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domenica 8 aprile 2018

I segreti di Wind River - Taylor Sheridan

un film dalla parte dei vinti, gli indiani della riserve subiscono tutti i giorni le prepotenze e le violenza degli invasori, gli uomini bianchi.
qualche puma uccide un vitello, il cacciatore interviene per vendicare e uccidere i predatori, e come sempre sta per uccidete i predatori, ma qualcosa attira la sua attenzione, un'indiana morta nella neve.
da lì parte la caccia ai predatori, quelli veri, il cacciatore viene preso come aiutante dall'agente dell'FBI che segue il caso e quello che ne esce fuori è un filmone che prima non t'immagini, uno di quei film che ti fanno uscire dal cinema contento di aver visto un'opera straordinaria.
vuoiti bene, non perderlo - Ismaele







…Il punto di vista di Sheridan è lucido e implacabile, rifugge da qualsiasi tentazione epica, per focalizzarsi su un realismo di spietata efficacia. L’esistenza non è che una lotta e, come tale, si dispiega in quella pratica che endemicamente le appartiene: la violenza e la sua portata animalesca. La Natura non si limita ad assistere all’azione dell’uomo ma, a queste latitudini dove non si obbedisce alla Legge, lo sfida a un duello impari e, proprio per questo, senza esclusione di colpi.
Sheridan si serve del crimine come pretesto per mostrarci il volto di un paese che vive ancora il dramma lacerante della segregazione continuando a subirne le sanguinose conseguenze e con I segreti di Wind River ci porta così nel cuore del tragico, privandolo di ogni sfumatura romanzesca, per farsi straordinaria metafora del contemporaneo. Il confronto – e non soltanto quello tra il predatore e la preda – diventa ferino, selvaggio e qui si esprime in un paio di poderosi momenti come nel mexican standoff, magnificamente orchestrato, e nello scarto narrativo in cui scopriamo ciò che è accaduto alla vittima prima di tentare la fatale fuga tra la neve.
Un perfetto e doloroso epilogo, al quale si concede una sfumatura di amaro umorismo, di una formidabile trilogia che respira dentro la Storia e rivitalizza quel cinema d’oltreoceano in grado talvolta di affrancarsi dalla rassicurante produzione mainstream.

Premiato a Cannes con la migliore regia Un Certain Regard, “I Segreti di Wind River” è l’atto terzo della frontiera americana scritto da Taylor Sheridan, che riflette ancora una volta su un pezzo degli USA senza speranza, in cui la sconfitta umana è totale dove il corpo senza vita della nativa è simbolo di quel vergognoso eccidio perpetrato dagli Americani nei confronti di un popolo fiero di guerrieri e sciamani, privati del loro orgoglio e relegati ai limiti del mondo a combattere per la propria sopravvivenza. Un western contemporaneo che ragiona con attenzione su temi pressanti come la violenza e il razzismo, accompagnato da eccellenti performance dagli interpreti protagonisti, due estremi della stessa bilancia.

Lo script di Sheridan innesta su una lineare detection dei flashback che contribuiscono ad accrescere la tensione, a svelare il buio che ha inghiottito le vittime, facendo scorrere su binari paralleli l’elaborazione del lutto di Lambert e il rito di passaggio di Banner. Riecheggiano ne I segreti di Wind River una lunga serie di pellicole, da Caccia selvaggia di Peter R. Hunt a The Precipice di Yasuzō Masumura, da La promessa di Sean Penn a La notte senza legge di André De Toth, da In ordine di sparizione di Hans Petter Moland a Il grande silenzio di Sergio Corbucci… immagini e suggestioni che confluiscono nella scrittura, nei personaggi, nei volti e nei paesaggi di I segreti di Wind River. In meno di due ore, Sheridan riesce ad articolare il meccanismo investigativo, a raccontare un territorio, a riassumerne le implicazioni individuali e sociali, a restituire la sensazione del gelo, dei cristalli di ghiaccio che penetrano nei polmoni. È un cinema fisico, quello di Sheridan, vigoroso quando serve. Un cinema che lavora di sottrazione, ma che è pronto a esplodere, perché siamo in un western. Un western di lupi e di cervi.
Il branco. Il cacciatore. La guerriera. Il western non morirà mai.

