martedì 31 ottobre 2017

A Ciambra - Jonas Carpignano

Martin Scorsese firma il suo ultimo film, ambientandolo appena fuori Gioia Tauro, in un villaggio di case abitate da calabresi di etnia rom,
Pio è un ragazzino che non va a scuola, forse non è mai stato bambino, sicuramente si deve già comportare come un uomo, diventa il leader della famiglia quando il padre e il fratello maggiore sono in galera.
a sua volta è fratello maggiore di altri bambini ed esempio per molti altri, è ingenuo, ma determinato, impara in fretta tutto quello che serve per crescere e sopravvivere nella giungla della vita, non ai confini della legalità, ma proprio fuori.
sembra proprio un film del neorealismo, dove i bambini hanno modelli che imiteranno, come sempre, ci sono in più gli smartphone, ma il resto non cambia.
e poi c’è il mito del cavallo, quando i rom li usavano ancora, e li veneravano (mi è venuto in mente un bel film di qualche anno fa, protagonisti gypsies irlandesi con gli amati cavalli)
pochi hanno visto A Ciambra, ma sono anche pochi quelli che avrebbero potuto vederlo, al cinema.
intanto è il candidato all’Oscar per l’Italia, buona fortuna, se la merita.
chissà che dopo la nomina qualche sala lo metta in programmazione, difficile, ma se accadesse non fatevelo sfuggire - Ismaele

ps: naturalmente il film non è di Martin Scorsese, che però lo produce.
il regista è Jonas Carpignano, bravissimo.



…Quello di Pio è un ritratto come non se ne fanno più nel cinema italiano. Un ragazzo alla ricerca affannosa ma ostinata, caparbia, di un punto di riferimento, di un appoggio nell’amore, nell’affetto. Questa la sua impresa eroica. Dietro ai piccoli avvenimenti che si succedono nella comunità, dietro al caotico guerreggiare e sovvertire di Pio troviamo un adolescente che si sta affacciando all’età adulta in conflitto con la famiglia. È combattivo ma in fondo spaurito come chiunque si trovi di fronte all’entrata in una terra incognita. La richiesta di attenzione e amore per quanto confusa è evidente. E la frenesia che in numerosi tratti pervade il film è come il riflesso del caos e dell’inquietudine di Pio.
Inquietudine e caos sfociano in un rapporto empatico e intenso con la comunità di immigrati africani e in particolare con uno di essi, un giovane molto carismatico. Pio è spontaneo, privo di pregiudizi e tratta tutti allo stesso modo, compresi i “marocchini”, come i rom chiamano gli africani.
Carpignano riproduce con vivida precisione i dialoghi delle due comunità. Sembra tutto spontaneo, ma tutto è scritto. Il suo film ritrova gli intenti del neorealismo, senza mai scimmiottarlo scolasticamente. In effetti il suo stile è diverso, forse più prossimo a quello dei fratelli Dardenne o di Robert Bresson. E siamo lontani da tanto cinema italiano che scivola nell’ovvio e nel telefonato, dai facili sentimentalismi e dagli ammiccamenti. Gli stati d’animo, la sofferenza e la condizione umana sono restituiti attraverso un’attenta rappresentazione dei comportamenti e degli eventi che ne conseguono. Nel movimento della vita.
L’intero film in realtà, dietro un’apparenza documentaria, rifiuta l’eccesso di evidenza dell’immagine patinata, la fotografia del film fa percepire la grana dell’immagine, è frequente una sorta di effetto di sospensione, di galleggiamento della temporalità, sono ripetute le tonalità di verde scuro e grigio-azzurro, anche nei ricorrenti tramonti, albe e crepuscoli, creando un effetto ovattato, uterino. Il regista, anche grazie a una troupe affiatata, rivela una sensibilità pittorica, non pubblicitaria, riuscendo a rendere bello tutto quello che viene inquadrato, anche i rifiuti. Riesce quindi a esprimere atmosfere intense, in bilico con l’onirico, che culminano con la lunga sequenza notturna dove ritroviamo l’uomo e il cavallo del prologo.
E poi si crea un tono intimo e di forte empatia verso esseri umani che sono quotidianamente oggetto di odio e diffidenza, verso le minoranze etniche, verso azioni che normalmente non sono considerate buone. Ma il film rovescia l’equazione: comportamenti ritenuti cattivi non equivalgono per forza a esseri umani cattivi. Un’empatia rivoluzionaria perché va contro tutto quello che mezzi d’informazione e politica riversano contro di loro…

...El tono realista no impide que Carpignano ruede algunas escenas de gran belleza plástica en un juego de luces, colores y sombras fruto de un gran trabajo de planificación e, incluso, recurra a un par de alegorías oníricas que remarcan el origen gitano de la familia, de una época en la que eran libres y sin jefes. También es destacable el uso magnífico de la música que potencia la atmósfera y remarca la multiculturalidad del entorno. En el debe algún momento excesivamente cliché y un final excesivamente subrayado. Nada, en cualquier caso, que impida que A ciambra sea una notable película.

