venerdì 30 agosto 2013

Valparaiso mi amor – Aldo Francia

ancora Valparaiso.
Aldo Francia racconta che "Ladri di biciclette" gli ha cambiato la vita, e questo film ricorda un po' il neorealismo italiano, un po' Pasolini (credo gli sarebbe piaciuto, a Pasolini).
una storia di sottoproletari, con i bambini segnati da un vento e da un futuro "ostinato e contrario".
peccato che Aldo Francia abbia fatto così pochi film.
da non perdere - Ismaele

Ps: incredibile quanto le divise dei poliziotti cileni siano simili a quelle dei poliziotti italiani degli anni '50-'60.




QUI  il film completo in spagnolo


…Aldo Francia cuenta en su libro Nuevo cine latinoamericano en Viña del Mar, que asistir en 1949, enParís, a la proyección de Ladrón de bicicletas de Vittorio de Sica, le cambió la vida. Este efecto italiano posee una eficacia simbólica decisiva en la organización del campo intelectual porteño de los años sesenta-setenta. La fundación del Cine Club de Viña del Mar en 1962, le permitió a Aldo Francia organizar un modo de ver que significó hacer-a-ver a otros, un conjunto de obras que serían la referencia para un trabajo formal de envergadura que tomaría cuerpo en la organización de los Festivales de cine latinoamericano…

…Auto interpretarse, para acercar la historia a la realidad, Francia buscó que la misma gente de Valparaíso se interpretara a sí misma. Por eso, una enfermera interpretaría a la enfermera, carabineros el rol de los carabineros, las prostitutas a las prostitutas y taxistas a taxistas. Fue tanto el interés de Francia de que sus personajes se parecieran a los reales que si algún aspecto del guión no les era compatible, éste se modificaba hasta lograr coherencia con el carácter del actor. "Y era mucho más fácil hacer actuar de vago a alguien que realmente lo fue", contaba Francia en sus entrevistas. Todos los varoncitos que actuaron en "Valparaíso, mi amor" eran niños del Hogar de Menores de Carabineros. Su director duda "que en el cine chileno haya niños más reales que estos, los tres hijos de Mario y las patotas de la feria y del cementerio". El rol de la pequeña prostituta dio un poco más de problemas. Debieron buscar mucho hasta que encontraron una niña que no era "ni fea ni bonita", pero sí bastante expresiva. Era la hija de un gásfiter y arreglada de un modo provocativo, disimulaba sus once años y se confundía bien con el resto de las prostitutas de Valparaíso…
…Ellos son Valparaíso. Ellos son a la vez la belleza y la miseria del puerto de sus amores. Y Valparaíso es ellos: es la muerte que llega porque no hay recursos para desviarla, es el robo asumido sin cuestionarse, es la venta del cuerpo a cambio de un poco más de algo que no se sabe bien qué es. Es el destino dibujado entre los cerros. Y cuando no se tiene nada más, el destino puede ser el mayor de los tesoros.





comincia così:

giovedì 29 agosto 2013

My Sassy Girl - Jae-young Kwak

un'opera prima straordinaria, con due protagonisti bravissimi e una sceneggiatura a orologeria.
fa ridere e commuovere, senza trucchetti, un film che ti cattura, un piccolo capolavoro - Ismaele



QUI  il film completo con sottotitoli in inglese

Basato su una storia vera, raccontata inizialmente dallo sceneggiatore Kim Ho-sik in una serie di post pubblicati sul suo blog e in seguito trasformati in un romanzo, è un film che fonde commedia, dramma, poesia e romanticismo nella tipica (e spesso spiazzante) commistione di generi del cinema dell'estremo oriente: campione d'incassi in Corea e in gran parte dell'Asia, ha dato origine anche a svariati remake (negli Stati Uniti, in Giappone e a Bollywood). La struttura episodica riflette l'origine del materiale di partenza, e ricorda fra l'altro serie di animazione come "Lamù", con il protagonista maschile messo continuamente nei guai da una ragazza invadente e capricciosa. Il successo di pubblico e la comicità si spiegano anche con la "rottura" dei canoni tradizionali che prevedono, in Corea come in Giappone, che la donna sia umile, estremamente femminile e sempre accondiscendente. Qui invece è tutto il contrario…

My sassy girl però non è solo questo: è divertimento intelligente, film comico , a tratti sfacciatamente romantico, un patchwork pieno di notazioni intelligenti con due protagonisti che per ragioni forse opposte riescono a creare personaggi che non si dimenticano tanto facilmente.   
Tae- hyun Cha con la sua indecisione cronica e le sue guanciotte da bambino è la perfetta esemplificazione di colui che sta aspettando l'occasione della sua vita per crescere definitivamente…

…Non sarebbe stato lo stesso film però senza i due meravigliosi protagonisti: la splendida Jeon Ji-hyun, il cui personaggio ha un carattere fortissimo e la grazia di un rinoceronte sovrappeso, ed il non bellissimo ma bravissimo Cha Tae-hyun  che interpreta splendidamente uno zerbino totale, timidissimo ed impacciato.
Assieme i due daranno vita ad una miscela esplosiva. Un pò di scenette superflue ci sono, e vedere il povero Gyeon-woo schiaffeggiato in continuazione potrebbe alla lunga anche iniziare a stancare dopo un pò, ma devo dire che ho visto solo la versione uncut quindi magari nella versione normale c’è qualche schiaffo in meno o le scene un pò più inutili risultano un pò più corte (il luna park con i militari e la capsula del tempo con la rana). Sia ben chiaro comunque che nonostante qualche lungaggine il film resta splendido….
da qui

mercoledì 28 agosto 2013

O slavnosti a hostech (La festa e gli invitati) - Jan Nemec

regista censurato per l'eternità, avevano deciso gli invasori di Praga del 1968.
in questo film, angosciante e pessimista, che ricorda Buñuel e il teatro dell'assurdo (e non solo) , sono concretissimi la descrizione dei meccanismi del potere e la passività del suddito e l'obbedienza al potere.
un film potentissimo, da non perdere - Ismaele




