, come poche altre, fa in Non conosci Papicha un elogio della sorellanza, dell’amicizia femminile, dell’importanza che ci sia un fronte comune per potersi contrapporre alla condizione retrograda voluta da una società in cui comandano gli uomini. Certo, non sono tutte rose e fiori: nel film è evidente quanto la scelta di sottomissione spontanea di alcune donne abbia contribuito all’oscurantismo imperante nel Paese…

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sabato 29 agosto 2020

Tenet - Christopher Nolan


già i primi dieci minuti, come era capitato con Il cavaliere oscuro, valgono da soli il prezzo del biglietto. chi guarderà il film sullo schermo di casa non lo saprà mai, poverino.

e già dalle prime scene si capisce che i produttori non hanno fatto i tirchi sui centesimi di dollaro.

nel film si va avanti e indietro, ogni pochi minuti, non è proprio un film lineare (ma anche Pulp Fiction, montato in modo cronologico, non sarebbe le stessa cosa).

probabilmente andrebbe visto due volte, una per guardare le immagini, l'altra per seguire l'ordine temporale, ma se si guarda una volta sola bisogna farsi prendere dalla storia e entrare nel ritmo, per quanto si può, e stupirsi mille volte, perché il film è complicato, ma non troppo (ma questo non lo sai durante).

gli attori sono all'altezza del compito (e anche gli stuntmen non sono stati da meno).

per essere il primo film della rentrée non poteva andare meglio.

la sala vi aspetta - Ismaele


 

 

 

…In fondo lo sappiamo che in Nolan il dispositivo dell’azione (la dinamica di messa in scena che la rende unica) è tutto ciò che conta, ma stavolta senza il fratello Jonathan alla scrittura lo è anche di più, è l’unica ragion d’essere di un film che non sa che farsene dei rapporti personali e che li racconta con poca voglia e molta rapidità. Questo però non va confuso con l’incapacità, anzi è l’espressione della sua idea di mondo. Nelle sue storie e specie in questa, i sentimenti sono la debolezza degli esseri umani, sono ciò che frega i cattivi, mette nei guai i buoni (Elizabeth Debicki, usata a un terzo del suo potenziale) e rende la strada degli eroi più tortuosa di quel che dovrebbe essere. Non sono anche ciò che li aiuta come altrove ma solo una zavorra che si portano appresso. Tenet invece non vuole proprio portarseli appresso, ci rinuncia, risolve tutto senza spiegare molto e si getta di testa nella sua cattedrale pazzesca di avanti e indietro nel tempo, ripetizioni, scene palindrome e “attacchi a tenaglia temporale”. E per quanto dentro si trovino tante idee già viste nei suoi film, tutto gli si può dire tranne di essersi ripetuto.

Se si accetta tutto ciò (e non è difficile) Tenet è una gioia, una spettacolare messa in scena di qualcosa di davvero originale. Conosciamo il meccanismo del rewind ma Nolan lo porta a livelli tali da sembrare nuovo. Conosciamo i viaggi nel tempo ma Nolan inventa una dinamica che fa sembrare tutto nuovo. È un piacere grande e anche se stavolta dura solo il tempo della visione, senza rimanere impresso come accadeva ai suoi film migliori, lo stesso c’è da levarsi il cappello di fronte alla maestria artigianale di questo regista.

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Tenet ha un suo indubbio e contagioso fascino e una sua innovatività creativa e narrativa genuina che ultimamente è sempre più rara. E' impossibile annoiarsi, anche volendo, è difficile non voler risolvere il rompicapo della trama, anche a costo di avere il mal di capo. Inoltre ci sono numerosissime sequenze d'azione movimentate, frenetiche, chiassose, riuscite e decisamente adrenaliniche, c'è una tensione sempre elevatissima e il gusto di assistere a una vicenda paradossale, incredibile e ispirata, i cui diversi piani temporali sono così intrecciati da renderla imprevedibile e completamente coinvolgente…

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…per avere un’idea di ciò che vi aspetta al cinema dovete immaginare Tenet come un Inception elevato alla decima. A confronto, il film con Leonardo DiCaprio vi potrebbe apparire lineare quanto una puntata di FriendsNolan fa di tutto per dimostrare la sua abilità nella costruzione di prodotti enormi dal fortissimo impatto spettacolare e cinematografico, eppure così inaccessibili al proprio significato o, più semplicemente, al proprio racconto inteso come svolgimento degli eventi. Occorrerebbe prendere appunti durante la proiezione, annotarsi luoghi visitati e personaggi incontrati. Perfino quando questi incontri avvengono, poiché in questo film lo scorrere del tempo è intrecciato, invertito, ciò che stiamo osservando adesso non è necessariamente ciò che sta accadendo mentre lo guardiamo. Potrebbe trattarsi di un evento del passato o del futuro, chi lo sa?