…A Carpignano va riconosciuto, una volta di più, la capacità di guardare e restituire la dignità umana di una microcomunità marginale, lontano dalle narrazioni dominanti di questo paese. Come il Cherubino di Mozart o il Noura di Halfaouine - L’enfant des terrasses (Férid Boughedir, 1990), Pio ha la leggerezza e la sfacciataggine di chi, per età e per condizione di spirito, riesce ad attraversare le frontiere invisibili che separano braccianti e prostitute africani, rom calabresi e locali in odore di mala. Pio corre e salta da uno spazio all’altro ma Carpignano non ci regala illusioni di sorta sulle ricadute possibili di questo lavoro di tessitura. Al funerale del nonno Emiliano non ci sono facce nere e gli unici gagé, oltre al prete, sono gli inviati della solita famiglia delle Audi nere, venuti per l’omaggio di rito. Pio non sa né può prendere le distanze dalla legge del clan familiare, che fotografa un ordine delle cose esteso dallo spazio pubblico a quello del carcere, come emerge dalle parole del fratello maggiore. Il rispetto che i locali tributano ai rom è condizionato dal rafforzamento dei rapporti di forze che inchiodano migranti e prostitute nere al loro ruolo di corpi schiavili, disponibili al lavoro bracciantile e sessuale.
La percezione dell’orizzonte sospeso e interminabile della micronarrazione di Carpignano ci consente di guardare con fiducia a una possibile ricomposizione a venire ma con la certezza che il suo cinema ben difficilmente produrrà messaggi spendibili in chiave sociologica o in qualsiasi modo consolatori. La sua passione per una verità che parte dalle persone e dalle cose equivale a una scommessa, tanto affascinante quanto rischiosa, sul piano della rappresentazione e dei discorsi soprattutto per quanto riguarda l’antitziganismo egemonico in Italia, ancor più che in altri paesi europei. Davanti agli occhi di uno spettatore medio, intossicato da decenni di retoriche criminalizzanti ed esplicitamente razzializzanti, A Ciambra rischia di produrre pericolosi cortocircuiti e far rientrare dalla finestra, per il tramite del circuito comunicativo, un determinismo socioculturale che pure, ancorandosi al valore dell’esperienza microlocale, Carpignano cerca di tenere a distanza. Mi auguro che, come e più che Mediterranea, se (auspicabilmente un quando) A Ciambra troverà la strada per le sale italiane, il regista sappia accompagnare il film, attivando una conversazione con gruppi e comunità, rom e non rom, che da anni lavorano sui territori per facilitare un processo di inclusione che stenta ad essere praticato sul piano delle politiche governative.

…Il film di Carpignano, però, va ben oltre la voglia di mostrare per la prima volta un mondo ostracizzato se non censurato dal cinema. La sua specificità, la sua ragion d’essere finisce per interrogare l’essenza stessa del cinema e la sua forza creativa, perché il regista non si è accontentato di raccontare un ambiente e una comunità così lontani dai percorsi più battuti: ha scelto di far interpretare ai rom i loro stessi personaggi, innescando un’identificazione che supera ogni facile distinzione tra finzione e documentario. Il Pio del film è l’autentico Pio Amato che vive tra gli zingari della Ciambra. E così i suoi familiari e i suoi amici.
Perché Carpignano abbia sentito il bisogno di abbattere queste divisioni di genere l’ha dichiarato a Ciak: «Credo che il pubblico sia ormai stanco di vedere sempre le stesse cose e lavorare su questo confine significa offrire qualcosa di nuovo. Gli attori portano con sé esperienze e aspettative, spesso nascondono i personaggi. Pio Amato ha quell’autenticità che piace alla gente». Ma sarebbe fare un torto all’intelligenza ridurre tutto a una questione di sorpresa e di autenticità.
Alla base di questa scelta mi sembra che ci sia un’insoddisfazione per i modi in cui il cinema sembra essere capace di raccontare la complessità del mondo reale. Da qui la scelta di mescolare le carte in maniera così provocatoria. Da qui l’adozione di uno stile di ripresa che volutamente rompe e sporca il modo tradizionale di inquadrare: macchina mobilissima, obiettivo incollato sui volti, anche a scapito della comprensione immediata.
Il rischio è quello di un cinema che finisca per vampirizzare la realtà, puntando troppo sulla capacità di scioccare lo spettatore; la scommessa è quella di spingere chi guarda a confrontarsi con un mondo che probabilmente non incrocerebbe mai.

A Ciambra non è un film qualunque, e non solo per le ambizioni del regista di Mediterranea (cui è strettamente connesso, al punto che si può legittimamente parlare di dittico): non è un film qualunque perché ha il coraggio, a tratti quasi sfrontato, di partire dal proprio territorio per fare cinema, raccontare per immagini, creare, fingere senza mai mentire. Non è un film qualunque perché nessuno in Italia ha interesse a raccontare le comunità rom e sinti, e tantomeno la vita quotidiana dei migranti che dall’Africa cercano di sopravvivere attraversando il braccio di mare che divide l’Italia dalla Libia; non è un film qualunque perché non si affida mai alla retorica, né fa leva sulla pietas cristiana. No. A Ciambra non è un film qualunque. Anche per questo motivo, e forse soprattutto per questo motivo, nessuno sa ancora se e come distribuirlo nelle sale…

Nonostante la sensazione di già visto, di reiterazione più o meno esasperata di quasi tutto quello che ci circonda, intorno a noi spesso ci sono storie e volti spesso ignorati. E con questo non intendo mica mettermi a pontificare sull’insensibilità dell’atomizzata società moderna, o altre affermazioni tipiche di un Diego Fusaro qualsiasi. No, il mio è piuttosto un mea culpa, un’ammissione di miopia sociale. Ne ho preso coscienza giusto qualche giorno fa, dopo essere uscito dalla proiezione di A Ciambra, film di Jonas Carpignano incentrato sulle vicende che vedono coinvolto un ragazzino appartenente alla comunità rom di Gioia Tauro. Ed io, cresciuto ad una manciata di chilometri dai luoghi in cui la pellicola è ambientata, di tutto ciò ne ero quasi ignaro. Sì, conoscevo le storie, anzi, certe leggende, ma insomma, alla Ciambra, porzione di Gioia Tauro da cui il film prende il nome e dove è stipata la comunità rom in questione, non ci avevo mica mai messo piede. E neanche potevo immaginare che, a due passi da casa mia, potessero vivere persone così distanti, ma allo stesso tempo tanto vicine a me. E Carpignano, a prescindere da tutto, è riuscito a cogliere tutto ciò, trascendendo l’impronta documentaristica che il film solo perifericamente ha, tentando invece di raccontare una storia di formazione classica ma che classica non è, per via di un’ambientazione disgraziata e stratificata…