…Terribile e limpidissima metafora dei regimi oppressivi e dei mezzi invasivi e subliminali che permettono ai potenti di mantenere il loro statusLa Festa e gli Ospiti non si ferma alla situazione cecoslovacca, travalicando i confini ideologici che spesso appesantiscono questo tipo di pellicole. La resistenza di fronte all'annichilimento della volontà particolare, in nome della sola volontà del potente spacciata per volontà generale, la lotta contro l'apparente stabilità che le cose e il benessere sembrano dare, assurgono nel film di Nemec a valori universali e validi di per se, senza giustificazioni politiche contingenti di alcun tipo. Ma nella visione disillusa del regista sembra non esserci spazio per il lieto fine, o meglio, sembra non esserci spazio per una fine. La messinscena non concede né pausa né possibilità di dialogo, tutti sono attori contenti di far parte ad un banchetto, anche solo come pedine adatte a consumare, procreare, lavorare, dormire, defecare. Da questo punto di vista La Festa e gli Ospiti è parente stretto, oltre che dei film già citati, di Salò di Pasolini. Tutti film fortemente contestati e, guarda caso, resi invisibili proprio alle persone verso cui avrebbero potuto avere effetto utile…

…Il Partito Comunista Cecoslovacco ha vietato invece il film pensando che il suo autore avesse satirizzato le macchinazioni del governo di Antonín Novotný, e da allora la vita di Němec fu una storia agrodolce intrecciata di arte e censura. Anche nell’Ovest il film è stato (e continua ad essere) solitamente interpretato come un’allegoria delle particolarità delle dittature di stato, delle ortodossie sociali imposte alla massa e delle minacce implicite miranti ad eliminare lo stimolo eversivo di quelli che rifiutano di conformarsi…

…The Party and The Guests is one of the signature films of the Czech New Wave, and touted for its oblique political barbs to be the most controversial of the pack. The Czech title translates as About the Celebration and the Guests, but this title that has come down to us -- one that smells of cadre and Communist bureaucracy -- seems more apt, more resonant with connotations. When this film was screened in its homeland, the caustic satire was all too obvious that it received an immediate ban. There are a lot of domestic references, it appears, in the original language which are lost in translation. What we inherit today is a document that foreshadowed a dark era in Czech history; few films are as visionary as this.

Czech banned classic attacking the Communist party using obvious but carefully constructed symbolism. A group of freethinking individuals are having a pleasant picnic when they are interrupted by a strange group of harrassing, dominating guests who turn them into guests. They draw lines, make silly rules, harrass them, until the deceivingly charming leader comes along to berate this harsh behaviour and convince them all to join a banquet in the woods. After some conflict about wrong seating arrangements, soon they are all conforming and before they know it, hunting one of their own. This is the main story but there are many more satirical details. Good but obvious.

…It’s actually closer to an absurdist satire, squarely in line with one of the most fashionable theatrical movements of the day. Originated by the Irish-born Samuel Beckett and Romanian-born Eugene Ionesco in Paris in the 1950s, it travelled particularly well to Czechoslovakia – unsurprisingly, as absurd humour is very much a Czech trait. The very different works of Franz Kafka and Jaroslav Hasek demonstrate this to perfection, as do the plays of Němec’s distant cousin (and future President) Václav Havel, whose bureaucratic satire The Memorandum(Vyrozumení,1965) mocked attempts at streamlining the language of workplace communication.
Comparisons have also been drawn between Němec’s films and the more overtly Surrealist work of Luis Bunuel. Němec’s first feature Diamonds of the Night (1964) not only depicted one of its protagonist’s faces crawling with ants in overt homage to Un Chien Andalou, but also blithely intercut dream and reality without distinguishing the two. Though Němec would not see the first until the 1970s, and the second wouldn’t be made till then, The Party and the Guests can be bookended very neatly by The Exterminating Angel (El ángel exterminador, 1962) and The Discreet Charm of the Bourgeoisie (Le Charme discret de la bourgeoisie, 1972). Indeed, either of Bunuel’s titles could conceivably be reapplied to Němec’s film when thinking of the far-reaching powers of its white-clad, deeply sinister ‘host’, or the discreetly charming picnickers who are generally content to go along with the film’s increasingly bizarre events (even if it means denouncing a former companion)…


martedì 27 agosto 2013

El orfanato (The Orphanage) - J.A. Bayona

prima una cosa pessima, ma come si fa a tradurre un titolo spagnolo, per il mercato italiano, con un titolo inglese?
passo alle cose belle, praticamente tutto il film, non perdetevelo, qualcuno non ne parla bene, decidete da soli dopo averlo visto.
a me è piaciuto molto molto, si capisce? - Ismaele



QUI il film completo in spagnolo


Il film si avvale di una sceneggiatura mostruosa (non a caso candidata e vincitrice di premi su premi), perfetta sia nello svolgimento e concatenarsi del plot quanto nel dosare in modo mirabile emozioni e scene madri. E' quasi impossibile trovar difetti, ancora più incredibile per una sceneggiatura originale.
Ma è altrove la potenza, la straordinaria originalità del film, ci arriveremo presto.
Laura e Carlos sono una coppia molto affiatata. Hanno adottato Simon, un bambino sieropositivo preso in un orfanotrofio. La stessa Laura era stata una piccola orfana poi adottata. E' talmente forte il legame con l'orfanotrofio della sua infanzia che ha deciso di andare e vivere là con il sogno di aprire una casa-famiglia che ospiti bambini in difficoltà. Proprio durante la festa di inaugurazione Simon scompare. La coppia, disperatamente, lo cerca.
El Orfanato è un horror, su questo non ci piove, perché una ghost story che si rispetti per definizione lì va collocata. Riesce però a distruggere le mura di confine del genere e nel finale quasi a cancellarne addirittura i detriti…

