martedì 31 ottobre 2017

A Ciambra - Jonas Carpignano

Martin Scorsese firma il suo ultimo film, ambientandolo appena fuori Gioia Tauro, in un villaggio di case abitate da calabresi di etnia rom,
Pio è un ragazzino che non va a scuola, forse non è mai stato bambino, sicuramente si deve già comportare come un uomo, diventa il leader della famiglia quando il padre e il fratello maggiore sono in galera.
a sua volta è fratello maggiore di altri bambini ed esempio per molti altri, è ingenuo, ma determinato, impara in fretta tutto quello che serve per crescere e sopravvivere nella giungla della vita, non ai confini della legalità, ma proprio fuori.
sembra proprio un film del neorealismo, dove i bambini hanno modelli che imiteranno, come sempre, ci sono in più gli smartphone, ma il resto non cambia.
e poi c’è il mito del cavallo, quando i rom li usavano ancora, e li veneravano (mi è venuto in mente un bel film di qualche anno fa, protagonisti gypsies irlandesi con gli amati cavalli)
pochi hanno visto A Ciambra, ma sono anche pochi quelli che avrebbero potuto vederlo, al cinema.
intanto è il candidato all’Oscar per l’Italia, buona fortuna, se la merita.
chissà che dopo la nomina qualche sala lo metta in programmazione, difficile, ma se accadesse non fatevelo sfuggire - Ismaele

ps: naturalmente il film non è di Martin Scorsese, che però lo produce.
il regista è Jonas Carpignano, bravissimo.



…Quello di Pio è un ritratto come non se ne fanno più nel cinema italiano. Un ragazzo alla ricerca affannosa ma ostinata, caparbia, di un punto di riferimento, di un appoggio nell’amore, nell’affetto. Questa la sua impresa eroica. Dietro ai piccoli avvenimenti che si succedono nella comunità, dietro al caotico guerreggiare e sovvertire di Pio troviamo un adolescente che si sta affacciando all’età adulta in conflitto con la famiglia. È combattivo ma in fondo spaurito come chiunque si trovi di fronte all’entrata in una terra incognita. La richiesta di attenzione e amore per quanto confusa è evidente. E la frenesia che in numerosi tratti pervade il film è come il riflesso del caos e dell’inquietudine di Pio.
Inquietudine e caos sfociano in un rapporto empatico e intenso con la comunità di immigrati africani e in particolare con uno di essi, un giovane molto carismatico. Pio è spontaneo, privo di pregiudizi e tratta tutti allo stesso modo, compresi i “marocchini”, come i rom chiamano gli africani.
Carpignano riproduce con vivida precisione i dialoghi delle due comunità. Sembra tutto spontaneo, ma tutto è scritto. Il suo film ritrova gli intenti del neorealismo, senza mai scimmiottarlo scolasticamente. In effetti il suo stile è diverso, forse più prossimo a quello dei fratelli Dardenne o di Robert Bresson. E siamo lontani da tanto cinema italiano che scivola nell’ovvio e nel telefonato, dai facili sentimentalismi e dagli ammiccamenti. Gli stati d’animo, la sofferenza e la condizione umana sono restituiti attraverso un’attenta rappresentazione dei comportamenti e degli eventi che ne conseguono. Nel movimento della vita.
L’intero film in realtà, dietro un’apparenza documentaria, rifiuta l’eccesso di evidenza dell’immagine patinata, la fotografia del film fa percepire la grana dell’immagine, è frequente una sorta di effetto di sospensione, di galleggiamento della temporalità, sono ripetute le tonalità di verde scuro e grigio-azzurro, anche nei ricorrenti tramonti, albe e crepuscoli, creando un effetto ovattato, uterino. Il regista, anche grazie a una troupe affiatata, rivela una sensibilità pittorica, non pubblicitaria, riuscendo a rendere bello tutto quello che viene inquadrato, anche i rifiuti. Riesce quindi a esprimere atmosfere intense, in bilico con l’onirico, che culminano con la lunga sequenza notturna dove ritroviamo l’uomo e il cavallo del prologo.
E poi si crea un tono intimo e di forte empatia verso esseri umani che sono quotidianamente oggetto di odio e diffidenza, verso le minoranze etniche, verso azioni che normalmente non sono considerate buone. Ma il film rovescia l’equazione: comportamenti ritenuti cattivi non equivalgono per forza a esseri umani cattivi. Un’empatia rivoluzionaria perché va contro tutto quello che mezzi d’informazione e politica riversano contro di loro…