Se questo modo di decostruire la struttura filmica è marchio di fabbrica della ditta Nolan, in questo film – e forse, a parere di chi scrive, da quando il sodalizio di scrittura con il fratello minore Jonathan si è interrotto – si dimostra fastidiosamente contorto. O, più prosaicamente, meno soddisfacente per lo spettatore rispetto ad altri lavori come The Prestige o Memento. In Tenet tutto è portato all’eccesso, all’estremo e sfortunatamente questo nolanissimo sembra ipertrofizzare maggiormente i vizi, piuttosto che i pregi. Aggiungete, inoltre, che le aspettative per questa pellicola sono grandi quanto le ambizioni del proprio regista e avrete il cocktail perfetto per una delusione cocente…

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Tenet mostra e rimostra, spiega e rispiega, ti snocciola sotto il naso le sue prove del nove narrative, e a un certo punto la cosa diventa un attimo asfissiante. Non scassa il piacere di quello che stai vedendo, ma un minimo fa l'effetto dei suggerimenti a video non skippabili nella fase tutorial di un gioco. Solo che qui la fase tutorial torna a farti visita fino alla fine. Non c'è un messaggio profondo, anzi non c'è forse un messaggio e basta, perché non ce n'era bisogno. Le motivazioni di tutte le parti in causa sono semplici-semplici, certo, ma alla fine è pur sempre, dicevamo, una storia di spionaggio "con quel qualcosa in più". Una giostra scatenata, anche se mai fuori controllo. E non si può dire che Nolan non provi a spiegartelo in tutti i modi, praticamente da subito.

Atteso come il Grande Salvatore di Fine Anno per l'industria del cinema tutta, il Ken il Guerriero che affronta il più grande nemico postatomico in cui il cinema si sia imbattuto negli ultimi settant'anni, Tenet è la pellicola di cui tutti - come interessatissimi gufi da sala giochi anni 80 - stanno aspettando i risultati per capire come va e andrà nel breve periodo. Darà l'attesa scossa galvanizzante a un mercato narcotizzato da mesi e mesi di chiusura forzata? La voglia di vedere come se l'è cavata Cristopher questa volta supererà i timori e la deboscia di mesi di film visti solo a casa? Ma soprattutto, Tenet contribuirà a cementare il credito pressoché infinito di cui Nolan gode - a ragione - presso il pubblico? Avrà lo stesso impatto sull'immaginario collettivo, dopo mesi di spot martellanti e criptici, di un Inception, dieci anni dopo? La risposta, ovviamente, la lasciamo alla posterità.

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…I protagonisti dei film sembrano ricalcare perfettamente i classici archetipi descritti da Chris Vogler ne Il viaggio dell’eroe. Il protagonista senza nome compie l’arco di un irreprensibile eroe positivo, mentre l’antagonista mira a distruggere il mondo.

Tra eroe e antagonista, c’è anche una “fanciulla da salvare”, interpretata da Elisabeth Debicki. Il suo personaggio rappresenta la più classica “madre coraggio”, disposta a tutto per salvare il suo bambino.

Ma può un film dall’impianto audiovisivo tanto ambizioso coesistere con uno schema narrativo così tradizionale? Per molti, si tratterà certo di un contrasto stridente, mentre la divisione tra eroe, alleati e nemici risulterà perfino convenzionale.

Le recensioni estere più dure (vedi quella di Indiewire) si scontrano proprio sullo scarso appeal dei personaggi, ridotti a mera funzione narrativa, costretti continuamente a spiegare le proprie azioni e motivazioni, quasi svolgessero il ruolo di un portavoce, che si rivolge essenzialmente al pubblico.

I personaggi, o forse le interpretazioni più brillanti, a fronte di un John David Washington piuttosto statico, sono certo quelle di Kenneth Branagh, cattivo dal volto umano, e dell’alleato Robert Pattinson, che conferma versatilità e fascino (infuocando ancora di più le nostre aspettative per The Batmanqui il trailer).

Tenet sembra comunque tenere insieme molte, diverse anime: passaggi oscuri e verità rivelate, complessità e progressione naturale di una Spy-Story, da Action a War Movie.

Che siate fan o detrattori di Nolan, il punto è che, anche stavolta, siamo di fronte a un film che non lascia indifferenti. Un’opera che per colpire non sceglie la parola, ma le immagini in movimento, domandando agli spettatori di abbandonare completamente il senso, per vivere un’esperienza totalizzante.

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…"Faccio film da molto tempo ormai, e sono ben consapevole del mezzo in cui lavoro", sono state le parole di Nolan.

"È ciò che mi ispira e influenza le mie scelte creative in ogni modo possibile - mentre scrivo la sceneggiatura, mentre penso a cosa sarà, durante le audizioni...

È tutta un’esperienza straordinaria di vita che intendiamo offrire al pubblico.

Ogni decisione viene presa con l'idea di un pubblico che si chiude in un cinema per guardare il nostro lavoro su un grande schermo.

Ciò influisce su ogni scelta e tutto ciò che facciamo".

Scrivere di questo film, evitando qualsiasi tipo di spoiler, è un vero e proprio esercizio di stile.

Districarsi tra paradossi e ossimori è piuttosto complicato, come aveva spiegato tempo fa lo stesso Kenneth Branagh in un'intervista.

Le continue inversioni temporali danno un'inedita dinamicità alla pellicola, ma rischiano anche di ingarbugliare fin troppo la trama, lasciando lo spettatore spaesato.

Di contro Nolan confeziona sequenze realisticamente surreali, come quella del combattimento all'interno di un aeroporto o quella del conflitto finale.