Ciò che, appunto, rende unico il lungometraggio è proprio lo sguardo limpido e sincero del suo autore, che non condanna né assolve, non loda né biasima ma, semplicemente, osserva con umana partecipazione i moti dell'animo di Pio, la saggezza del nonno anziano, gli ammonimenti della madre, i buffetti che si tirano i bambini. Descrive e partecipa, Carpignano, alla vita quotidiana di questa realtà emarginata, con una naturalezza a tratti miracolosa, con l'entusiasmo infantile di colui che, da esterno, si trova catapultato in un universo nuovo, affascinante e pregno di vitalità…
…Malgrado una struttura narrativa non certo originale e talvolta prevedibile, malgrado qualche forzatura - soprattutto in prossimità della conclusione - e qualche prolissità di troppo, "A Ciambra" è un film prezioso, da conservare avidamente, imperfetto ma non meno profondo e toccante. Cinema del reale e insieme atto d'amore verso la finzione artistica, "A Ciambra" è lo sguardo, umile e dimesso, sul mondo di Pio, dei suoi famigliari e dei suoi amici; ma è, più che ogni altra cosa, un bellissimo - eppure estremamente crudele - romanzo di formazione, come ci svela il finale, prima che i titoli di coda (ambigui proprio per la loro solarità ed essenza pop, nonché epitome perfetta della natura chimerica dell'opera) calino il sipario su questo racconto che conferma, ancora una volta, Jonas Carpignano come uno degli autori italiani più interessanti della sua generazione.

Il suo vero pregio infatti sta nel mostrare del proprio protagonista sia la forza e la concretezza che non ci si aspetterebbe mai (la capacità di trattare con gli adulti e fregarli, la mancanza di paura nel gettarsi in imprese difficilissime, l’autonomia di giudizio e di pensiero in ogni situazione), sia al tempo stesso la fragilità incredibile che sarebbe più facile attendersi ma che il film riesce a rendere inattesa. Pio, a fronte di tutta questa durezza, è claustrofobico e ha paura della velocità dei treni, ha momenti in cui necessità dell’abbraccio materno e cerca con difficoltà di tenere tutto ciò ai margini della propria vita, di vivere in quel contesto nonostante la fragilità.
Che il primo film italiano fieramente zingaro (cioè che non li guarda da fuori, condannandoli o salvandoli ma che sembra raccontato proprio da loro, con le loro idee e la maniera in cui parlano o si esprimono) sia una storia così onesta e diversa è probabilmente il miglior risultato si potesse ottenere.

Non so quanto A Ciambra, nella sua totale assenza di ogni sdegno civile e afflato redentore, piacerà alla prof democratica e ai critici bon ton. Ma andarselo a vedere è un obbligo per la sua assoluta alterità e indipendenza rispetto a ogni sistema cinema nazionale (anche stilistico, anche linguistico). E fa niente se qui la compattezza di Mediterranea si sfrangia e qualche volta viene meno nel corso delle quasi due ore (se ben ricordo la proiezione a Cannes dopo la vittoria alla Quinzaine, con Carpignano presente). Qualche taglio avrebbe aiutato. Ma la durata rivela anche le maggiori ambizioni del regista, che abbandona certi toni comedy del film precedente per tracciare il referto di un amarissimo confronto-scontro di civiltà in un pezzo di Calabria. Di cinema così non se ne vede mai, e allora tutti in sala, je vous en prie, a partire dal 31 agosto. Certo vien da chiedersi se Carpignano non rischi anche lui di restare intrappolato nella Ciambra come Pio e gli altri. Se non rischi di essere inghiottito da quel mondo che ha scelto come suo soggetto e oggetto della sua narrazione e forse diventato per lui un’ossessione. E vien da chiedersi se non sia il caso la prossima volta che vada oltre, che esca da quel perimetro per esplorare altre universi e persone e altri sbattimenti. Stiamo a vedere.

lunedì 30 ottobre 2017

Una donna fantastica - Sebastián Lelio

muore Orlando. e Marina, la sua compagna, viene colpevolizzata, dalle autorità, ed emarginata, dai familiari di lui, anche con la violenza (tranne che dal fratello di lui, Luis Gnecco, il Neruda di Pablo Larraín, ma nelle dinamiche familiari non conta molto).
Marina soffre, vuole esserci, vuole salutare Orlando, e poi vuole fare la sua vita, senza fare del male a nessuno, senza rancore. 
fa la cameriera e viaggia "in direzione ostinata e contraria", in un mondo che non la vuole, magari perché nella sua carta d'identità c'è (ancora) un nome da uomo, ma lei è una donna.
la musica è la sua amica e consolazione, alla fine canterà come cantano gli angeli.
Marina (Daniela Vega) è straordinaria, lei è il film, è davvero una donna fantastica, senza bisogno di superpoteri.
naturalmente è solo in una cinquantina di sale, cercatelo, non ve ne pentirete - Ismaele






…La sua Marina è la migliore delle compagne, la migliore delle vedove, la migliore delle amiche e la migliore donne. È saggia, paziente e discreta, e la sua discrezione è la migliore delle armi: dimostra la miseria intorno a lei ed evidenzia il lato ipocrita e gretto dell’essere umano. Ci sentiamo in imbarazzo per tutti i cretini con cui ha a che fare. E questo è il vero punto di forza della pellicola prodotta dal clan Larrain (Juan de Dios Larraín, Pablo Larraín ed Estefanía Larraín, non a caso compaiono nei crediti della crew).
Una Mujer Fantastica con classe, soppesando le parole, evitando scene che esibiscono troppo ci colpisce e forse riesce ancor meglio nell’intento di farsi udire dai sordi. È un’opera bella per la sua sobrietà e per il modo discreto con cui ci ricorda che violare la dignità di un essere umano non ci rende migliori, mortificare e negare l’altro da noi è sinonimo di pochezza e inizia davvero a stancare.
Una Mujer Fantastica è una di quelle piccole perle che ci ricordano perché amiamo kermesse come la Berlinale. La speranza è che non rimanga circoscritto a prodotto per il circuito LGTB. È un film drammatico, fine, garbato, da vedere.