...El tono realista no impide que Carpignano ruede algunas escenas de gran belleza plástica en un juego de luces, colores y sombras fruto de un gran trabajo de planificación e, incluso, recurra a un par de alegorías oníricas que remarcan el origen gitano de la familia, de una época en la que eran libres y sin jefes. También es destacable el uso magnífico de la música que potencia la atmósfera y remarca la multiculturalidad del entorno. En el debe algún momento excesivamente cliché y un final excesivamente subrayado. Nada, en cualquier caso, que impida que A ciambra sea una notable película.

…A Carpignano va riconosciuto, una volta di più, la capacità di guardare e restituire la dignità umana di una microcomunità marginale, lontano dalle narrazioni dominanti di questo paese. Come il Cherubino di Mozart o il Noura di Halfaouine - L’enfant des terrasses (Férid Boughedir, 1990), Pio ha la leggerezza e la sfacciataggine di chi, per età e per condizione di spirito, riesce ad attraversare le frontiere invisibili che separano braccianti e prostitute africani, rom calabresi e locali in odore di mala. Pio corre e salta da uno spazio all’altro ma Carpignano non ci regala illusioni di sorta sulle ricadute possibili di questo lavoro di tessitura. Al funerale del nonno Emiliano non ci sono facce nere e gli unici gagé, oltre al prete, sono gli inviati della solita famiglia delle Audi nere, venuti per l’omaggio di rito. Pio non sa né può prendere le distanze dalla legge del clan familiare, che fotografa un ordine delle cose esteso dallo spazio pubblico a quello del carcere, come emerge dalle parole del fratello maggiore. Il rispetto che i locali tributano ai rom è condizionato dal rafforzamento dei rapporti di forze che inchiodano migranti e prostitute nere al loro ruolo di corpi schiavili, disponibili al lavoro bracciantile e sessuale.
La percezione dell’orizzonte sospeso e interminabile della micronarrazione di Carpignano ci consente di guardare con fiducia a una possibile ricomposizione a venire ma con la certezza che il suo cinema ben difficilmente produrrà messaggi spendibili in chiave sociologica o in qualsiasi modo consolatori. La sua passione per una verità che parte dalle persone e dalle cose equivale a una scommessa, tanto affascinante quanto rischiosa, sul piano della rappresentazione e dei discorsi soprattutto per quanto riguarda l’antitziganismo egemonico in Italia, ancor più che in altri paesi europei. Davanti agli occhi di uno spettatore medio, intossicato da decenni di retoriche criminalizzanti ed esplicitamente razzializzanti, A Ciambra rischia di produrre pericolosi cortocircuiti e far rientrare dalla finestra, per il tramite del circuito comunicativo, un determinismo socioculturale che pure, ancorandosi al valore dell’esperienza microlocale, Carpignano cerca di tenere a distanza. Mi auguro che, come e più che Mediterranea, se (auspicabilmente un quando) A Ciambra troverà la strada per le sale italiane, il regista sappia accompagnare il film, attivando una conversazione con gruppi e comunità, rom e non rom, che da anni lavorano sui territori per facilitare un processo di inclusione che stenta ad essere praticato sul piano delle politiche governative.