Il regista è palesemente a suo agio, il Tempo è il suo terreno e ne è cosciente.

Credo che se potesse si piazzerebbe fuori da ogni sala cinematografica con il sorriso sulle labbra per fermare gli spettatori che barcollano dopo aver visto il suo film.

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Grazie anche al sublime montaggio di Jennifer Lame, che non è sacrilego definire come uno dei più complessi della storia recente del cinema, si percepisce la bramosia di sovvertire le regole della settima arte, di capovolgere i movimenti e le frasi (quasi come nella Loggia Nera di Twin Peaks), di scardinare generi e di attraversare una storia in ogni direzione possibile, restituendo allo spettatore la magia per troppo tempo proibita della sala, che, qualora ce ne fosse bisogno, si conferma come il luogo più adatto in cui godere di un’opera cinematografica. Tenet come possibile rivoluzione dunque, ma anche come uno degli ultimi baluardi della tradizione della sala, ambivalenza comprovata dalla combinazione fra pellicola 70 millimetri e IMAX scelta da Nolan per il suo lavoro dal più alto budget (oltre 200 milioni di dollari)…

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Harmony for after war: musicisti nel Rojava - Pablo Tosco, Migue Roth

 

venerdì 28 agosto 2020

La Daim – Quentin Dupieux

la malattia del cinema, quella di Gregory,  e quella di Denise, si incontrano, con esiti sempre più estremi.

Gregory è in fuga, la moglie gli ha tagliato l'accesso ai fondi, lui è riuscito a comprare l'oggetto del suo desiderio, una giacca di pelle di daino, con le frange, non un semplice oggetto, per lui è un essere vivente.

il film è folle, come sono le passioni portate all'estremo, che non hanno la parola fine, ma rilanciano all'infinito.

un film da non perdere, Quentin Dupieux è davvero bravo (e folle) - Ismaele


 

 

 

il mostro questa volta ha un volto umano: quello di un ordinario quarantenne, Georges, che pianta famiglia e lavoro da un giorno all’altro, e spende tutti i suoi risparmi per vivere il suo sogno: comprare una giacca scamosciata al 100%. Questo rapporto di possessività e gelosia con la giacca finirà per immergere George in un delirio criminale … Dupieux spinge molto in là il cursore dell’ assurdo e dell’umorismo nero. Le daim è acuto, spaventoso, asfissiante. Ed è anche l’incontro di due follie, quella di Gregory e quella di Denise, incontrata in un bar e accecata dalla sua passione per il cinema.  Il film di Dupieux si trasforma in una commedia horror, con impreviste esplosioni di violenza. Investito di un ruolo inquietante, Dujardin compone un personaggio molto lontano dagli idioti infantili che hanno costruito la sua reputazione. Adele Haenel arricchisce il suo personaggio con annotazioni biografiche e si integra perfettamente con il mondo di Dupieux senza forzarne i tratti. Le daim è un’esperienza affascinante che rafforza il progetto nascosto del regista: radicalizzare il suo cinema e scavare il solco di una follia più dura che dolce.

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Le daim è un film sanamente ombelicale, a tratti esilarante, a tratti brillante e la cui intermittenza non ne lede l’efficacia, anche perché la breve durata (poco più di un’ora e un quarto) non lascia tempo alle sbavature. Ci si ritrova così immersi in riflessioni sagaci e autoironiche del tipo “basta fare un film vero, per fare del vero cinema” o ancora “filmare coincide con il fare un film”. A ben vedere, dunque, l’intero lavoro di Dupieux appare come una figura retorica che gioca al rimbalzo tra significante e significato, e resta sospesa a mezz’aria tra assunto filosofico e nonsense. Il tutto è corredato da uno stile semi-realistico, quasi frontale, accompagnato a tratti da qualche inquadratura insolita, semisoggettive della giacca scamosciata – che tra l’altro, come viene più volte ribadito, è 100% made in Italy – incluse.

Certo, infastidirsi è legittimo, perché Le daim è un film per iniziati, disposti a giurare fedeltà al suo autore abbandonando magari la propria giacca – e le proprie remore – fuori dalla sala. Ma è altrettanto vero, ci tiene a dirci Dupieux, che in fondo quando si fa un film folle e delirante si fa sempre un film sul cinema, dal momento che se ne testano i confini e soprattutto si interpella lo spettatore, chiamandolo in causa, mettendolo davanti allo specchio per rivelare la natura intimamente feticista e innegabilmente folle della sua cinefilia. Perchè in fondo, bisogna ammetterlo, la cinefilia è anche una malattia mentale.