Importante, anzi fondamentale per la riuscita dall'opera, che ricorda la celebrazione di certe indimenticabili valorose, e funestate dagli eventi, eroine almodovariane, la presenza di una protagonista, Daniela Varga, che ben conosce e vive, almeno a livello fisico (è realmente un transessuale), i disagi della sua fiera alter-ego cinematografica, eroina dolente e dignitosa che sa guardare oltre l'umiliazione e gli oltraggi ricevuti dai prepotenti ed ingordi familiari in malafede del caro estinto, salvaguardando dignità ed ostentando una legittima e disinteressata vocazione al martirio terreno che la rende una eroina iconica degna di essere ricordata e celebrata…

Il pregio maggiore della pellicola risiede però, essenzialmente, nella gestione drammatica del racconto, nella dilatazione di sguardi, dialoghi, rabbia e delusioni. Se, come abbiamo potuto già spiegare, l'evidente ricerca estetica risulta coerente con il tema della narrazione, allo stesso modo l'abilità di Lelio permette di donare sincera potenza anche alle scene meno convincenti. Dove, ad esempio, troviamo l'abusato espediente del rapimento violento ai danni della protagonista, il regista fugge le trappole dei cliché con una ripresa - lunga, insistita e sgradevole - sul volto della vittima deformato a causa del nastro adesivo applicato. E ancora: in un semplicissimo dialogo, di cui già accennato inizialmente, tra Marina e la (ex-)moglie del compagno deceduto da poco, Lelio, facendo unicamente ricorso a un campo-controcampo, a una direzione impeccabile degli attori e, soprattutto, a un montaggio teso ad attribuire maggior peso specifico alle reticenze o leggere alterazioni del viso più che alle parole in sé, riesce a fornire inaudita complessità all'intera sequenza…

Una donna fantastica vince la sua scommessa puntando su silenzio e sottrazione, osservando Marina nel suo agire e reagire agli ostacoli (la famiglia di lui, la polizia), senza trasformarla nell’eroina stucchevole di una lotta per i diritti. Non ci sono slogan, non ci sono militanze né striscioni da gay pride, c’è solo la vita. Marina si muove per la propria dignità, il rispetto di sé, e per l’uomo che ha perduto. Nell’ultima mezz’ora la perfetta austerità della messinscena (molte inquadrature frontali, dialoghi misurati e essenziali, retorica assente) si sfrangia in qualche scena non così necessaria. Ma il film tiene avvinti dalla prima all’ultima inquadratura e vince la sua scommessa. Adesso qualcuno si spinge a ipotizzare una nomination di Daniela Vega all’Oscar  per la migliore interpretazione femminile, e sarebbe la prima volta di una trans. Vega se lo meriterebbe. Stiamo a vedere.

…Fort d’imposer, en quelques scènes, l’amour qui unit Orlando et Marina, Sebastián Lelio trouve la juste distance afin d’observer sa protagoniste tout en transcendant littéralement son ressenti. Est-elle placée face à nous que les mots qui lui sont adressés ou, pire, qui sont employés pour parler d’elle (comme si elle n’était pas dotée d’ouïe) nous heurtent de plein fouet.
Au fil d’une réalisation en tout point maîtrisée, le réalisateur nourrit son approche de notes oniriques (à l’instar des apparitions d’Orlando) ou métaphoriques qui permettent d’exacerber le desarroi de celle qui ne parvient réellement à exprimer sa douleur qu’en frappant un punching ball. La musique sera à nouveau un exutoire, cependant renouvelé jusqu’à faire corps avec Marina. Ancrant enfin un jeu particulier sur le reflet – net ou trouble ; difforme ou régulier – Sebastián Lelio nous confronte à notre propre miroir autant qu’à celui de nos sociétés et questionne habilement les notions de normalité et de monstruosité (tristement ordinaire)

La naturalidad y honestidad con que presenta a Marina y el modo en el que desvela su condición son simplemente unos de los pocos ejemplos de la delicadeza y el cariño con los que Lelio cuida a sus personajes. La cámara busca constantemente su rostro, la interroga para descubrir detrás de sus ojos la tristeza y la incomprensión de una persona que, como cualquier otra, lo único que busca y reclama es afecto. De la misma manera, cuando la presión es demasiado fuerte y Marina empieza a tocar fondo, Lelio consigue levantarla mediante la fantástica resolución de la escena en la discoteca: una mirada hacia el interior del personaje a la que no renuncia en ningún momento. Y así transcurren los minutos, en una lucha contaste por resistir y mantenerse en pie, la excusa perfecta para que el director chileno haga una delicada y certera radiografía de Marina a la vez que salpica la historia de pequeñas pinceladas que apuntan a un problema de intolerancia que no debería entenderse como algo exclusivo de la capital chilena, sino como un mal global de la sociedad actual.

venerdì 27 ottobre 2017

un bellissimo documentario su (e con) Andrea Camilleri



                Prima parte

                 Seconda parte 


Andrea Camilleri si racconta a Teresa Mannino in un film che ne ripercorre la vita. Il maestro, il letterato, il regista, il funzionario Rai, il marito, il padre, l'amico, il collega. Lo scrittore narra il rapporto con la sua Sicilia, la sua casa, il suo privato.

·         Regia: Claudio Canepari e Paolo Santolini

·         Interpreti:Andrea Camilleri, Teresa Mannino



mercoledì 25 ottobre 2017

La battaglia dei sessi - Jonathan Dayton, Valerie Faris

altro tocco di palla, nel 1973, rispetto a quello che si vede oggi, altri stili, altri effetti.
Emma Stone e Steve Carell sono perfetti nei loro ruoli, il film non altrettanto, ma si lascia vedere davvero bene.
Billie Jean King è davvero determinata, con tutte le sue debolezze, ma sa che cosa è giusto e quanto bisogna combattere e soffrire per ottenerlo, Bobby Riggs è uno sbruffoncello, uno così divertente e simpatico che tutti vorremmo come amico.
comunque facevo il tifo per Billy Jean, al cinema.
è la storia epica di un combattimento per l'uguaglianza, a colpi di racchetta, senza morti e feriti, meno male, anche questa è civiltà.
buona visione - Ismaele


qui la storia vera




Assistiamo alla straordinaria storia di una continua lotta per la rivendicazione di una parità di genere etero e omosessuale, dove un’esponente dello sport ci mette la faccia, rendendosi paladina di questa passionaria battaglia. Emma Stone si impegna nel non sfigurare al fianco dell’istrionico Steve Carell che come Bobby Riggs é uno showman che buca lo schermo, cercando di offuscare la campionessa bruttina con gli occhiali. Eppure pur essendo nemici sul campo, i due sportivi si sono sempre rispettati tanto da diventare amici fuori dai campi da gioco.
I registi Jonathan Dayton e Valerie Faris sono stati in grado di svolgere un lavoro elaborato nel saper dosare il tema sportivo con quello sentimentale, tematiche che si intrecciano nelle vite dei due protagonisti, iconici. Un’attenzione minuziosa é dedicata ad ogni piccola caratteristica della pellicola che é stata girata su bobbine da 35mm con ottiche tipiche degli anni settanta.