Now here is an excellent example of why it is more frightening to await something than to experience it. "The Orphanage" has every opportunity to descend into routine shock and horror, or even into the pits with the slasher pictures, but it only pulls the trigger a couple of times. The rest is all waiting, anticipating, dreading. We need the genuine jolt that comes about midway, to let us see what the movie is capable of. The rest is fear.
Hitchcock was very wise about this. In his book-length conversation with Truffaut, he used a famous example to explain the difference between surprise and suspense. If people are seated at a table and a bomb explodes, that is surprise. If they are seated at a table, and you know there's a bomb under the table attached to a ticking clock, but they continue to play cards -- that's suspense. There's a bomb under "The Orphanage" for excruciating stretches of time.
That makes the film into a superior ghost story, if indeed there are ghosts in it. I am not sure: They may instead be the experience or illusion of ghosts in the mind of the heroine, and since we see through her eyes, we see what she sees and are no more capable than she is of being certain. That means when she walks down a dark staircase, or into an unlit corridor or a gloomy room, we're tense and fearful, whether we're experiencing a haunted house or a haunted mind. And when she follows her son into a pitch-black cave, her flashlight shows only a thread of light through unlimited menace…

El Orfanato, pese a todas sus honrosas intenciones y méritos, se queda más bien corta y eso es una pena, ya que uno siente que sin duda, con una repasada más al guión, con una mano más firme en la dirección y sin un cúmulo de elementos superfluos, habría sido una mucho mejor película de lo que realmente es.

…Distante dalla scuola americana e dagli eccessi di sangue, della computer grafica e dei protagonisti adolescenti, The Orphanage si gioca le sue carte sul ben noto ma sempre apprezzato terreno del thriller (meta)psicologico che poi è come dire un mystery con svelamento finale in cui cose viste e sentite durante il racconto assumeranno nuovo significato alla luce dello spiegone finale. Ma anche seguendo la traccia della ghost-story, The Orphanage, all'ombra di mille altre pellicole che vedono come protagonisti dei fantasmi (o pseudo tali), avrebbe potuto eccedere in facili effetti sonori o in tutta quella serie di accorgimenti ben noti fin dai tempi del primo gotico, cioè da quando si girano film nelle vecchie case. Bayona, invece, punta con maggior finezza sull'immersione nell'atmosfera della vicenda portando la tensione in alcune scene a livelli davvero elevati. Senza che il fantasma diventi vettore per ogni scena di paura, escluse alcune comprensibili eccezioni, al film riesce l'impresa di portare in primo piano una storia che non manca di basilari insensatezze (leggi più sotto) ma che nel complesso funziona assai bene perché prima di tutto i protagonisti sono verosimili e sono ben interpretati dagli attori, soprattutto la Rueda che ben impersona una donna al contempo forte e vulnerabile…

Ci sembra di assistere a una scena orrorifica, e temiamo di dover saltare sulla sedia da un momento all’altro, quando invece Bayona ci sta conducendo per mano in un percorso di dolore e melodramma, in cui l’horror non è ciò che dobbiamo aspettare di vedere sullo schermo, ma piuttosto il rimosso, i piccoli detriti che si formano ai lati della storia e la lambiscono, facendovi capolino di volta in volta. Un viaggio affascinante e insolito, lontano dalle chimere del genere e deciso a muoversi senza costrizioni nel panorama cinematografico spagnolo ed europeo…

lunedì 26 agosto 2013

Jenin Jenin - Muhammad Bakri



Jenin Jenin, il documentario del regista arabo-israeliano Mohammad Bakri, viene proiettato informalmente in tutta Italia. Noi l'abbiamo visto al 13° Festival del cinema africano di Milano, dove è sbarcato dopo aver stravinto il Festival di Cartagine. Inutile dire che Israele l'ha censurato e che nessuna tv del mondo arabo, a parte la libanese Future, l'ha acquistato. 
"Come faranno mai gli israeliani a rimediare a tutto questo?" Si chiede un giovane palestinese, mentre si aggira fra le rovine del campo profughi di Jenin (Cisgiordania), teatro di un intervento militare israeliano senza precedenti che si è protratto per undici giorni - dal 2 al 19 aprile 2002 - e ha lasciato almeno 600 morti sul campo (ma nessuna commissione d'inchiesta nazionale o internazionale è stata mai autorizzata). "Ci ammazzano i figli e noi ne facciamo altri: c'è sempre un modo per porre rimedio.. Sono loro i perdenti, davvero". Chi parla, è uno dei protagonisti del documentario Jenin Jenin di Mohammad Bakri, cineasta palestinese con passaporto israeliano. Lo abbiamo visto al 13° Festival del cinema africano di Milano, nella versione integrale di 54 minuti: cioè compresa la testimonianza della dodicenne - istigata fin da piccola alla vendetta, forse obbligata a diventare in un futuro non lontano una kamikaze - censurata dalla tv franco-tedesca Arté (l'unica in Europa ad averlo acquistato). 
Informalmente, quest'opera sta però girando l'Italia fra proiezioni negli oratori e serate organizzate da associazioni varie, mentre i canali televisivi pubblici hanno poco professionalmente declinato l'invito. 
Poco importa. L'autore - nato nel '53 ad al-Bina, in Galilea, sposato con cinque figli - è quasi abituato alla censura: il suo documentario d'esordio, nel 1995, col digitale 1948 (53'), sulla Nakba, la "catastrofe palestinese", non è mai stato mostrato in tv; eppure in tantissimi l'hanno visto. 
Sulla stessa scia, Jenin Jenin è stato censurato in Israele; nessuna tv del mondo arabo, a parte la libanese Future, l'ha comprato; ciò nonostante il film ha vinto il festival di Cartagine 2003. Un grande riconoscimento per un regista che è stato addirittura arrestato, assieme a sei membri della sua famiglia - nel villaggio di Bina in Galilea, dove essi vivono - con l'accusa di aver collaborato nella preparazione e nell'esecuzione di un attentato kamikaze contro un bus israeliano (come ha scritto su Ha'aretz del 27 agosto il giornalista Uri Ash). Tanto per intimidire ogni possibile dissenso. 
Questa battente campagna denigratoria, in patria, ha al contrario contribuito a pubblicizzarlo ovunque. 
È un film di parte ("one side movie", dice infatti il sottotitolo), obiettano alcuni. Ma finché le risoluzioni delle Nazioni Unite riguardo al Medio Oriente - ovvero la 242 del 22 novembre 1967, la 338 del 22 ottobre 1973, la 1397 del 12 marzo 2002, la 1402 del 30 marzo 2002 - e i principi di Madrid non saranno rispettati dal governo israeliano, forse non è possibile fare diversamente. Jenin Jenin va comunque visto. Perché aiuta a capire…