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il fantasma dell'artista fallito è solo una delle possibili letture del film che ne offre tante e probabilmente tutte pertinenti. Sempre al limite della burla che si risolve in fumo, l'opera dell'autore francese è un piacere da guardare e da analizzare. Le sue oscillazioni tra pieno e vuoto, idiozia e intelligenza, senso e nonsense, mettono in scena un piacere infantile a dispetto dell'orrore che sottendono. Per il suo cinema, Le Daim non fa eccezione, serve un certo grado di tolleranza e di humour perché il lavoro di Quentin Dupieux non assomiglia a nessun altro ma i suoi film si somigliano tutti, allacciati alle 'frange' della sua singolarità tentacolare.
Personaggi dalla razionalità dubbiosa o controproduttiva, combinazione di toni e slittamenti umoristici incomprensibili sono i tratti emblematici di un cinema costruito attorno a un filo narrativo perennemente spezzato, riannodato e daccapo snodato secondo un principio di assurdità trionfante…

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giovedì 27 agosto 2020

Masala - Salvador Calvo

una scuola di periferia, piena di problemi, una di quelle scuole problematiche che appaiono in tanti film,

gli alunni sono già classificati come rifiuti umani dal mondo, gli insegnanti e il direttore sono arresi, appare una professoressa di musica e mentre sta organizzando un concerto della scuola, arriva la notizia che la scuola verrà chiusa, dall'anno successivo.

una storia come tante, e però sempre nuova, con un respiro che non ti annoi un minuto.

a me è piaciuto (oltre che per il titolo, intendo).

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

Masala narra con buen pulso el proceso que lleva a Judith a ganarse poco a poco la confianza de sus alumnos. Para algunos de ellos, el hecho de ver a la nueva profesora como una víctima a su manera (la mala relación que empieza teniendo con Antonio y el trato que recibe de él) resulta decisivo a la hora de ponerse de su lado, pero todos, tarde o temprano y de un modo u otro, se acaban convenciendo de que dar la espalda a un centro que intenta ayudarles no es un acto de rebeldía demasiado inteligente.

La mayoría de personajes del telefilme están bastante bien dibujados, pero la descripción y desarrollo de los mismos podría haber sido mejor si hubiesen sido menos en cantidad. El afán de los guionistas por mostrar algo de la vida de cada uno de los alumnos, aunque sólo sean pinceladas en el caso de algunos de ellos, no solo enriquece el relato sino que se hace necesario para no mostrar a los chicos del centro como problemáticos “porque sí” o delincuentes “sin más”. La situación de los personajes adolescentes (la chica hindú a la que sus padres quieren casar, el chico gitano que se desvive por cuidar a su abuelo...) ayuda a dar a cada una de sus historias una dimensión más humana y justa de cara al juicio que seguro recibirán por parte de algunos espectadores, pero son tantas que la agilidad del relato de ve dañada…

Volviendo a la trama, a partir de cierto momento en ‘Masala’ la amenaza de cierre a causa de la especulación inmobiliaria coloca a todos los personajes del instituto en un mismo frente: es una bonita manera de hacernos llegar el mensaje de que podemos trabajar juntos con una meta en común, de que la convivencia pacífica es posible porque nos parecemos más de lo que pensamos, y que es al ser conscientes de ello cuando pasamos a ser una verdadera comunidad, una comunidad en la que la diferencia, la mezcla (eso es exactamente lo que significa la palabra hindú masala) es vista como la riqueza que es.

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mercoledì 26 agosto 2020

El dia de la bestia - Alex de la Iglesia

un film che non si può non vedere, una guerra contro il diavolo e l'anticristo è in corso. 

attori bravissimi (appare, irriconoscibile, Maria Grazia Cucinotta), simpaticissimo Josè Maria (collega venditore di dischi del Jack Black di Alta fedeltà)

vogliatevi bene, non privatevene - Ismaele 

 

 

 

Il secondo film di Alex de la Iglesia è questa spassosa commedia nera, dai toni molto macabri, che tratta temi legati all'occulto, alla teologia e alla magia nera. La trama è un pretesto bislacco per ridere di gusto sulle superstizioni della gente e su questo il film centra in pieno il bersaglio, allo stesso tempo però non mancano alcune scene più inquietanti e drammatiche. I protagonisti sono sempre bizzarri e pazzoidi come in tutti i suoi film.
Sicuramente è uno dei film meglio riusciti del regista, nonostante lo stile un pò acerbo e una produzione low budget.

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L’atmosfera alla vigilia di Natale non era mai stata così cupa, Madrid diventa Gotham City per una notte. L’Anticristo sta per manifestarsi proprio durante quelle ore, così il prete, il metallaro e un ciarlatano che conduce un programma televisivo sono costretti ad allearsi per combattere il Demonio, in procinto di materializzarsi in città. Tre figure molto distanti tra loro, unite però dallo stesso intento, la salvezza dell’umanità: De La Iglesia parte da questo presupposto per mettere in scena con grande personalità un’opera che travalica i generi, mescolando horror e commedia nera in maniera pregevole.

Le scene da ricordare sono molte, a cominciare dall’incontro tra Padre Ángel Berriartúa e José María nel negozio di dischi di quest’ultimo, tra citazioni continue di gruppi metal (il prete cerca i Napalm Dez e gli Iron Meiden, ovviamente storpiando i nomi!) e dialoghi esilaranti che strappano più di un sorriso. Anche le immagini dei rituali satanici sono valide, tenebrose e avvolgenti, una componente orrorifica che si amalgama con quell’ironia di fondo che nel cinema di De La Iglesia fa rima anche con il grottesco.
“El Día De La Bestia” è un film brillante, ancora oggi considerato il migliore del regista iberico insieme a “La Comunitad” (2000), senza ovviamente dimenticare una manciata di altri titoli tutti di spessore, chi più chi meno. Una pellicola legata a un nome basilare per le sorti del cinema spagnolo degli ultimi venticinque anni, un trascinatore capace di reinventare il genere fantastico con grande fantasia e originalità: questo è Álex De La Iglesia, moderno interprete di una scuola che proprio in concomitanza degli anni novanta ha ritrovato lo slancio definitivo grazie a una nuova generazione di talenti dietro la cinepresa. Un titolo importante, ma soprattutto spassoso.