realizzare un prodotto dall’estetica raffinata e dal cuore militante non è sempre semplicissimo. La commedia non è affatto uno scherzo. Il biopic forse ancora meno. Il film invece ricostruisce con esattezza l’evento simbolo di questo scontro tra sessi non dimenticando di far ridere con la dimensione eccessiva, esagerata e da grande show, che accompagnò al tempo la manifestazione. Un tocco kitsch che la pellicola fa suo giocando con la paradossale personalità di Bobby Riggs (Steve Carrel), noto manipolatore, eccentrico e giocatore d’azzardo e divertendosi a mostrare tutte le stereotipizzazioni tipiche del grande spettacolo americano. Una contrapposizione che sembra funzionare ieri come oggi. Riggs è l’heel (il cattivo del wrestling ndr) del campo da tennis, scorretto, esagerato, eppure estremamente divertente. King è la faccia buona e corretta, l’eroina, il personaggio alla ricerca di se stessa e della propria identità sessuale. Di lì a poco ci sarebbe stato persino il suo coming out.

...Appagante sotto ogni punto di vista e capace di generare nello spettatore diversi spunti di riflessione, La Battaglia dei Sessi riesce con delicatezza e raffinatezza a trattare temi delicati, come la scoperta della propria omosessualità, o la diseguaglianza tra uomini e donne. Temi universali, che ancora, a distanza di quarant’anni, rimangono attuali e difficili da abbattere. La pellicola è una lotta ideologica trasposta sul grande schermo che riesce a mantenere la fedeltà grazie ad uno script che si sviluppa sequenza per sequenza, catapultando lo spettatore negli anni ’70.

L’approccio è snello, ricreare la patina da anni settanta è un gioco da ragazzi, la battaglia per la parità sessuale entra subito nel vivo lottando con il sorriso, accusando disfunzioni nel ritmo, mitigate da un ricettacolo cadenzato su due traiettorie, in grado di destreggiarsi tra pubblico e privato.
Nel primo caso è un crescendo di toni fino ad arrivare alla grande sfida che sciorina cinque minuti di tennis senza bisogno di ricorrere a elementi di sostegno. Nel secondo sfodera le sue armi migliori per avvalorare la sua poetica, tratteggiando i due contendenti raffiguranti due modi di pensare e agire…

lunedì 23 ottobre 2017

…E ora parliamo di Kevin - Lynne Ramsay

Lynne Ramsay non delude.
dopo Ratcatcher e Morvern Callar ecco il suo terzo lungometraggio.
madre e figlio, che rapporto bellissimo dev'essere, ma non fra Eva (una sempre bravissima Tilda Swinton) e Kevin, qui è un inferno, non come pensi, ma molto peggio.
un film che non fa stare tranquilli.
ecco QUI il film completo, in italiano, se avete la forza, e ancora non vi ho spaventato abbastanza.
ci sarà una ricompensa, dopo la visione, quella di aver visto un grande film.
buona visione - Ismaele




il cuore del film è sicuramente nella storia d'amore tra madre e figlio, un amore-odio, pieno di ambiguità e di non detti, fatto non si sa bene se di troppa remissione, di eroica resistenza o di incontrollabile destino. Lo porta in superficie Tilda Swinton, con la rigidità che è corazza del personaggio, in verità esploso dentro, ma anche con una varietà di emozioni ben impressionanti. Non la si vedeva così convincente dalla prova di Michael Clayton
Sul fronte estetico il film è molto insistito. Troppo. Il colore del sangue è declinato e ripreso in tutti i modi possibili, con la sequenza dedicata e disturbante dei corpi imbrattati e annegati nel pomodoro - che setta immediatamente gli assi cartesiani della tragedia in corso, quello lirico e quello quotidiano, famigliare - e poi con la vernice, la marmellata, la stampa sulla T-shirt, le ferite, i bersagli. Anche il montaggio è studiatissimo, rimescolato al millimetro, costruito per la tensione. A questa estrema eleganza di modi e di temi del girato corrisponde e al contempo sfugge il tappeto sonoro, magnificamente lavorato, dal quale passa, senza soluzione di continuità, il flusso sentimentale del film: il dolore, la paura, la rabbia, lo sprazzo di felicità e la disperazione della protagonista.
Non tutto convince, in ... E ora parliamo di Kevin, ma il colpo arriva comunque allo stomaco, perfettamente assestato, come tirato con l'arco da un professionista

…Dall’omonimo romanzo di Lionel Shriver, la Ramsey ha tratto un dramma familiare che sembra un horror (Il presagio), intimista e sovraccarico di simboli. C’è persino troppo stile, un’ombra di compiacimento nella confezione. Ma è un eccesso voluto, la voglia di trasmette allo spettatore la stessa sensazione di disagio, di doloroso soffocamento, della protagonista.
Lei, Tilda Swinton è immensa. Così martoriata da martoriarci. John C. Reilly è l’inutile padre perfetto; Ezra Miller, inquietante oltre ogni immaginazione. Una maschera che s’incrinerà solo nel finale quando, dopo due anni di silenzio, risponderà un’altra volta alla madre: “Perché l’ho fatto? Prima lo sapevo, ma ora non ne sono più tanto sicuro”.
E se anche il Male fa fatica a comprendere se stesso, può allora essere perdonato?

Kevin è, sia da bambino che da adolescente, tremendamente spietato. I suoi occhi languiscono odio. Si fa incarnazione del Male che avviene "per nessuno motivo, questo è il motivo" (risponderà così ai "perché?" della madre) e farà solo un passo indietro quando, malato, richiederà le attenzioni della madre, in una parentesi lunga il tempo di una debolezza. Non c'è una spiegazione al Male che alberga in Kevin e il film si dispensa dal fungere a trattato socio-psicologico. E' la stessa oscurità che risiede sommessa in ognuno di noi e che, in alcuni casi, dirompe in tutta la sua potenza, se trova un (sotto)suolo fertile. Eva e Kevin sono uniti da un cordone ombelicale mai spezzato che anziché legare all'amore incondizionato, li ha stretti nella morsa dell'odio reciproco (?). Sono vittima e carnefice l'uno dell'altro, laddove le meschinità del figlio innescano e svelano quelle della madre. "La sconfitta della figlia è il trionfo della madre? Mamma, il mio dolore è un tuo piacere segreto?" - ci si chiede in "Sinfonia d'autunno" di Bergman. Entrambi sono intransigenti, sentiamo in una parte del film, ma mentre l'intransigenza della madre si manifesta in una visione della vita schematica che scarnifica le sfumature (se mangi tanto ingrassi, se hai un figlio perdi l'individualità), quella di Kevin sta nella sua abdicazione al male per il male. Interpretato da un Ezra Miller diabolicamente perfetto, la figura di questo figlio maledetto rischia di risultare artificiale nei suoi eccessi, ma l'ingranaggio è ben costruito e anche l'eccesso appare meno stucchevole…

Ramsay riesce nella difficile impresa di trattare anche le emozioni come fatti, componendo il film come un organismo vivo, che pulsa e disturba, molto affidandosi agli interpreti (Kevin è Ezra Miller, visto in Afterschool) e alla narrazione franta, screziata dalle sghembe melodie di Jonny Greenwood (Radiohead); un film che, non suggerendone nessuna, invita a molte letture (psicanalitiche, sociologiche, anche politiche), ma senza crogiolarvisi, anzi, preferendo la sospensione dei dibattiti e ponendo sul piatto il rapporto tra una madre Antagonista (il conflitto è continuo e si gioca su un terreno che è palese solo per i due contendenti), Vittima (l’episodio del braccio rotto è quello che stabilisce il gioco di potere di Kevin sulla donna: il bimbo sa di avere un’arma e sa che lei ne è consapevole), Totem (Kevin, sorpreso ad ammirare la gigantografia di Eva esposta nella vetrina della libreria, darà voce, a suo modo, al suo protagonismo) e Rifugio (la prostrazione della malattia abbassa le difese del bimbo e smaterializza il suo copione quotidiano, scoprendolo per quel che è: attaccato alla madre, insofferente verso la sollecitudine entusiasta e asfissiante del padre) e un figlio che se ne fa specchio deformato (il volto di Eva e Kevin si confondono nell’acqua) e che più che per vendicarsi di lei lasciandola viva e sola in un deserto, sembra distruggere ogni ostacolo (casa, padre, sorellina, passato materno – remoto e prossimo -) per un resetmostruoso che gli consenta, infine, di amarla ed esserne amato. Nel dolore, ma liberamente.

Il talento della regista si conferma nell’intensità di alcuni dettagli e divagazioni nella trama visuale del quotidiano, nell’eleganza dei raccordi temporali e negli accordi stridenti fra immagini e tappeto sonoro, come quando vediamo Eva abbandonarsi al ‘sollievo’ di un martello pneumatico che copre gli strilli incessanti del marmocchio o quando si trova attorniata da maschere di Halloween che sfilano con la tintinnante Everyday di Buddy Holly in sottofondo. Purtroppo questi spunti felici finiscono per accatastarsi in un catalogo di vezzi autoriali e il film indulge troppo nella fascinazione per il suo tessuto visivo, che progressivamente perde di tenore drammaturgico, si sfibra e lascia scoperto soprattutto un simbolismo materico tanto pesante quanto privo di sostanza. Del resto questa esibizione insistita, per quanto possa irritare, non merita nemmeno di essere liquidata come puro compiacimento formalista o ingenua velleità manipolatoria. Nell’esplicita volontà di shock con cui Ramsay inquadra e monta il film potrebbe infatti risiedere la sua unica riuscita estetica, in quanto narrazione disgregata e paradossale di una condizione post-traumatica: allora l’aggressione sensoriale nei confronti dello spettatore si giustifica soprattutto come un tentativo di esprimere lo sconvolgimento psichico di Eva e, per quanto questo risulti a volte maldestro, almeno nell’interpretazione attonita e disincarnata della Swinton bisogna riconoscere una rappresentazione esemplare di soggetto shockato. Purtroppo il film, come i suoi personaggi, sembra restare intrappolato nel gioco di riflessi dell’immaginario, rifiutandosi di affrontare davvero l’irruzione del Reale che ogni trauma porta con sé.

Ottimo dramma...e anche piuttosto disturbante.
Il film non è assolutamente confusionario, anzi nel suo complesso andare avanti e indietro nel tempo è molto preciso e chiaro nel raccontare, certo non è un film leggero e soprattutto deve essere seguito attentamente e senza distrazione per cogliere la ricostruzione dei fatti adeguatamente.
Ed è proprio questa ricostruzione che mantiene acceso l'interesse e mi invoglia a continuare entusiasta la visione.
I dettagli della storia vengono sapientemente svelati a poco a poco facendo intuire lentamente ciò che succederà fino all'atroce finale.
Recitazione ottima degli attori, la Swinton da Oscar.
Anche le musiche sono adatte, sempre un pò allegre vanno a generare un contrasto fortissimo con la drammaticità delle situazioni che si creano.
Una lunga planata sul rapporto tra genitori e figli che senza approfondire troppo lascia più spazio all'insensata cattiveria dell' essere umano.
Averne di drammatici con questi risultati; molto attuale come tema.
Consigliatissimo ma forse non per tutti.