domenica 25 agosto 2013

Benvenuti a Sarajevo - Michael Winterbottom

non sarà un film perfetto, ma era appena finito l'assedio di Sarajevo, e Michael Winterbottom aveva l'urgenza di raccontare quella pagina terribile.
nella storia si alternano finzione e realtà, non sempre perfettamente, ma in modo necessario.
film bello e doloroso - Ismaele







…Il regista di Blackburn non si mette mai a dire esplicitamente i serbi hanno ragione, i bosniaci hanno ragione o l'ONU ha fatto la cosa giusta o la cosa sbagliata (sebbene qualche frecciatina all'ignavia occidentale c'è), ma si limita a mettere in evidenza quello che oggettivamente c'è da dire, e cioè che bombardare i civili per le strade è una fottuta follia. Che bombardare un orfanotrofio pieno di bambini è una fottuta follia. Che negare l'evacuazione di una città costantemente sotto il fuoco, giorno e notte, per quattro anni, è una fottuta follia. Che imprigionare uomini, donne, anziani e bambini in campi di concentramento solo perché appartengono a un'etnia o a una religione diversa è una fottuta follia.
E' questa la fottuta follia che Winterbottom descrive. La fottuta follia della guerra.

Films like this, of course, lament for the children--for helpless orphans and altar boys gunned down by partisan and sectarian snipers. But the snipers were altar boys only a few years ago, and altar boys grew up to become snipers. The film decries "violence" but doesn't name names: Much of the evil that has descended on this part of the world is caused by tribalism and religious fanaticism (when one group kills another in the name of their God, that is fanaticism).
So often there is a style of reporting events like the Bosnian tragedy in which words like "partisans" are used instead of ``religious fanatics,'' because although a man might kill others for worshipping the wrong God, of course we must not offend his religion. "Welcome to Sarajevo" tiptoes around that awkwardness with easy pieties, in which an orphan is spared, a man is a hero, cynicism masks bravery--and the underlying issues are not addressed. A better and braver film about this part of the world is Milcho Manchevsky's "Before the Rain" (1995), which shows clearly how the circle of killing goes around and around, fueled by the mindless passion that my God, my language, my ancestors give me the right to kill you.

…There are fine performances, particularly Stephen Dillane as Henderson. He's understated, using only eyes that have been wounded by seeing too much bloodshed. Woody Harrelson, whose part is much smaller than his star billing, is perfect as the stereotypical Amercian gonzo reporter. And there are unexpected, quiet moments that crystallize the desperation of life under siege. As when, six friends share three eggs with a reverence and awe that make it a sacrament.
As the people of Sarjevo are slaughtered by each other, "Welcome to Sarajevo" intercuts shots of real politicians like Bush and Major, mouthing platitudes. You just wanna smack 'em. And maybe weep for humanity.

Jungle - Momenceau Eponine

sabato 24 agosto 2013

Buongiorno - Yasujiro Ozu

potrebbe essere ambientato in Italia, o altrove, alla fine degli anni '50 o all'inizio degli anni '60.
e mi ha ricordato il Bianciardi de "La vita agra" (c'è un traduttore, nel film), quel capolavoro di Manoel de Oliveira, che è "Aniki Bobó", e questa canzone (la cantano sia Pete Seeger che Victor Jara).
è il primo film di Ozu che vedo e mi sa che i suoi film mi piaceranno molto, e così spero per voi.
questo è un piccolo gioiello, vedrete - Ismaele




Buenos días, una de las obras más divertidas, conmovedoras y valiosas que el cine nos ha regalado, se interroga, como Cuentos de Tokyo y Las hermanas Munakata, sobre su presente, sin obviar las deudas del pasado, para exponer un retablo universal e intemporal sobre la vida, entendida como un devenir por lo cotidiano, en el que los pequeños detalles revelan de forma irreprochable el paso del tiempo. Obras maestras, obras totales sobre las que deberemos volver en algún momento. Mientras tanto, celebramos con emoción el centenario del nacimiento de uno de los artistas mas personales y fascinantes del siglo XX. ¡Gracias sr. Ozu dónde quiera que esté!