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…L’introduzione è divertentissima, in quanto vede il sacerdote alle prese con ogni sorta di cattiva, quanto innocua, azione volta, a suo dire, a compiere il male: ruba l’elemosina ad un barbone, la valigia di un viandante, spinge un mimo dal piedistallo, cerca insomma di dare il peggio di sé per far sì che il diavolo gli presti attenzione. Nel corso del suo peregrinare, pensa anche di dedicarsi alla musica estrema, e si imbatte in un negozio di dischi gestito da José Maria, un metallaro semplicione che prenderà a cuore la causa del sacerdote.

A completare il trittico di ben assortiti e curiosi protagonisti, entrerà in gioco un presentatore televisivo, sedicente esperto di arti occulte ma in realtà un mero impostore. Insieme, i tre cercheranno di affrontare la luciferina minaccia che incombe sul mondo intero, tra teorie ardite, deduzioni pazzesche e tanta azione che porteranno ad un finale in cui il Male, finalmente, si manifesterà nella sua forma più classica e pura.

 

Il Giorno Della Bestia è irresistibile: ha un ritmo incalzante, è ribaldo, dinamico, quasi furioso nel suo incedere in apparenza disordinato. E’ provocatorio e ricco di eccessi, a partire dai personaggi, tutti delineati molto bene, non sempre originali ma che riescono a mantenersi interessanti e a fornire i giusti ingredienti alla portata. Non sono presenti grandi quantità di sangue o di tensione, e verso il finale il film prende ad arrancare un po’ ed a diventare confusionario, lasciando spazio a diverse interpretazioni, ma per la maggiore si rivela essere una visione divertentissima e una commedia nera ben pensata, scritta e diretta, con una fotografia ed una progettazione visuale assolutamente interessanti. Menzione d’onore per Álex Angulo, vero motore del film che in qualche frangente ricorda la buffa imbranataggine di Woody Allen.

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…Raro esempio di commistione riuscita tra commedia e orrore, El día de la bestia non dimentica mai la sua vocazione orrorifica ma de la Iglesia, divertendosi anche a infrangere qualche tabù tra i pochi rimasti, inocula nella storia robuste dosi di satira e ironia che, più che alleggerire il tono horror, lo enfatizzano con efficacia

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martedì 25 agosto 2020

La vie des morts - Arnaud Desplechin

una famiglia allargata numerosa si ritrova in attesa che un figlio/nipote esca dall'ospedale, ricoverato per un tentato suicidio.

tanti parlano, si conoscono, si riconoscono, aspettano che il ragazzo esca dall'ospedale.

in meno di un'ora non succede niente e succede tutto

buona visione - Ismaele


 

 

QUI il film completo, con sottotitoli in spagnolo

 

Esse estranho média metragem que é o filme de estréia de Desplechin consegue equilibrar de forma coesa o seu estranhamento a partir de uma narrativa descentrada, em que nenhum personagem ganha protagonismo, e ao mesmo tempo grandemente elíptica e independente das convenções de continuidade, traindo uma profunda influência do cinema moderno. O filme começa in media res e talvez o que o torne mais incômodo para boa parte dos espectadores é que a sensação de familiaridade com os personagens, que vivenciam uma tentativa de suicídio grave na família, que acaba se confirmando ao final como morte, não chega a ser tecida ao todo nem mesmo ao seu final, dado o seu constante salto para situações diferenciadas vividas por membros do grupo. Também chama particular atenção a segura direção de atores e elaborada composição visual dos enquadramentos, tirando proveito de situações aparentemente já demasiado exploradas, como a do diálogo entre uma personagem e o reflexo espelhado de outra, com bastante talento e sem cair na tentação de um virtuosismo estilístico estéril. Desplechin consegue apresentar uma família “excêntrica”  a partir de uma opção estilístico-narrativa não menos excêntrica, afastando a gratuidade presente em muitas obras de contemporâneos como François Ozon.

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Unfolding with an unexpected whimsicality, anarchic spirit, and gentle humor innate in everyday life as the MacGillis children alternately disparage and flirt with the hopelessly out of place Laurence, smoke pot, conjecture on the real motivation behind Patrick’s suicide beyond the sanitized “official” family explanation, play practical jokes, and even attempt to cope with the personal crisis of a possible unexpected pregnancy, La Vie des morts reflects the existential need for reassurance through self-distraction and the conduct of everyday rituals within the collective crisis of imminent death. This theme of coexistent balance between the ritual of living and the process of dying is perhaps best illustrated in Pascale’s early morning task at the conclusion of the film in a scenario that also prefigures Therese’s self-induced mock birth and Léo’s momentary hallucination in Playing ‘In the Company of Men’ – where blood becomes an interconnected symbol of life and death, genetic bond and surrogate transfiguration, innocence and moral stain – where biological processes trace the broader existential cycle of perpetual renewal.