…“e ora parliamo di Kevin” è un film complesso, le cose da dire sono tante, forse troppe. Sicuramente questa recensione non sarà esaustiva, anche perché è una pellicola che si presta molto ad un’interpretazione soggettiva, quindi è probabile che molti non concordino con quanto è stato detto.
È però indubbio il fatto che sia realizzato con una cura maniacale per i particolari, da ogni punto di vista. Il sonoro, il montaggio, la regia sono tutti studiati per creare un’esperienza unica: un viaggio all’interno della mente della protagonista.
Gli attori regalano delle performance straordinarie, soprattutto Tilda Swinton qui alle prese con quella che forse è la sua migliore interpretazione di sempre.
Siamo davanti ad un film veramente straordinario e purtroppo non conosciuto come dovrebbe, nonostante non siano mancati vari riconoscimenti.

Quello che sorprende de film non è solo la capacità di raccontare ma la grandissima qualità dell'insieme.
La regia è strepitosa, gioca con i dettagli in una maniera straordinaria (le unghie e le palline di pane disposte sul tavolo, la capacità di cogliere gli sguardi- quel bersaglio nella pupilla è quantomai emblematico), regala di continuo sequenze e inquadrature di classe, tutto supportato da una sceneggiatura che gioca perfettamente con 3,4 piani temporali, sa dosare i silenzi e le poche battute, dissemina nel film pochi ma decisivi rimandi (vedi il libro di Robin Hood), senza farsi mancare una fortissima carica metaforica, soprattutto nelle innumerevoli scene in cui la madre pulisce. Tutto quel rosso, di pomodori, di vernice, di marmellata, tutto è segno premonitore o, al contrario, di elaborazione del lutto dell'incredibile tragedia che verrà.
Livelli altissimi anche in colonna sonora, quasi tutta concentrata nei viaggi in macchina della madre.
Gli attori sono magnifici, Tilda Swinton, novella Shelley Duval di Shining per fattezze e ruolo, è su livelli incredibili e anche Ezra Miller, con quello sguardo acerbamente assassino non gli è da meno. Curioso come Miller abbai già interpretato un ruolo quasi identico in un altro film, Afterschool (pellicola come al solito massacrata da tanti ed esaltata da me, son troppo buono, è un dato di fatto)…

sabato 21 ottobre 2017

La notte dei morti viventi - George A. Romero

non capita spesso di vedere film che poi in tanti hanno copiato, saccheggiato o a cui si sono ispirati, La notte dei morti viventi è uno di quei film.
girato nel 1968, quando le sabbie mobili del Vietnam inghiottivano gli invasori, e quando l'assassinio dei leader delle Pantere Nere era uno sport popolare, senza dimenticare, quell'anno, Bob Kennedy e Martin Luther King.
George A. Romero gira un film in cui l'eroe è un nero, gli Usa sembrano fermi a "La guerra dei mondi" di Orson Welles, una minaccia sconosciuta semina terrore.
sono gli zombie, morti che si risvegliano per crescere di numero, non si sa perché.
il film inquieta anche oggi, chissà cosa doveva essere al cinema, nel 1968.
non perderlo, sia che non l'abbia mai visto, sia che voglia rivederlo,
ecco QUI il film completo, in italiano.
buona visione, soffritene tutti - Ismaele



Girato durante i weekend e con un budget prossimo allo zero, il film di Romero è uno spartiacque assoluto del genere “horror”. In primis stravolge la figura del morto vivente (fino ad allora relegata allo zombi haitiano o a vendicatori redivivi – sul tenore di Death Curse of Tartu Tartu, lo stregone maledetto, 1966 di William Grefe), inventando sostanzialmente una nuova mitologia, che nel tempo si rivelerà dominante – e non solo nell’ambito filmico del fantastico. In secondo luogo esibisce una sconsiderata rivoluzione. È sovversivo, infatti, tanto nella scelta dell’eroe di colore (e, a tal proposito, basti leggere l’eccellente racconto del texano Joe Landsdale The Night They Missed the Horror Show, nel quale abbondano le considerazioni sociali su questa scelta nell’ambito “redneck” del paese – anche se è facilmente intuibile che la stessa reazione si possa affrancare alla cultura perbenista e ipocritamente bacchettona che domina per intero la popolazione statunitense); quanto è furioso nella critica a una società che dietro la sua facciata edificante e orgogliosa cela pregiudizi, vizi e un egoismo di rara portata (il nucleo famigliare qui rappresentato è un’esemplificativa dissezione, con il padre vigliacco ma convinto della sua forza, la moglie supina, capace solo di frecciate sarcastiche ma immobile nei fatti, e la bambina che letteralmente finisce per divorarli, come se il principio fondamentale della società USA si basasse sul cannibalismo del più giovane – leggi, del più forte – anche a discapito dell’amore famigliare).
È altrettanto violentemente antisociale nel ritrarre l’inadeguatezza dello stato nei confronti di questa “nuova” piaga, con gli scienziati impotenti che si rimbalzano la palla gli uni con gli altri, i militari che si nascondono dietro il silenzio per la sicurezza nazionale, e, dulcis in fundo, nella cieca violenza delle milizie private che, su ordini di spietati sceriffi, ripuliscono le campagne da morti viventi come di ogni cosa si muova di fronte ai loro mirini, dando spesso la sensazione che più che una sorta di guerra, si stia assistendo ai ludici momenti di un sanguinario pic-nic di massa, offrendo contemporaneamente una sottile ma tagliente accusa al riadattamento del conflitto in Viet-Nam da parte delle forze politiche e dei media.
Di certo, nulla viene risparmiato dal regista di Pittsburgh (che su questa pellicola ha costruito una carriera di grande spessore, comprendente oltre ai vari seguiti di questa “franchise”, anche altri ottimi titoli come Martin / Wampyr, 1977, Creepshow, 1983 e The Crazies / La città verrà distrutta all’alba, 1973), nemmeno il suo protagonista, il quale esibisce la tracotanza caratteristica dei gruppi etnici ghettizzati che, per una qualunque causa, si ritrovino a parti rovesciate, ovvero con il coltello dalla parte del manico; costruendo un’opera sostanzialmente priva di veri personaggi positivi – anche la protagonista femminile è di una fragilità sconvolgente e, resa folle dal terrore, finisce sostanzialmente per gettarsi di sua sponte tra le avide braccia dei redivivi – dalla lettura complessa per la spessa polivalenza che la caratterizza. Tecnicamente, inoltre, Romero si affida a un bianco e nero contrastato che né rafforza la carica eversiva, come se – sfruttando caratteristiche suggestioni, già tipiche dell’espressionismo cinematografico – intendesse piombare letteralmente lo spettatore nel suo incubo…

En el otoño de 1968, mientras en las selvas de Vietnam el conflicto llegaba a un paroxismo de histeria masiva, en un pequeño cine de Pittsburgh se llevó a cabo la primera exhibición de una película independiente que, con su –entonces- insólito manejo de la violencia y atmósfera hiperrealista, vino a sentar un precedente y modificar por completo la faz del séptimo arte: La noche de los muertos vivientes, de George A. Romero.
Esta peliculita casi doméstica se convirtió (en su momento) en todo un fenómeno de culto y en el non plus ultra del gore – de hecho, si no se cuenta las horrendas mafufadas de Herschell Gordon Lewis a principios de la década, se puede decir que legitimó el género, si es que propiamente no lo creó- título que ostentó invicta por años, hasta ser desbancada no por uno de sus múltiples clones de factura italiana, sino por otro mágnum opus romérico (Dawn of the Dead – 1979). Originalmente, lo que el debutante cineasta y sus cuates – que hicieron las veces de productores, técnicos, actores y ¡hasta maquillistas!- querían, era trascender su categoría de publicistas y ganar algo de lana. Según recuerda Romero, el plan original era hacer una comedia al estilo de lo que había hecho Ed Wood, pero ninguno supo en qué momento la película se convirtió en algo más serio y no un simple freak-show.

…Girato con poco più di centomila dollari e con un incasso al botteghino clamoroso, La Notte Dei Morti Viventi cambiò la concezione stessa dell’horror moderno, sradicando tutta una serie di cliché e regalando un prodotto terrificante, disperato e senza speranze che non lasciava la minima sensazione positiva nello spettatore. Pieno di concetti innovativi, ha i suoi punti di forza nelle chiavi di lettura molteplici che gli si possono affibbiare: metafora della Guerra Fredda? Feroce critica alla guerra in corso in Vietnam? O ancora, disarmante ed estrema disamina dei mali della società americana contemporanea, tra militarismo sfrenato e razzismo (non si dimentichino i freschi omicidi di Martin Luther King e di Malcolm X)?
Accusato di sadismo e di sessismo, denota certi preconcetti che risultano figli di un modo di intendere i ruoli piuttosto meccanico. Le donne sembrano tutte inette: Barbara è in stato semi-catatonico dopo la morte del fratello, Judy non proferisce parola e la prima iniziativa che prende si rivela disastrosa; anche Helen, la moglie di Cooper, inizialmente più salda e dignitosa, finirà per perdere peso specifico nel corso della trama. A parziale discolpa di Romero e di John A. Russo, co-autore di soggetto e sceneggiatura, va detto che anche il personaggio di Harry Cooper rappresenta il classico esempio di uomo incapace di prendere le giuste decisioni e cocciuto fino ad apparire stupido. L’unico che ne esce integro è proprio Ben, ed il fatto che sia di colore è a sua volta un elemento rivoluzionario, in quanto può essere considerato a pieno titolo il protagonista del film. La cosa realmente nuova è che al colore della sua pelle non c’è il minimo riferimento, né nel bene né nel male, ponendolo quindi sullo stesso livello di tutti i personaggi, anzi facendolo anche emergere per doti carismatiche e decisionali. Il finale del film rappresenterà una sgradevole sorpresa per lo spettatore, annichilendo la residua speranza…

Brother and sister Johnny (Russ Streiner) and Barbara (Judith O'Dea) venture some 200 miles from their Pittsburgh home to a cemetery where they place flowers on their father's gravesite. Still in daylight, Barbara sees a tall stranger robotic-ally walking towards her which prompts her brother to act silly and put on a Boris Karloff monster impersonation to scare her; once in Barbara's presence the man suddenly attacks her and when Johnny comes to her aid he's fatally overcome by the monster. Barbara manages to flee to a nearby abandoned farmhouse where one survivor, a black man named Ben (Duane Jones), is trying to hold down the fort by smashing the skulls of the oncoming zombies. He will survive the ordeal only to be later killed by a redneck rescue party. The nightmarish night includes scenes of immolation and parricide for the small group of survivors (they include a married couple and their daughter, and a pair of young lovers) who join the original twosome. They barricade themselves in the house as it's surrounded by the attacking zombies, and listen to the incredulous radio broadcasts that announce that the tragic epidemic is also happening in other parts of the country. After the opening scene, there's no more cause for humor as everything turns chillingly serious. It ends not with the usual triumph of good over evil, but in a more bleak and sobering light. It left me slightly dazed and awed at how effectively it reached into my inner being…

I felt real terror in that neighborhood theater last Saturday afternoon. I saw kids who had no resources they could draw upon to protect themselves from the dread and fear they felt.
Censorship isn't the answer to something like this. Censorship is never the answer. For that matter, "Night of the Living Dead" was passed for general audiences by the Chicago Police Censor Board. Since it had no nudity in it, it was all right for kids, I guess. This is another example, and there have been a lot of them, of the incompetence and stupidity of the censorship system that Chicago stubbornly maintains under political patronage.
Censorship is not the answer. But I would be ashamed to make a civil libertarian argument defending the "right" of those little girls and boys to see a film which left a lot of them stunned with terror. In a case like this, I'd want to know what the parents were thinking of when they dumped the kids in front of the theater to see a film titled "Night of the Living Dead."
The new Code of Self Regulation, recently adopted by the Motion Picture Assn. of American, would presumably restrict a film like this one to mature audiences. But "Night of the Living Dead" was produced before the MPAA code went into effect, so exhibitors technically weren't required to keep the kids out.
I supposed the idea was to make a fast buck before movies like this are off-limits to children. Maybe that's why "Night of the Living Dead" was scheduled for the lucrative holiday season, when the kids are on vacation. Maybe that's it, but I don't know how I could explain it to the kids who left the theater with tears in their eyes.