la squadra tecnico-artistica è eccezionale: musiche originali di Nick Cave & Warren Ellis (“the Proposition”, “the Road” e “LawLess” per John Hillcoat, “the Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford” per Andrew Dominik, “War Machine” per David Michôd, “Hell or High Water” per D.Mackenzie e Taylor Sheridan), con un'unica canzone di repertorio, sui titoli di coda, la bella “Feather” di William Wild/Garrett Sale, fotografia di Ben Richardson (“Beasts of the Southern Wild” di Benh Zeitlin, tre mumblecore by Joe Swanberg uno in fila all'altro, e “1922” di Zach Hilditch) e montaggio del suddetto Gary D. Roach [assistente ventennale di Joel Cox, il collaboratore storico (un quarantennio: '75-'15) per il taglia&cuci di Clint Eastwood (nelle retrovie da “Absolute Power” a “Flags of Our Fathers” e in prima linea come co-montatore ufficiale da “Letters from Iwo Jima” ad “American Sniper”), col quale ha riassemblato ed impostato la cadenza del “Prisoners” di Denis Villeneuve (ed è questo forse il film che moralmente entra più in risonanza con - e al contempo in controcanto a - “Wind River”) e quella di un documentario di un altro amico/sodale di Eastwood ("Piano Blues"), Bruce Ricker, su Budd Boetticher (per dire…), ha anche curato, sempre in coppia, però con Aaron I. Butler, l'editing di “In Dubious Battle” di James Franco]. Producono Peter Berg & Co. 
Gran cast: Jeremy Renner (“the Hurt Locker”, “the Immigrant”, “American Hustle”, “Arrival”) in furibondo understatement, Elizabeth Olsen (“Martha Marcy May Marlene”, “OldBoy”, “Godzilla”) abilmente spaesata, e poi: Graham Greene (una carriera monumentale, con l'apice nel Kickin Bird di “Dances with Wolves” e uno degli ultimi ruoli rimarcabili in “Longmire”), Gil Birmingham (in “Hell or High Water” Comanche, qui Arapaho), Julia Jones (la donna più bella del mondo, e c'ho le prove, unadue), Jon Bernthal [con quella faccia un po' così, quel naso rotto che scricchiola ad ogni sfrociar di respiro, l'orco buono tenta di ammazzarli tutti, ma le carogne sono troppe; però la carriera è in ascesa: “World Trade Center”, “the Ghost Writer”, “the Wolf of Wall Street”, “Fury”, “Sicario” (in ruolo diametralmente opposto rispetto a questo), “the Walking Dead”, “Show Me a Hero”], Kelsey Chow, Eric Lange, etc…

L'ossessione della caccia di Cory, l'acquattarsi e il pazientare all'infinito in attesa di premere il grilletto al momento opportuno, ha origine da un bisogno di vendetta personale e tuttavia prende forma in un'autodisciplina filosofica vicina all'ascetismo (o all'autismo) del commissario Matthäi di Dürrenmatt. Ne "La promessa" la casualità governava l'universo; "Wind River" non trascura moventi sociali ma anch'essi vanno ad alimentare un'atmosfera che fa il paio con quella meteorologica: di caos sospeso, incontrollabile, pronto a deflagrare proprio nella casualità…