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nel film recitano Il viaggio, di Charles Baudelaire

I

Per il ragazzo, amante delle mappe e delle stampe,

l'universo è pari al suo smisurato appetito.
Com'è grande il mondo al lume delle lampade!
Com'è piccolo il mondo agli occhi del ricordo!

Un mattino partiamo, il cervello in fiamme,

il cuore gonfio di rancori e desideri amari,
e andiamo, al ritmo delle onde, cullando
il nostro infinito sull'infinito dei mari:

c'è chi è lieto di fuggire una patria infame;
altri, l'orrore dei propri natali, e alcuni,
astrologhi annegati negli occhi d'una donna,
la Circe tirannica dai subdoli profumi.

Per non esser mutati in bestie, s'inebriano
di spazio e luce e di cieli ardenti come braci;

il gelo che li morde, i soli che li abbronzano,
cancellano lentamente la traccia dei baci.

Ma i veri viaggiatori partono per partire;

cuori leggeri, s'allontanano come palloni,
al loro destino mai cercano di sfuggire,
e, senza sapere perchè, sempre dicono: Andiamo!

I loro desideri hanno la forma delle nuvole,

e, come un coscritto sogna il cannone,
sognano voluttà vaste, ignote, mutevoli
di cui lo spirito umano non conosce il nome!

II

Imitiamo, orrore! nei salti e nella danza
la palla e la trottola; la Curiosità, Angelo
crudele che fa ruotare gli astri con la sferza,

anche nel sonno ci ossessiona e ci voltola.

Destino singolare in cui la meta si sposta;

se non è in alcun luogo, può essere dappertutto;
l'Uomo, la cui speranza non è mai esausta,
per potersi riposare corre come un matto!

L'anima è un veliero che cerca la sua Icaria;

una voce sul ponte: «Occhio! Fa' attenzione!»

Dalla coffa un'altra voce, ardente e visionaria:

«Amore... gioia... gloria!» É uno scoglio, maledizione!

Ogni isolotto avvistato dall'uomo di vedetta
è un Eldorado promesso dal Destino;

ma la Fantasia, che un'orgia subito s'aspetta,
non trova che un frangente alla luce del mattino.

Povero innamorato di terre chimeriche!

Bisognerà incatenarti e buttarti a mare,

marinaio ubriaco, scopritore d'Americhe
il cui miraggio fa l'abisso più amaro?

Così il vecchio vagabondo cammina nel fango
sognando paradisi sfavillanti col naso in aria;

il suo sguardo stregato scopre una Capua
ovunque una candela illumini una topaia.

III

Strabilianti viaggiatori! Quali nobili storie
leggiamo nei vostri occhi profondi come il mare!

Mostrateci gli scrigni delle vostre ricche memorie,

quei magnifici gioielli fatti di stelle e di etere.

Vogliamo navigare senza vapore e senza vele!

Per distrarci dal tedio delle nostre prigioni,

fate scorrere sui nostri spiriti, tesi come tele,
i vostri ricordi incorniciati d'orizzonti.

Diteci, che avete visto?

IV

«Abbiamo visto astri
e flutti; abbiamo visto anche distese di sabbia;

e malgrado sorprese e improvvisi disastri,
molte volte ci siamo annoiati, come qui.

La gloria del sole sopra il violaceo mare,

la gloria delle città nel sole morente,
accendevano nei nostri cuori un inquieto ardore
di tuffarci in un cielo dal riflesso seducente.

Le più ricche città, i più vasti paesaggi,

non possedevano mai gl'incanti misteriosi
di quelli che il caso creava con le nuvole.
E sempre il desiderio ci rendeva pensosi!

- Il godimento dà al desiderio più forza.
Desiderio, vecchio albero che il piacere concima,

mentre s'ingrossa e s'indurisce la tua scorza,
verso il sole si tendono i rami della tua cima!

Crescerai sempre, grande albero più vivace
del cipresso? - Eppure con scrupolo abbiamo
raccolto qualche schizzo per l'album vorace
di chi adora tutto ciò che vien da lontano!

Abbiamo salutato idoli dal volto proboscidato;

troni tempestati di gemme luminose;
palazzi cesellati il cui splendore fatato
sarebbe per i vostri cresi un sogno rovinoso;

costumi che per gli occhi son un'ebbrezza;
donne che hanno dipinte le unghie e i denti,
e giocolieri esperti che il serpente accarezza.»

V

E poi, e poi ancora?

VI

«O infantili menti!

Per non dimenticare la cosa principale,

abbiam visto ovunque, senza averlo cercato,
dall'alto fino al basso della scala fatale,
il noioso spettacolo dell'eterno peccato;

la donna, schiava vile, superba e stupida,
s'ama senza disgusto e s'adora senza vergogna;
l'uomo, tiranno ingordo, duro, lascivo e cupido,
si fa schiavo della schiava, rigagnolo di fogna;

il martire che geme, il carnefice contento;
il popolo innamorato della brutale frusta;
il sangue che dà alla festa aroma e condimento,
il veleno del potere che snerva il despota;

tante religioni che alla nostra somigliano,
tutte che scalano il Cielo; la Santità,
come un uomo fine su un letto di piume,
fra i chiodi e il crine cerca la voluttà;

l'Umanità ciarlona, ebbra del suo genio,

e delirante, adesso come in passato,
nella sua furibonda agonia urla a Dio:
«Mio simile, mio padrone, io ti maledico!»