It concerns a small community of families in Japan, where the neighbors all know each other and are involved in each other's business. One family, the Hayashis, has two young sons who want a television so that they can watch Sumo wrestling. Their father refuses, having heard that television will produce "100 million idiots" (looking at the success of the recentSurvivor, he may have been right). So the boys take a vow of silence until they get their TV…

“Buenos Días” es una entrañable y deliciosa comedia, magistralmente dirigida por un auténtico genio; en ella, todo resulta auténtico, natural y fluido; como si el director japonés hubiera rodado un trozo de realidad de un pequeño pueblo nipón en los años 50, sabiendo en todo momento donde colocar la cámara para obtener el resultado esperado. “Buenos Días” habla sobre las peculiaridades de la comunicación; lo que se dice: habitualmente vacío de significado, o solo parcialmente veraz; lo que no se dice: oculto con el fin de evitar enfrentamientos o simplemente por miedo al rechazo; el silencio como método de protesta. A parte de su destreza para la narración visual, Yasujiro Ozu exhibe una talento privilegiado para la resolución de situaciones comprometidas en su guión. Además, cuenta con un reparto en estado de gracia. Una joya.
Carlos Fernández Castro

venerdì 23 agosto 2013

La salamandra - Alain Tanner

film che ha l'aria fresca del '68, i due protagonisti Paul e Pierre "studiano" Rosemonde, e interferiscono con l'oggetto dello studio.
un film sulla ribellione, la liberazione e la libertà, in una Svizzera che non è Parigi.
non sarà perfetto, ma ti cattura, grazie anche alla  bravura degli attori, che sembrano girare un documentario.
e bravo Alain Tanner, naturalmente, insieme a John Berger, sceneggiatore.
da vedere, davvero unico - Ismaele



Il montaggio della sequenza iniziale è magistrale nel confondere l'idea di verità e aprire il varco a dubbi e insinuazioni. E' stato un incidente o lo sguardo di Rosemonde è colpevole?
Il secondo film di Tanner parte come un'inchiesta giornalistica che assume i contorni del giallo, ma ciò è un mero pretesto. La ricostruzione pedante del passato di Rosemonde in realtà è l'occasione per interrogarsi sulle condizioni che hanno determinato il fallimento di un'ideologia e individuare le ragioni per conservare l'idea di libertà nell'inestinguibile giogo capitalistico.
Il tempo nei primi film di Tanner è sempre il post-'68, volutamente e inevitabilmente.
Lo spazio, altro elemento imprescindibile, è una Ginevra filmata come luogo al confine con la Francia in cui si mescolano le vicende di frontalieri e persone in movimento…

Alain Tanner’s “The Salamander”
Public intellectuals and liberation of Rosemonde
Rosemonde is an existentially gifted girl from a poor family who is neglected by the culture, abused by people and exploited by the system that keeps her on mechanical job and cheap mindless entertainment. When impoverished intellectuals appear in her life she gradually starts to feel that she as if was waiting for them since her childhood. Relations with them make her understand her weaknesses and potentials and taught her to respect her humanity and be intellectually alert.
“The Salamander” is Tanner’s early attempt to find a political meaning in personal friendship in an epoch when progressive political agenda either becomes petty and purely financially oriented or streamlined and dissolved into conformism.
The most fascinating aspect of the film is Tanner’s depiction of the creative process of trying to understand the world better as a part of personal relations. What always was considered as the function of individual mind became a function of actual existential togetherness. We see how intellectual process can be not retrospectively but future-oriented and be the very living through friendship.

C’est un objet étrange, qui ne se donne pas à la légère, et dont la poésie impure - entre cinéma du réel, film d’avant-garde, drame social et comédie enjouée - peut enthousiasmer, ou lasser, c’est au choix. Forcément affublé de la triste réputation de film intelli-chiant ici et là (la palme revenant au "fameux" Rogert Ebert, inventeur du mythique Two Thumbs Up et qui nous gratifie sur son site web d’un "le film aurait du s’appeler L’escargo (sic)" comme seul appareil critique), le film risque forcément de rebuter les cinéphiles déjà rétifs aux essais de la Nouvelle Vague - quand bien même La Salamandrereste dans sa globalité d’une facture assez classique. Les plus curieux, ou les cinéphages déjà sensibles aux charmes de Jonas qui aura 25 ans en l’an 2000, seront eux bien avisés de (re)donner leur chance au film d’Alain Tanner. Tract politique railleur et joueur, La Salamandre est une œuvre d’art funambule, tristement gaie, joyeusement triste, portrait amouraché de trois freaks suisses qui "cherchent à maintenir leur indépendance, leur intégrité morale, dont ils ont un besoin vital, au sein d’une société qu’ils critiquent et qui les ennuie" (Jacques Lourcelles). Balançant constamment entre anarchie burlesque (désopilante scène de la machine à saucisse, interventions incongrues des représentants du gouvernement…) et spleen urbain (la très belle voix-off finale), le film fait au bout du compte forte impression. Il remporta à l’époque un succès tout bonnement inimaginable aujourd’hui, entraînant un quart de la population de Lausanne dans les salles, et un million de spectateurs en rab de par le monde.Magie d’un cinéma contestataire et subversif qui avait alors le bon goût de ne laisser personne sur le bord de la route. A redécouvrir d’urgence.

…Viewers start to understand that there is something wrong in addressing human problems with scientific vigor alone, that understanding should be completed by caring about development of intelligence of concrete people. Paul’s project of writing Rosemonde’s story collapses in spite of him being correct about her behavior and motivations – her real presence as if dissipated the spirits of ideas. While watching the film we start to feel the artificial overemphasis on science including humanistic science in today’s democracies by the price of under-emphasizing the care about people’s intellectual and existentially spiritual development.
The film pays attention to the idolatrous tendency in human culture (our proclivity to idolize realities instead of living with them) which tends to separate the idea of love from the idea of sex, and the idea of sex from the common humanity of all human beings. Culture idealizes love into the idol of eternal love, and simultaneously fetishizes sexuality into sex as a goal in itself. According to the film, we underestimate our common humanity as the most basic and sacred commons we have – its precious emotional reservoir – the source of our intuition and thinking, the ability to disinterestedly love each other and of our creative gift to modify our ways of life.


giovedì 22 agosto 2013

Classifica 2012-2013 (al cinema)

anche quest'anno faccio una specie di classifica dei film visti al cinema, non sono tantissimi, ma qualcosa di buono c'è  (cliccando su ogni titolo c'è il link alla piccola recensione che avevo scritto a suo tempo), altri comunque buoni di trovano nel blog - Ismaele


Django Unchained - Quentin Tarantino

Reality – Matteo Garrone

Arrugas - Ignacio Ferreras


Zero dark thirty – Kathryn Bigelow

Su Re – Giovanni Columbu 

To Be Or Not To Be (Vogliamo vivere) - Ernst Lubitsch



Delta - Kornél Mundruczó

il film è un dramma che ricorda tanti altri film, ma non importa, questo è un gran film, che merita davvero.
molti silenzi e poche parole, al posto giusto, sguardi, pochi sorrisi, molto dolore, e crudeltà.
da vedere di sicuro - Ismaele

Ps: Félix Lajkó è attore protagonista, fa le musiche del film, ed è un musicista eccezionale (qui suona lo zither ungherese).