venerdì 20 gennaio 2017

Arrival – Denis Villeneuve

inizia come District 9, alcune astronavi appaiono, senza nessun preavviso.
si scatena il panico, e ci sono le due opzioni, distruggerle o cercare un contatto; miracolosamente prevale la seconda, ma non per troppo tempo, il mondo decide di fargli la guerra, ma succede qualcosa di straordinario (che non dico, naturalmente).
Denis Villeneuve sembra cadere in citazionismo (penso a Malick, tra gli altri) ma è una paura infondata, è troppo bravo e capace per fare il suo cinema.
nella storia il tempo non è quello cronologico, riesce anche ad essere circolare, come comunicano gli alieni.
l'istinto è eliminare quello che non si capisce, o che è troppo diverso da noi, che potrebbe minare le certezze acquisite nel tempo.
la storiella del canguro è proprio un aneddoto sulla comunicazione.
per quanto il film potrebbe sembrarvi strano vi piacerà, non serve capire tutto e subito, contano le sensazioni che il film lascia, e certi momenti sono emozionanti ed entusiasmanti.
per questo non perdetevi questo film, non è fantascienza (lo dico per quelli che la fantascienza la aborriscono, e neanche sanno perché), è "solo" grande cinema, e basta. 
e qui finisce la recensione, solo la prima parte però.
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è che mi torna in mente la fine di Enemy.
un essere enorme copre anche i palazzi, la città intera, un ragno pare, qualcosa di opprimente.
gli "alieni" del film mi sembrano "parenti" di quell'enorme ragno, ma al contrario, non per opprimere ma per liberare.
e se quegli "alieni" non fossero altro che una creazione dell'inconscio collettivo (nel senso di Jung, credo) di milioni di persone disperate, vinte, arrese, ma non del tutto.
e se gli "alieni" fossero lo strumento per ricominciare a vivere una vita che ne valga la pena?
e se Louise fosse il tramite fra la triste realtà e la possibilità di ricominciare? - Ismaele








...Amerete Arrival in qualsiasi caso perché è un film universale, un gigantesco gioco di specchi fatto per piacere agli appassionati di fantascienza – che accetteranno senza battere ciglio un paio di soluzioni poco ortodosse in cambio di un’ora e quaranta di xenolinguistica –, a quelli che nel cinema cercano il sempre imprescindibile Elemento Umano – che vengono introdotti a due ore di xenolinguistica dal più classico dei melodrammi familiari, con la promessa di ritornarci –, a quelli che vanno al cinema perché lo schermo è grosso e la sua ragione di esistere è ospitare strutture volanti altrettanto enormi, agli esteti, ai cinefili, a chi è cresciuto con gli Urania e a chi è cresciuto con Spielberg.

Arrival è un film affascinante e coinvolgente che si dipana lungo due piani temporali distinti ma che si confondono senza che ce ne accorgiamo. Si potrebbe pensare a un Villeneuve in fase spielberghiana. Niente di più sbagliato...
...Così come qualcuno potrebbe criticare il regista di La donna che canta di aver cercato di emulare Christopher Nolan. Errore. Villeneuve è un regista con una sua visione e una sua idea di cinema ben precisa e Arrival ne è l’ennesima dimostrazione. Attraverso una colonna sonora potentissima e un immaginario fantascientifico originale ed estremamente realistico, Arrival ci fa sprofondare in un viaggio dell’inconscio che, attraverso la metabolizzazione dell’amore e una traslitterazione dei sentimenti, ci dice cose nuove sul cinema e su noi stessi. Non è un film facile, Arrival, ma con l’aiuto dei codici del genere e il ritmo sostenuto che sa infondergli Villeneuve arriva al cuore e alla mente anche di coloro che pensano di aver perso per strada alcuni pezzi.
da qui

Villeneuve, nonostante l’oscurità del plot, vero punto di fragilità dell’operazione, ce la fa a condurre in porto un fantascientico colossale come esige il mercato senza scadere nella giocattoleria, e invece attenendosi a quel filone nobile e glorioso della sci-fi umanistica che ormai sembrava eclissato dalle mostrerie varie con uso e abuso di CGI e quant’altro. Rispetto alle figurine piatte e bidimensionali, da graphic novel prontamente riporodotta su grande schermo con la stessa mancanza di profondità, dei vari reboot di Star Wars e Star Trek e dei pur rispettabili supereroistici Marvel, Arrival più che raccontare di alieni va a scavare nelle nostre alienazioni, nella gente che sta da questa parte del cosmo, mostrandone corpi e menti dove stanno incapsulati ricordi angosciosi. Quella fantascienza che abbiamo conosciuto e amato tra anni Sessanta e Settanta, da Kubrick fino al meraviglioso Tarkowski di Solaris cui questo Arrival qua e là somiglia, e di Stalker
da qui

Amy Adams è la scelta perfetta, ha una gamma di espressività vasta e ed è capace di sovrapporre la tensione della paura, alla tensione dell’eccitazione, la voglia di andare avanti con il timore che ci spinge indietro. Tuttavia non basta la bravura. Solo qualche anno fa il ruolo protagonista, quello quello dello scienziato che lotta con i militari per capire l’altro, sarebbe stato affidato ad un uomo. Sarebbe stata una parte buona per Dustin Hoffman, Richard Dreyfuss o Jeff Goldblum a seconda delle annate, e del resto non è diverso da quello di Matthew McConaughey in Interstellar, eppure qui va ad una donna, che lotta contro i maschi per imporre la propria volontà come fa Jessica Chastain in Zero Dark Thirty.
Non è poco, in un film in cui bisogna capire gli alieni che ci sia una donna al centro di tutto che cerca di imporsi. Non è normale e non è usuale. Nelle mani di Villeneuve poi, è anche molto bello.


Dopo pochi minuti, gli ingranaggi di una sceneggiatura non perfettamente oliata iniziano a stridere: se la cinematografia statunitense nella sua declinazione più smaccatamente hollywoodiana ci ha abituati a spiegazioni frettolose, dialoghi esplicativi e didascalici per non far perdere lo spettatore in possibili tecnicismi o passaggi elevati, in Arrival si segnalano sequenze che rasentano l'auto-parodia. Perché non può non far sorridere lo sguardo fisso e serissimo con cui il colonnello di Forest Whitaker attende una risposta dalla professoressa, dopo averle chiesto a bruciapelo cosa venisse detto in quella serie di versi e suoni che, da "Alien" al serial "Stranger Things", si susseguono indistinguibili per rappresentare l'espressione vocale extraterrestre. Ci rendiamo conto, altresì, che la semplificazione fa parte del cinema e, in particolare, di quello fabbricato a Hollywood, ma da un'opera con una simile impostazione e nemmeno troppo velate ambizioni, è lecito attendersi un trattamento che lavori più di cesello, visto che non tutto può coprire la perizia visiva del regista. Non possono essere solo casualità e bisogna mettere in conto che la sceneggiatura di Eric Heisserer, tratta da un racconto pluripremiato di Ted Chiang, "The Story of Your Life", scricchioli e ceda laddove una più forte tenuta avrebbe consentito al film un impatto più potente e una riuscita totale…
La maggiore suggestione cinefila è data da quello schermo abbagliante assimilabile a uno schermo cinematografico, così come la mano che appoggia la Banks, in attesa della reazione dell'extraterrestre, rima con una delle immagini-simbolo del bergmaniano Persona. Il regista riesce a corporeizzare lo spaesamento che si prova di fronte a un qualcosa che fino a un momento prima sembrava inimmaginabile e che, invece, si staglia maestoso davanti a noi, ed è da questo versante, quella del genuino sense of wonder spielberghiano (e che almeno nella prima parte innervava anche la super-produzione di Nolan), che il lavoro di Villeneuve trae il suo punto di forza.
E questo squilibrato, imperfetto esperimento di fantascienza è probabilmente l'opera americana più sentita del suo autore, soprattutto se confrontato ai ben più quadrati ma forse inerti thriller che l'hanno preceduto. 
L'ottavo lungometraggio del regista canadese, combinando riflessione umanista e filosofica, si focalizza su due punti solo apparentemente lontani: la comunicazione tra specie diverse e l'amore nella sua declinazione filiale. Se le suddette e fin troppo sbrigative definizioni vi fanno venire in mente il melodramma esploso di Incendies (2010) non state errando perché, per certi versi, è il film di Villeneuve che più si avvicina al cuore pulsante di "Arrival". E perché anch'esso ha come twist un'agnizione profonda che ricalibra la percezione della realtà, degli affetti e dell'esistenza, che forse vale più la pena vivere che tentare di cambiare.