E i meno stolti, della Demenza arditi accoliti,

in fuga dal grande gregge recinto dal Destino,
per trovare rifugio nell'oppio senza limiti!
- Questo del globo intero l'eterno bollettino.»

VII

Dai viaggi che amara conoscenza si ricava!

Il mondo monotono e meschino ci mostra,

ieri e oggi, domani e sempre, l'immagine nostra:

un'oasi d'orrore in un deserto di noia!

Partire? restare? Se puoi restare, resta;

parti, se devi. C'è chi corre, e chi si rintana
per ingannare quel nemico che vigila funesto,

il Tempo! Qualcuno, ahimè! corre senza sosta,

come l'Ebreo errante e come l'apostolo,
al quale non basta treno o naviglio,
per fuggire l'infame reziario; e chi invece
sa ucciderlo senza uscire dal nascondiglio.

Infine quando ci metterà il piede sulla schiena,

potremo sperare e urlare: Avanti!
E come quando partivamo per la Cina,
gli occhi fissi al largo e i capelli al vento,

così c'imbarcheremo sul mare delle Tenebre
col cuore del giovane che è felice di viaggiare.
Di quelle voci ascoltate il canto funebre
e seducente: «Di qui! Voi che volete assaporare

il Loto profumato! è qui che si vendemmiano
i frutti prodigiosi che il vostro cuore brama;
venite a inebriarvi della dolcezza strana
di questo pomeriggio che non avrà mai fine!»

Dal tono familiare riconosciamo lo spettro;

laggiù i nostri Piladi ci tendon le braccia.
«Per rinfrescarti il cuore naviga verso la tua Elettra!»
dice quella cui un tempo baciavamo le ginocchia.

VIII

"O Morte, vecchio capitano, è tempo! Sù l'ancora!

Ci tedia questa terra, o Morte! Verso l'alto, a piene vele!

Se nero come inchiostro è il mare e il cielo
sono colmi di raggi i nostri cuori, e tu lo sai!

Su, versaci il veleno perchè ci riconforti!

E tanto brucia nel cervello il suo fuoco,
che vogliamo tuffarci nell'abisso, Inferno o Cielo, cosa importa?
discendere l'Ignoto nel trovarvi nel fondo, infine, il nuovo.

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lunedì 24 agosto 2020

Victim – Basil Dearden

fino al 1967 essere omosessuale e avere rapporti omosessuali era un reato che apriva le porte della galera, nella civilissima Inghilterra, quella dei Beatles.

fare questo film nel 1961 fu un macigno nello stagno del perbenismo e delle leggi terribili del tempo.

anche questo film può aver contribuito alla cancellazione di quelle leggi vergogna? io credo di sì.

il film ha per protagonista un immensamente bravo Dirk Bogarde, regista Basil Dearden, uno a cui non mancava il coraggio.

il film è bellissimo non solo per quello che ha significato, ma è un gioiello in sé.

non perdetevelo, se vi volete bene - Ismaele


QUI il film completo in inglese, con sottotitoli in inglese

 

 

Film cruciale, a suo modo storico. Il primo – siamo nel 1961, in Gran Bretagna – a infrangere davvero al cinema il muro del pregiudizio antiomosessuale. Fino a Victim il gay su grande schermo era imprigionato nel reticolo dei cliché, nei vari ma tutti ferrei e non scalfibili cliché: il vizioso, il borghese o aristocratico raffinato e decadente, il losco figuro dedito alle peggio infamie morali, il povero malato incolpevole della sua malattia da guarire e recuperare alla normalità, la sfolgorante checca tutta lazzi, mosse e lustrini, ecc. Con Victim si racconta di gay che, per il solo vivere la propria condizione e il proprio desiderio, sono dei reietti sociali perennemente a rischio di incappare nella rete della giustizia (val la pena ricordare che, quando viene girato il film, nel Regno Unito l’omosessualità è ancora un reato, esattamente come ai tempi di Oscar Wilde)…

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…Nello schema di un noir d’alto bordo che risente delle atmosfere del Free Cinema e del suo spirito anarcoide pur in una forma elegante e raffinata, Victim è un audace e temerario caposaldo che non solo rompe un tabù ma fa anche collimare l’avvincente tensione del giallo con l’impianto di un racconto civile che vuole mettere in mostra soprattutto la normalità di coloro ancora considerate pericolosi o perversi trasgressori della morale.

Può sembrare oggi banale – oppure no – ma il cuore dell’operazione sta nel far passare il massaggio che l’essere omosessuali non rende né migliori né peggiori: il linguaggio colloquiale e familiare non immune al romanticismo, le recitazioni sì tormentate ma mai affettate come macchiettismo impone, la storia nera da thriller sottolineano la pericolosità di un film che ribaltava coraggiosamente il modulo dell’epoca, scegliendo un approccio così esplicito da accrescerne il valore politico. La censura, infatti, fu spietata e impose il divieto di visione ai minorenni…

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Se il film è potente ancora oggi, la storia che c’è dietro alla sua costruzione è meritevole di citazione. L’attore che interpreta l’avvocato Farr era anch’egli segretamente omosessuale, proprio come il protagonista di questo torbido ed intrigante noir. Dopo aver letto la sceneggiatura fece di tutto per esserne il futuro protagonista, proprio come Farr, di abbattere un muro di omertà e pregiudizio inglese nei confronti degli omosessuali, chiamati più volte deviati o ‘queer’ nella pellicola. Infatti ben sei anni più il reato di omosessualità venne depenalizzato nel Regno Unito.
Per quanto concerne il film, e l’evoluzione della storia rappresentata, siamo su livelli altissimi. Forte di un depistaggio ossessivo sulla reale identità dei ricattatori, sull’analisi del ‘problema’ da parte degli stessi poliziotti, e soprattutto il conflitto interiore e di coscienza di Farr, desiderosi di abbattere un muro omertoso nei confronti degli omosessuali, costretti fino ad allora a vivere nell’ombra e pagare per non essere scoperti e trascinati in galera per ‘atti omosessuali’.
Niente lagne strazianti o stereotipi del cinema moderno sull’argomento, bensì un intreccio misterioso e tagliente che porterà alla luce un odio senza fine da parte di un’insospettabile soggetto ricattatore, armato di rancore, ripugnanza ed intolleranza. Finale superlativo per un capolavoro vero del cinema. Considerato l’anno d’uscita, quasi sessant’anni fa, l’atmosfera noir resa perfetta da personaggi stereotipati del genere alternati ad altri decisamente innovatovi, le tematiche trattate (avanti anni luce per l’epoca) e l’intreccio da thriller ansiogeno, ed infine le interpretazioni da manuale del cinema, VICTIM entra di diritto nella classifica dei noir/thriller migliori della storia del cinema! Opera totale!

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…Di fronte ad una pellicola come Victim non si può che rimanere affascinati dal coraggio con cui il regista, Basil Dearden – conosciuto poco anche in Gran Bretagna – l’attore protagonista, Dirk Bogarde (lo ricordiamo in Morte a Venezia e La caduta degli dei di Luchino Visconti, nonché ne Il portiere di notte di Liliana Cavani) e l’intera produzione, hanno condotto a termine il progetto.

Siamo nel 1961, cioè sette anni dopo il suicidio di Turing, in una nazione che sta cambiando ma che soffre ancora del puritanesimo che ha tratteggiato l’epoca vittoriana. L’importanza del film non poteva sfuggire a Vito Russo, che nel suo libro Lo schermo velato, dedicato alla rappresentazione cinematografica dell’omosessualità, ne rivendica la portata rivoluzionaria, sottolineando come sia il primo lungometraggio della storia del cinema ad usare la proposizione «Io sono omosessuale».

Nel testo di Russo è presente un’intervista a Dirk Bogarde, in cui l’attore così si esprime: «Era il primo film in cui un uomo diceva “ti amo” ad un altro uomo. Sono stato io a scrivere quella scena. Ho detto: “le mezze misure non hanno senso. O si fa un film sui froci o non lo si fa”. […] Io credo che il film abbia cambiato la vita di tante persone” (cfr. V. Russo, Lo schermo velato, Costa § Nolan, 1984, pp. 160-161).

La cosa diventa ancora più evidente se si pensa che, proprio nello stesso anno in cui è uscito Victim, nelle sale era arrivata un’altra pellicola inglese dedicata alla vita di una persona omosessuale. Si tratta di Sapore di miele, del regista Tony Richardson, un’opera ancora appesantita da tutti i luoghi comuni che, in quegli anni, alimentavano l’immaginario collettivo sull’omosessualità.

È utile ricordare che il film di Dearden fu sottoposto a censura, con il taglio di alcuni minuti che facevano parte del montaggio originale. Nonostante ciò, a distanza di quasi sessantanni, la sceneggiatura e la regia risultano ancora fresche, attuali e penetranti, a dimostrazione della buona riuscita dell’opera.

Molti sostengono che l’attore Dirk Bogarde fosse omosessuale, sebbene lui stesso sconfessò più volte questa diceria. Resta il fatto che ebbe una lunghissima convivenza con il suo manager Tony Forwood, al quale Dirk, dopo la diagnosi di Parkinson, dedicò tutto il suo tempo.

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Recent critics find "Victim" timid in its treatment of homosexuality, but viewed in the context of Great Britain in 1961, it's a film of courage. How much courage can be gauged by the fact that it was originally banned from American screens simply because it used the word "homosexual." To be gay was a crime in the United States and the U.K., and the movie used the devices of film noir and thriller to make its argument, labeling laws against homosexuality "the blackmailer's charter." Indeed, 90 percent of all British blackmail cases had homosexuals as victims.

The defense of homosexuality was not a popular topic at the box office when the film was made, and director Basil Dearden tried to broaden the film's appeal by making it into a thriller and a police procedural. There is no sex on (or anywhere near) the screen, and while the hero is homosexual by nature, there is doubt that he has ever experienced gay sex. The plot hinges on anonymous blackmailers who collect regular payments from wealthy and famous gays, and on the decision of a prominent barrister to stand up to them…

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