…Il film di Carpignano, però, va ben oltre la voglia di mostrare per la prima volta un mondo ostracizzato se non censurato dal cinema. La sua specificità, la sua ragion d’essere finisce per interrogare l’essenza stessa del cinema e la sua forza creativa, perché il regista non si è accontentato di raccontare un ambiente e una comunità così lontani dai percorsi più battuti: ha scelto di far interpretare ai rom i loro stessi personaggi, innescando un’identificazione che supera ogni facile distinzione tra finzione e documentario. Il Pio del film è l’autentico Pio Amato che vive tra gli zingari della Ciambra. E così i suoi familiari e i suoi amici.
Perché Carpignano abbia sentito il bisogno di abbattere queste divisioni di genere l’ha dichiarato a Ciak: «Credo che il pubblico sia ormai stanco di vedere sempre le stesse cose e lavorare su questo confine significa offrire qualcosa di nuovo. Gli attori portano con sé esperienze e aspettative, spesso nascondono i personaggi. Pio Amato ha quell’autenticità che piace alla gente». Ma sarebbe fare un torto all’intelligenza ridurre tutto a una questione di sorpresa e di autenticità.
Alla base di questa scelta mi sembra che ci sia un’insoddisfazione per i modi in cui il cinema sembra essere capace di raccontare la complessità del mondo reale. Da qui la scelta di mescolare le carte in maniera così provocatoria. Da qui l’adozione di uno stile di ripresa che volutamente rompe e sporca il modo tradizionale di inquadrare: macchina mobilissima, obiettivo incollato sui volti, anche a scapito della comprensione immediata.
Il rischio è quello di un cinema che finisca per vampirizzare la realtà, puntando troppo sulla capacità di scioccare lo spettatore; la scommessa è quella di spingere chi guarda a confrontarsi con un mondo che probabilmente non incrocerebbe mai.

A Ciambra non è un film qualunque, e non solo per le ambizioni del regista di Mediterranea (cui è strettamente connesso, al punto che si può legittimamente parlare di dittico): non è un film qualunque perché ha il coraggio, a tratti quasi sfrontato, di partire dal proprio territorio per fare cinema, raccontare per immagini, creare, fingere senza mai mentire. Non è un film qualunque perché nessuno in Italia ha interesse a raccontare le comunità rom e sinti, e tantomeno la vita quotidiana dei migranti che dall’Africa cercano di sopravvivere attraversando il braccio di mare che divide l’Italia dalla Libia; non è un film qualunque perché non si affida mai alla retorica, né fa leva sulla pietas cristiana. No. A Ciambra non è un film qualunque. Anche per questo motivo, e forse soprattutto per questo motivo, nessuno sa ancora se e come distribuirlo nelle sale…

Nonostante la sensazione di già visto, di reiterazione più o meno esasperata di quasi tutto quello che ci circonda, intorno a noi spesso ci sono storie e volti spesso ignorati. E con questo non intendo mica mettermi a pontificare sull’insensibilità dell’atomizzata società moderna, o altre affermazioni tipiche di un Diego Fusaro qualsiasi. No, il mio è piuttosto un mea culpa, un’ammissione di miopia sociale. Ne ho preso coscienza giusto qualche giorno fa, dopo essere uscito dalla proiezione di A Ciambra, film di Jonas Carpignano incentrato sulle vicende che vedono coinvolto un ragazzino appartenente alla comunità rom di Gioia Tauro. Ed io, cresciuto ad una manciata di chilometri dai luoghi in cui la pellicola è ambientata, di tutto ciò ne ero quasi ignaro. Sì, conoscevo le storie, anzi, certe leggende, ma insomma, alla Ciambra, porzione di Gioia Tauro da cui il film prende il nome e dove è stipata la comunità rom in questione, non ci avevo mica mai messo piede. E neanche potevo immaginare che, a due passi da casa mia, potessero vivere persone così distanti, ma allo stesso tempo tanto vicine a me. E Carpignano, a prescindere da tutto, è riuscito a cogliere tutto ciò, trascendendo l’impronta documentaristica che il film solo perifericamente ha, tentando invece di raccontare una storia di formazione classica ma che classica non è, per via di un’ambientazione disgraziata e stratificata…