…Un ospite (Félix Lajkó) arriva senza preavviso per vivere in un luogo che forse un tempo gli è appartenuto, porta con sé un’incognita che non si conoscerà; quello che conta non è il motivo del suo viaggio e nemmeno il suo passato, conta solo il ritorno a casa. Un ospite che è già un “teorema” insolubile, con il volto segnato da un tragico destino evangelico: figliol prodigo in cerca della madre, si ricongiungerà alla sorella di cui ignorava l’esistenza, per riscrivere la storia di Edipo e quella di Abele e Caino, capovolgendo le sorti del mito e quelle dell’uomo. Dall'unione dei due fratelli in un Eden ritrovato potrebbe nascere una nuova progenie non più in lotta con la natura ma appartenente ad essa. Tuttavia il corso della storia segue un ordine immodificabile che esige la crocifissione dell’estraneo condannatosi ad una autoespulsione che è rifiuto di obbedienza a delle regole tacite di convivenza.
Tutto avviene sotto il sole, senza riparo; lo sguardo della coscienza può solo allontanarsi e allungare il piano, sbiadire l’immagine. Insostenibile è ciò che manca: la presenza del padre, forse morto - come dio. Un’assenza da vendicare attraverso una nuova presenza, giacché tutto ciò che è sotto il sole sempre si ripete e il divenire urta improvvisamente con l’urgenza dell’inevitabile.
Come nel Teorema pasoliniano, l’ospite è sempre portatore del sacro per il suo semplice essere fuori dalla vita che si svolge a terra; lì come in Delta, il sesso è rituale finché resta estraneo ai canoni di ordine e di possesso, e diventa osceno e violento quando è usato come strumento punitivo e simbolico di esercizio del potere. Il pallore irreale di lei (Orsi Tóth) riflette la purezza di una onnipotenza erotica inconsapevole: la sua colpa è nell’essere donna-figlia-sorella, marchiata intimamente dalla condanna della disobbedienza all’ordine, macchiata di sangue e sperma, costretta ad ingoiare l’anguria frutto del peccato ed emblema di un martirio inevitabile: il suo biancore è quello del Cristo morto del Mantegna che espone lo scandalo della sua carne lacerata in un primo piano inaudito per la storia di tutta l’arte e del cinema a venire…


Kornel Mundruczo’s intimate drama Delta, like his last film, the gripping and dark musical Johanna, drops the name of fellow Hungarian filmmaker Bela Tarr in its opening credits. Although Mundruczo’s new film isn’t as distinctively slow-paced as Tarr’s work, it does make several visual allusions to it (one of the first shots recalls the opening shot of cattle slowly roaming in Satantango, for example), and presents a similar vision of small-town malaise as it drifts inexorably toward violence. Unfortunately, without Tarr’s distinctive torpor to differentiate it, the movie settles too comfortably into the realm of art house clichés...
  
A la façon d'un Crusoé que la solitude a rendu mélancolique, le frère construit sa maison au milieu de nulle part. La scène où, aidé de sa soeur, il cloue une à une les planches du ponton qui reliera sa demeure à la terre ferme, marque sa séparation avec le monde réel, chargé de personnes et de souvenirs auxquels il décide de renoncer. Beaucoup de questions sont en suspens : d'où vient cet homme ? Pourquoi décide-t-il de retrouver sa mère et pourquoi était-il absent jusqu'à présent ? Enigmatique et silencieux, il fascine d'entrée de jeu. Quant à sa soeur, remarquablement interprétée par la jeune Orsi Toth, elle affiche des traits durs et un regard sauvage qui la rendent tout aussi mystérieuse.
Le film est bâti sur un ensemble d'antagonismes : clarté et pénombre, beauté et laideur, douceur et violence. « Delta » est au croisement de ce que la nature a de plus beau à offrir et de ce que l'humain a de plus vil en soi. Comme dans un poème antique, les choses sont rarement montrées dans leur banalité ou leur caractère abrupt. Ainsi, la mise en scène demeure toujours très pudique, à la limite du naïf, privilégiant les jeux d'ombres (un regard complice derrière un linge suspendu) ou les plans décadrés (un mouvement du corps que l'on devine en voyant les pieds). La poésie qui se dégage des personnages centraux apparaît d'autant plus allégorique qu'elle contraste avec une forte violence, filmée elle aussi de façon détournée (de loin ou la nuit), comme si les choses laides ne méritaient pas d'apparaître au grand jour.
Avec «Delta», Kornél Mundruczo signe un petit bijou de poésie. Un voyage sensoriel entre rêve et réalité qui, à défaut d'être éternel, laissera des traces pendant longtemps.

…C’è molta maestria dietro questo film. Mundruczó riesce nella difficile impresa di rendere vivo il paesaggio che non risulta essere un contorno messo lì tanto per, e nemmeno uno sfondo piazzato per puro senso estetico. No, le acque del fiume, l’erba, il vento e la pioggia sono elementi meravigliosamente vivi, palpitanti, reali. La bellezza della natura contrasta con la bassezza degli uomini. Viene da domandarsi come sia possibile che in un posto così incantevole gli esseri umani riescano ad essere tanto meschini…

Il film, pur nell'essenzialità degli ambienti e nella minimalità dei dialoghi, è un intenso melodramma magiaro. È, infatti, la storia di un fratello e di una sorella che abbandonano il paesino retrogrado e violento in cui risiedono, per vivere ai margini di un fiume nei pressi del paese. I due costruiscono, a poco a poco, una palafitta in cui vivere, affrontando con tenacia le avversità che incontrano. Ma il loro legame, forse incestuoso, non è ben visto dalla comuntità, che si vendicherà…
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mercoledì 21 agosto 2013

Aleksandra - Aleksandr Sokurov

c'è la guerra, una guerra d'occupazione, il film è pieno di soldati e armi, ma non si sente neanche un petardo.
c'è un'attesa, come ne "Il deserto dei tartari", non si vede soluzione.
la gente di Grozny (o qualsiasi altra città cecena) vive vendendo (e vendendosi, forse) , nella distruzione materiale, senza illusioni.
la saggezza delle vecchie (non solo di Alexandra, bravissima interprete) è un soffio di aria fresca, laggiù.
film di molti silenzi e sguardi, da non perdere - Ismaele

Ps: nei film di fantascienza russi le case che vediamo sono come quelle del film


il lirismo, la spiritualità che ha reso Sokurov autore così eremitico, diverso da tutti, si manifesta per altre vie. E proprio nella semplicità delle scene di vita militare: manovre, mezzi blindati, ma anche molto meno come sguardi, brande piene e vuote, sentinelle che fissano il vuoto, anche perché in Alexandra non si sente un colpo di proiettile, o bombardamenti, né l’ombra di feriti o morti, è in questi frammenti di quotidiano che si insinua l’elemento straniante, ovvero una signora ottantenne che erra per il campo come una sorta di fantasma, pretestuosamente nelle vesti della nonna di un ufficiale. Un pretesto, un elemento surreale della (non) storia, che funziona come una sorta di coscienza che si permette di spiare e poter dire ciò che desidera…

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Comme a son habitude, le réalisateur russe offre quelques somptueux tableaux, à la lumière subjugante de beauté, principalement lors des scènes sous les tentes, lors desquelles on peut presque sentir la chaleur envahissante. Plongé dans des jaunes poussièreux, son long métrage est aussi l'occasion pour la cantatrice Galina Vishhnevskaya de faire ses premiers pas au cinéma, en grand mère exigeante et renfrognée. Un film volontairement lent mais instructif.

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It is as simple as this. An old lady is helped on board an armored military train and journeys all night to visit a remote Russian army outpost. The soldiers seem to know about her and her visit, and after a couple of local boys apparently try to "guide" her away from her suitcase, two soldiers in uniform turn up and escort her to the base.
We already know a lot about her. We know she is opinionated, proud, stubborn, and not afraid to express her feelings. She marches through the heat and dust into the base, and is guided to her "hotel," a room with two cots in a barracks made of tents. Other information is revealed, slowly. Her name is Alexandra (Galina Vishnevskaya). She is here to visit her grandson, Denis. He is a captain in the army.
The base is in Chechnya. It is a Muslim republic, occupied by Russian forces, who are sullenly disliked. On the the base, discipline seems informal, the soldiers lax. When Denis (Vasily Shevtsov) turns up, she is appalled by the state of his uniform and advises him to wash up. She also sniffs disapprovingly at other soldiers, tells helpers "Don't pull my arm" and "Don't push me!" and that she is perfectly capable of taking care of herself.
The next day, she wanders the base so early that no one seems to be around, and that was when I remembered a similar scene in Bergman's "Wild Strawberries," about an old man who dreams of wandering in a deserted town. There are other parallels between the two films, but Bergman's is about an old man discovering himself, and "Alexandra" is about an old woman being discovered. She is a transformative presence…
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In un progressivo processo di astrazione, paradossalmente tramite una maggiore importanza data all'evidenza tramica (sebbene sempre lontana dall'essere analizzabile in quanto tale), il film potrebbe bastare come terzo capitolo della trilogia finora comprendente Madre e figlio e Padre e figlio. Di quest'ultimo viene decisamente ripresa una finanche imbarazzante invasione della fisicità sessuale, qui meno tesa ed anzi schiettamente commovente, pienamente allusa nelle tenerezze fra Aleksandra e Denis (Vasily Shevtsov): vi si esprime in un'estetica carnale e sovrana quello stesso contrasto congenito nel tempo intergenerazionale, specchio a sua volta del contrasto intragenerazionale che in questo caso oppone imperialisti e sudditi.
Questa fisicità e questa saggezza, assenti nella normalità, sono le armi della protagonista, che nella notte (sovrumano il cielo notturno su Grozny) o sfidando la calura porta la sua età a spasso: sa che quanto vedrà le scivolerà addosso, come quel lenzuolo, come esplodere un colpo di fucile senza proiettili, e vuol solo sperare che la sua presenza lì, totalmente irreale ancor più dell'assenza del pur minimo scontro militare, possa far guardare russi e ceceni ad un'unica nonna. Non tanto la predominantemente propagandistica Madre Russia, quanto una più schiettamente maternalista babushka, con dei nipoti di due etnie che combattono per sbagliare, e che si preoccupa di cosa faranno quando avranno finito.