Ciò che, appunto, rende unico il lungometraggio è proprio lo sguardo limpido e sincero del suo autore, che non condanna né assolve, non loda né biasima ma, semplicemente, osserva con umana partecipazione i moti dell'animo di Pio, la saggezza del nonno anziano, gli ammonimenti della madre, i buffetti che si tirano i bambini. Descrive e partecipa, Carpignano, alla vita quotidiana di questa realtà emarginata, con una naturalezza a tratti miracolosa, con l'entusiasmo infantile di colui che, da esterno, si trova catapultato in un universo nuovo, affascinante e pregno di vitalità…
…Malgrado una struttura narrativa non certo originale e talvolta prevedibile, malgrado qualche forzatura - soprattutto in prossimità della conclusione - e qualche prolissità di troppo, "A Ciambra" è un film prezioso, da conservare avidamente, imperfetto ma non meno profondo e toccante. Cinema del reale e insieme atto d'amore verso la finzione artistica, "A Ciambra" è lo sguardo, umile e dimesso, sul mondo di Pio, dei suoi famigliari e dei suoi amici; ma è, più che ogni altra cosa, un bellissimo - eppure estremamente crudele - romanzo di formazione, come ci svela il finale, prima che i titoli di coda (ambigui proprio per la loro solarità ed essenza pop, nonché epitome perfetta della natura chimerica dell'opera) calino il sipario su questo racconto che conferma, ancora una volta, Jonas Carpignano come uno degli autori italiani più interessanti della sua generazione.

Il suo vero pregio infatti sta nel mostrare del proprio protagonista sia la forza e la concretezza che non ci si aspetterebbe mai (la capacità di trattare con gli adulti e fregarli, la mancanza di paura nel gettarsi in imprese difficilissime, l’autonomia di giudizio e di pensiero in ogni situazione), sia al tempo stesso la fragilità incredibile che sarebbe più facile attendersi ma che il film riesce a rendere inattesa. Pio, a fronte di tutta questa durezza, è claustrofobico e ha paura della velocità dei treni, ha momenti in cui necessità dell’abbraccio materno e cerca con difficoltà di tenere tutto ciò ai margini della propria vita, di vivere in quel contesto nonostante la fragilità.
Che il primo film italiano fieramente zingaro (cioè che non li guarda da fuori, condannandoli o salvandoli ma che sembra raccontato proprio da loro, con le loro idee e la maniera in cui parlano o si esprimono) sia una storia così onesta e diversa è probabilmente il miglior risultato si potesse ottenere.

Non so quanto A Ciambra, nella sua totale assenza di ogni sdegno civile e afflato redentore, piacerà alla prof democratica e ai critici bon ton. Ma andarselo a vedere è un obbligo per la sua assoluta alterità e indipendenza rispetto a ogni sistema cinema nazionale (anche stilistico, anche linguistico). E fa niente se qui la compattezza di Mediterranea si sfrangia e qualche volta viene meno nel corso delle quasi due ore (se ben ricordo la proiezione a Cannes dopo la vittoria alla Quinzaine, con Carpignano presente). Qualche taglio avrebbe aiutato. Ma la durata rivela anche le maggiori ambizioni del regista, che abbandona certi toni comedy del film precedente per tracciare il referto di un amarissimo confronto-scontro di civiltà in un pezzo di Calabria. Di cinema così non se ne vede mai, e allora tutti in sala, je vous en prie, a partire dal 31 agosto. Certo vien da chiedersi se Carpignano non rischi anche lui di restare intrappolato nella Ciambra come Pio e gli altri. Se non rischi di essere inghiottito da quel mondo che ha scelto come suo soggetto e oggetto della sua narrazione e forse diventato per lui un’ossessione. E vien da chiedersi se non sia il caso la prossima volta che vada oltre, che esca da quel perimetro per esplorare altre universi e persone e altri sbattimenti. Stiamo a vedere.

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