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Lo que Sokurov nos cuenta es profundamente interior, y lo hace con una sensibilidad y delicadeza asombrosas. Nada de explicitud ni diálogos discursivos: hay pocos y son más bien banales, sobre asuntos intrascendentales. Todo se dice con miradas nobles y francas, con gestos nada enfáticos ni forzados, con la sencillez y normalidad de unos actores que no actúan sino que viven una realidad y dejan ver su alma. No hay bombardeos ni disparos aunque no hay plano en que no aparezcan soldados armados hasta los dientes. Todo transcurre en el interior de Aleksandra, de los militares rusos, de los pobres chechenos. En ellos vemos su vacío y dolor existencial, su anhelo de libertad y paz y también su odio y rencor, la necesidad de un afecto que no se atreven a admitir. Abundan los momentos de enorme intensidad emotiva, aunque ésta no se muestre de manera fogosa sino contenida: apenas un roce imperceptible de los dedos del comandante y la visitante en su despedida; o ese abrazo entre la abuela y el nieto la noche previa a la partida, cuando poco después él le trenza el cabello mientras ella reza —una hermosísima escena, emocionante y melancólica como pocas veces hemos visto—; o el encuentro en el mercado con la bondadosa y amable anciana chechena que le abre su casa y también, sin pretenderlo ella y sin recalcarlo Sokurov, la puerta a una vida nueva…

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lunedì 19 agosto 2013

La Ravaudeuse - Simon Filliot

Albert - Csaba Bardos

Becket (Becket e il suo re) - Peter Glenville

un film sull'amicizia, prima di tutto, e poi c'è la Storia.
attori super rendono il film impossibile da perdere, promesso - Ismaele





Dramma teatrale di Jean Anouilh,di ottimo successo, rappresentato anche in Italia da Gino Cervi (che qui fa il ruolo di un Cardinale, insieme a Paolo Stoppa in quello di un colorito Papa) di Jean Anouilh, che dette lo spunto di successo a diversi altri film sul genere storico psicologico. La sceneggiatura, che vinse l'Oscar, si basa sulla caratterizzazione forte dei due interpreti, ma il film si basa anche su un'ottima confezione di scenografie e costumi ed un contributto di fotografia notevole. Il rapporto fra i due sfiora argomenti tabù per i tempi, ma che guardando il film saltano agli occhi spontanei. La prerogativa per questo tipo di film è la scelta di un cast di formazione teatrale e al scelta è più che indovinata.

Nell’Inghilterra del XII secolo si consuma il drammatico contrasto fra re Enrico II e l’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, strenuo difensore delle prerogative del clero. In passato i due erano stati legati da un’amicizia (neanche tanto) velatamente omosessuale, cosicché il loro dissidio ha un senso personale prima ancora che politico: il re continua a stimare l’avversario (“è l’uomo migliore del regno, e si trova contro di me”) nonostante si senta tradito da lui, e dopo la sua morte non può fare a meno di rimpiangerlo. Una volta superato lo choc di vedere un tipo notoriamente morigerato come Richard Burton vestito dei paramenti sacri (fra lui e O’Toole chissà quante bevute si saranno fatti sul set), ci si può abbandonare alla visione di uno spettacolo molto vecchio stile, ben recitato, un po’ prolisso, non troppo coinvolgente ma insomma dignitoso.

…O’Toole’s performance is comic but tragic. O’Toole’s delivery of lines is perfect for comedic purposes; Henry is almost always yelling, even when he’s hungry. But when we analyze the meanings of his words we realize how troubled the king truly feels.
Burton’s troubled Becket is complex and truthful; he always feels the social backlash from having been born a Saxon. By accepting the position of archbishop his side is chosen but he doesn’t show his feelings about stabbing Henry, his friend in the back.  Like an actor always remaining in character, Becket plays the martyr to the end; ending his friendship with his king and at the same time reminding him of the truth he had spoken of all those years ago…
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giovedì 15 agosto 2013

Il Castello Dei Carpazi (Tajemství hradu v Karpatech) - Oldrich Lipský

primo, ha partecipato Jan Švankmajer (e si vede), e poi è una storia che si ispira a Verne, con grande fantasia e colpi di scena a ripetizione, e quel pizzico di follia che ci sta bene.
a me è piaciuto molto, e così spero di voi - Ismaele



QUI il film completo con sottotitoli in spagnolo



This film's director Oldrich Lipský is beloved by Czech language viewers for a series of more or less bizarre comedies that mix the corny with the grotesque and the surreal.
This example of Lipský's improbable art is based on one of Jules Verne's lesser novels, and uses this source material for a loving parody of adventure novel and gothic romance tropes that has just as much fun with its parodic elements as it has with showing off the grotesque inventions of its mad scientist (there's always a mad scientist). These inventions have a sort of proto-steampunk aesthetic, fusing the industrial with the weirdly aesthetic. Here - of course! - listening devices are shaped like ears and a scientist has replaced his hand with an excellent, brass-gleaming multi-tool.
If the film weren't told in the tone of a farce, it would actually be a macabre story about two men who can't cope with the death of a beloved woman and do immoral things to keep her with them in what has clear hints of necrophilia; as it stands, it's a very funny film that contains mad science, death, destruction and (in good Vernesian tradition) many a funny beard.

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Il conte Teleke vaga nei Carpazi in cerca della sua fidanzata Salsa Verde, una famosa cantante lirica scomparsa misteriosamente dopo un concerto. Giunto in un villaggio in compagnia di un boscaiolo chiamato Vilja, Teleke sente raccontare dalla gente strane superstizioni a proposito del vicino castello del barone Gorc e, come guidato dall'istinto, si convince che la sua amata sia prigioniera tra quelle mura. Gorc, infatti, è il vero responsabile della scomparsa di Salsa Verde, ma la ragazza, è in realtà, morta: il barone ne conserva amorosamente il corpo preservandolo dagli insulti del tempo con dei procedimenti chimici ideati dal professor Orfanik. Il castello, simile ad un tempio fortificato dedicato all'amore e alla bellezza, è protetto da trappole e straordinari congegni ottici e meccanici che simulano fantasmi e melodie incantate per tenere lontani visitatori indiscreti.
Ispirato ad uno dei romanzi meno conosciuti di Jules Verne, il film conserva il fascino di una favola gotica modulata sui temi dell'amore, della morte, della musica, della scienza e dell'infelicità dell'uomo.



inizia così: