martedì 5 dicembre 2023

Genèse d'un repas - Luc Mollet

Luc Mollet parte da un pranzo casalingo, che nasconde molti segreti, fino a che non si investighi dove e come nascono i cibi che arrivano nelle tavole francesi.

quasi tutto è importato, prodotto da imprese africane, sopratutto, che spesso sono comunque francesi, africani e africane sono gli schiavi che lavorano per preparare i cibi che arrivano sulle tavole francesi.

è un film politico, che racconta, descrive, spiega come funziona il mondo dell'imperialismo, del neocolonialismo, del cibo prima che arrivi sui piatti, intervistando imprenditori e lavoratrici e lavoratori africani, per il bene delle papille gustative dei francesi.

il documentario è molto interessante e non annoia per niente.

buona (imperdibile) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

…La boîte de thon « pêcheur français » qui arbore une bonne tête de marin breton cache en fait une production entièrement faite à Dakar. Moullet note qu’une autre marque vendant le même produit au même prix, mais affichant naïvement le fait que le poisson vient de Côte d’Ivoire, se vend bien moins bien dans les rayons des épiceries françaises. Il convient donc de cacher la provenance étrangère des produits, de les "franciser" pour flatter la fibre nationaliste du consommateur et pour profiter du mot d’ordre « produisons français » censé protéger les emplois de notre pays. Ce sont les Sénégalais qui travaillent pour remplir nos assiettes, mais il faut surtout le cacher. Moullet y voit une façon pour l’homme blanc d’afficher sa supériorité, le Noir n’ayant pas sa place, n’étant pas représenté, sauf sur les boîtes Banania où il se trouve  « associé à l’enfant ».

 

Ce racisme est profondément ancré dans la culture occidentale et dans le système capitaliste. A un moment, Moullet explique qu’un marin français travaillant sur des bateaux de pêche de Dakar lui résume hors micro sa pensée : « Quand tout est noir, y a plus d’espoir. » Moullet se dit alors que pour retourner la situation, il y a le cinéma et de projeter quelques instants le négatif de la pellicule pour inverser les couleurs de peau.

Dans les magasins, tout est estampillé français, mais tout est produit ailleurs, en Afrique ou encore en Italie comme les oeufs « Coqami » qui ont servi à cuisiner l’omelette du début. Le consommateur accepte par contre la banane martiniquaise, tout le monde étant bien d’accord pour dire qu’elle est bien plus goûtue et ferme que celle produite en Équateur. Moullet montre pourtant qu’il n’y a aucune différence entre les deux bananes, il s’agit là encore juste d’un travail de sape de la part des importateurs. Car au-delà de la production, il y a la vente et Moullet s’amuse à montrer la manipulation et la ruse des marchands. Des mêmes aliments (la banane d’Equateur, des œufs) sont ainsi produits dans les mêmes conditions mais étiquetés sous différentes marques. La publicité va ensuite œuvrer pour faire croire au consommateur qu’il a le choix entre des produits divers et variés. L’hypocrisie du système est particulièrement flagrante dans les diverses interviews de responsables qui pleurent sur leurs marges très basses;  Moullet recoupe simplement diverses sources d’informations pour montrer comment ils ont mis en place un gap de prix incroyable entre la production et le coût de vente au consommateur, une seule partie de la chaîne - la leur - bénéficiant des marges de ventes.

 
 

Moullet s’attache tout particulièrement dans son enquête aux conditions de vie des ouvriers. Le constat est particulièrement terrible dans les pays du Tiers Monde avec des salaires de misère, des conditions de travail terribles et la précarité totale. Mais le cinéaste montre que le sort de l'ouvrier français n'est guère plus enviable. Il évoque la déshumanisation à l’œuvre dans les usines, et notamment la plus terrible, celle de la chaîne, abrutissante, implacable, qui transforme les êtres en simples rouages mécaniques. Moullet la montre d'abord comme quelque chose d'enfantin, d'amusant et même fascinant pour mieux rappeler ensuite « qu’elle détruit la vie de centaines de millions d’hommes. »…

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lunedì 4 dicembre 2023

Palazzina Laf - Michele Riondino

un film politico e operaio (con il ricordo di Elio Petri e Gian Maria Volonté negli occhi dello spettatore), dedicato allo scrittore Alessandro Leogrande, moerto a soli 40 anni (il film si ispira a un suo libro).

Caterino (Michele Riondino) è un uomo qualunquista e senza qualità, che si adatta a fare la spia per il padrone, o il suo direttore del personale (impersonato da Elio Germano).

il film è ambientato nell'Ilva di Taranto, nella quale il mobbing e il confinamento dei mobbizzati in una palazzina all'interno dell'area industriale era sviluppato in quantità industriale.

Caterino, credendo di arrivare al paradiso del non far niente, viene mandato lì con l'incarico di spia, di colleghi mandati lì a morire di noia, umiliati e offesi, in attesa delle loro dimissioni o pazzia.

la fabbrica è gestita con la paura, e la palazzina Laf è la ciliegina sulla torta dell'orrore dell'istituzione totale (Michel Foucault insegna).

opera prima di Michele Riondino, con una sceneggiatura implacabile, con attori convincenti e anche più.

non perdetevelo, merita molto.

buona (inquietante) visione - Ismaele






La sceneggiatura, dello stesso Riondino saggiamente affiancato dall'esperienza di Maurizio Braucci, non fa sconti a nessuno e crea dinamiche relazionali allo stesso tempo credibili e lunari. E a fare la differenza nel raccontare questa storia è la volontà di non farne semplicemente un "film a tema" ma un lavoro artistico che trova la sua originalità in una serie di scelte molto precise di regia, di montaggio (del bravissimo Julien Panzarasa) e di commento sonoro minaccioso e incombente (le musiche originali sono di Teho Teardo, la canzone finale è di Diodato, che ha origini tarantine).

Dalla scena in cui Caterino emerge con un occhio nero alle visioni (o anticipazioni temporali) che precedono e preconizzano le conseguenze delle azioni in scena, Palazzina Laf costruisce in modo asciutto ed essenziale, ma mai minimalista o documentario, la parabola di un Giuda inconsapevole che è a suo modo anche un povero Cristo. E finalmente torna a mettere il diritto dei cittadini al lavoro - e a condizioni che lo rendano possibile - all'interno del nostro cinema che, dagli anni Settanta in poi, ha in gran parte evitato di parlarne.

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A raccontare questa storia di operai e padroni, di rivendicazioni e soprusi, di dignità e umiliazioni, è Michele Riondino che con Palazzina Laf firma la sua opera prima da regista. Interprete principale (Caterino) accanto a Elio Germano (Basile), e autore della sceneggiatura insieme a Maurizio Braucci, l'attore pugliese si è documentato attraverso interviste a ex lavoratori e leggendo le carte processuali che hanno portato ad alcune condanne e risarcimenti per le persone coinvolte in uno dei tanti episodi che dimostrano cosa significhi lavorare in Italia.
UN FILM che racconta in modo diretto l'assenza di una rete fuori dalla fabbrica. Che pone, senza andare mai sopra le righe, la questione del lavoro dentro una società che dimentica la vita degli altri, di chi in fabbrica muore per mancanza di sicurezza o è punito per essersi opposto, per aver cercato una via migliore per tutti.
La Palazzina Laf del titolo è un edificio fatiscente, invisibile, controllato da guardie asservite, dove operai e tecnici sono reclusi fino a quando non si piegheranno alla volontà dei padroni. Chi non accetta la cosiddetta ristrutturazione, la riconversione, è condannato all'esilio, al confino dentro l'ILVA, nella Palazzina Laf, appunto. Nei corridoi e nelle stanze solo donne e uomini da ridurre a corpi senza intelletto, ridotti a giocare con una palla di carta.
SOLO Caterino non si rende conto della situazione. Pensa che quel luogo sia un paradiso dove è stata abolita la fatica. Sarà solo questione di tempo. Anche lui, farà le sue esperienze, si avvicinerà all'orrore di esistenze condannate al silenzio e all'inazione. E così dopo Paola Cortellesi, anche Riondino sceglie la via della regia per incitare a osservare criticamente un presente radicato in un orribile passato.

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Vedendo il film lo spettatore è costantemente posto di fronte alla questione che riguarda le potenzialità evolutive di Caterino La Manna, così si chiama il personaggio interpretato da Riondino: arriverà insomma Caterino a rendersi conto dell’universo disumano e distopico in cui è precipitato, saprà sfruttare l’occasione di crescita morale e civica che in fondo gli è stata data oppure resterà quell’imbecille che è sempre stato? Non rivelerò quale sua stata la scelta del regista. Ciò che tuttavia va detto è che questo è l’unico autentico potenziale drammaturgico del film (ché per il resto gli altri personaggi sono rappresentati in modo decisamente univoco: le vittime e i carnefici, i buoni e i cattivi) e che su questo, appunto unico, snodo drammaturgico il film si sofferma un po’ troppo, ingenerando qua e là una certa noia alla quale poco aggiunge la vicenda privata di Caterino, la sua relazione con la fidanzata e tutto il resto. In altre parole la scelta di non girare un documentario ma un film di finzione non è, a mio avviso, supportata da una sceneggiatura adeguatamente solida.  Peccato, perché, invece sul piano della regia piuttosto varia, della recitazione, della fotografia (molto anni ’90, colori giallo-marroncini-grigiastri), dei costumi, della scenografia (molto è stato girato a Piombino), della musica (Teho Teardo) il film funziona, tutto sommato, piuttosto bene.

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Il modo in cui Riondino gioca col tono di Palazzina LAF, tenendo sempre in equilibrio la commedia e il dramma, il grottesco e il surreale, l’astrazione e la denuncia, è il punto di forza principale del film, e la ragione per cui ciò che gli sta evidentemente a cuore, ovvero il risvolto sociale e politico, riesce a funzionare così bene, senza risultare mai pesante o stucchevole per lo spettatore.
Ancora un volta, il segreto sta nella cura per il dettaglio, che ovviamente non si esaurisce solo nel nome di Caterino Lamanna.
La cura del dettaglio, in Palazzina LAF, la si vede nella scelta dei volti e degli attori, tanto per cominciare: anche per quelli che magari vediamo solo due volte, come nel caso di Paolo Pierobon, ma ovviamente anche in quelli che stanno spesso sullo schermo, da Michele Sinisi a Gianni D’Addario, da Vanessa Scalera a Marina Limosani.
Ma la si vede in un vecchio impianto stereo che mangia le cassette, nel trucco e nel parrucco, nelle cose che vengono dette solo con gli sguardi, nei fiori piantati dentro vecchie scatole di latta.
La si vede nel modo in cui Riondino, dimostrando anche un buon occhio per le inquadrature, racconta, da vicino e da lontano, la fabbrica e una città, le loro mille contraddizioni e l’eredità tossica con cui devono convivere, attraverso le immagini.

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domenica 3 dicembre 2023

Per Elisa - Il caso Claps - Marco Pontecorvo

un film in sei parti (si chiama serie tv) racconta la storia di Elisa Claps, quella terribile omicidio con la scoperta del cadavere un bel po' di anni dopo.

bravi attori con un bravo regista, si ricostruisce tutta la vicenda, e la scoperta della verità grazie alla testardaggine del fratello Gildo.

un bel film che non delude, promesso.

buona (lucana) visione - Ismaele


 

 

QUI si può vedere la serie completa, su Raiplay

 

l’ottimo lavoro del team di produzione, del regista e degli attori ha alzato l’asticella della fiction ben sopra la media di quelle di Mamma Rai. Anzi, a nostro giudizio è uno dei migliori prodotti seriali di quest’anno, che racconta egregiamente una storia vera sollevando dubbi su malcelate complicità e responsabilità che non sono stati ancora risolti da quando furono ritrovati i resti della povera Elisa.

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La rappresentazione parteggia apertamente per lei, sin dal titolo, che è una citazione di Beethoven ma anche una dedica, per Elisa ovvero per risarcire Elisa. La vicenda si srotola nel tempo in modo filologico, a partire dalla ricostruzione dei fatti, con un re-enactment della ragazza che riceve in dono e indossa il famoso maglione bianco, con cui appare nelle foto e con il quale fu uccisa. Detto questo, la produzione sconta inevitabilmente i legacci della fiction Rai, che assolve l’intento divulgativo e di denuncia, ma a tratti barcolla vistosamente sul piano di scrittura e messinscena. Un esempio banale: nel secondo episodio, vediamo la sorella di Restivo col fidanzato che passeggiano in centro, scrutati dagli sguardi indagatori dei coetanei perché toccati dal sospetto, e lui si rivolge a lei: “Stasera ti porto nel tuo ristorantino preferito”. Una linea di dialogo banalmente esplicativa, anti-naturalistica, qualcosa che nessuno direbbe mai nella realtà e che serve solo a imboccare lo spettatore della prima serata. Ecco, così è costruito Per Elisa e forse non potrebbe essere altrimenti, poiché l’esigenza primaria è quella di spiegare cos’è successo. La regia si concede dei ralenti sul volto di Elisa, come per storicizzarla, per renderla commovente, ed evita l’istante della morte scegliendo l’ellissi, relegando la violenza sempre fuori campo…

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Per Elisa. Il caso Claps è un fiction Rai da prima serata che non fa sconti a nessuno: Danilo Restivo è un assassino con una famiglia burattinaia e scellerata alle spalle; la Chiesa, con le verità nascostedi don Mimì Sabia, ne esce alquanto malconcia; il concetto di giustizia, considerando come si sono mossi inquirenti e magistrati, dà l’idea di essere privilegio di pochi. 

Solo la caparbietà della famiglia Claps , in particolare di Gildo fratello di Elisa che ha dedicato la sua vita alla ricerca della veritàe  di Filomena combattiva mamma di Elisa che non si è mai arresa , ha fatto sì che l’attenzione si mantenesse alta per trent’anni e che si sia potuto scoprire cosa sia successo a Potenza quel maledetto giorno di settembre.

Altro merito che va alla famiglia, e questo è ben spiegato nella fiction, è l’aver contribuito a cambiare una legge, quella che non si poteva indagare prima delle quarantottore trascorse dopo la denuncia della scomparsa e si sa bene quanto possano essere fondamentali per le indagini le prime ore.

Un caso che poteva risolversi in poche ore e che invece una volontà omertosa ha trascinato i fatti fino ai nostri giorni, con lati oscuri ancora da chiarire. Una volontà che pretendeva si dimenticasse la scomparsa di una figlia, di una sorella, di un’amica, di una dolcissima ragazza di sedici anni la cui unica colpa è stata quella di aver incontrato un mostro. 

Un mostro che la famiglia Claps accusa fin dalle prime ore, così come viene mostrato nella fiction, ma inchiodato alle sue responsabilità molti anni dopo solo perché uccide di nuovo, Heather Barnett, madre di due adolescenti, in Inghilterra dove si è rifugiato con l’aiuto della famiglia Restivo. Danilo è una personalità disturbata, ma ancora più disturbati il padre, la madre e la sorella che occultano la pericolosità di un siffatto individuo…

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sabato 2 dicembre 2023

Circeo - Andrea Molaioli

Circeo è una miniserie televisiva italiana del 2022, creata da Flaminia Gressi e diretta da Andrea Molaioli 

il massacro della villetta del Circeo è solo una piccola parte del film (in sei parti, le chiamano serie tv), la gran parte è la lotta in tribunale e la lotta del movimento delle donne per leggi decenti.

è quindi un film politico, di quelli fatti bene.

bravissime Ambrosia Caldarelli (che interpreta Donatella) e Greta Scarano (l'avvocato), molto del merito della qualità del film è loro (senza togliere niente a nessuno).

non perdetevelo, se lo merita.

buona (femminista) visione - Ismaele


 

 

QUI la serie completa, su Rayplay



 

Circeo poteva presentarsi sulla carta come la solita serie Rai con al centro una vicenda che ha segnato il passato politico e sociale dell’Italia, ma già dal primo episodio si capisce che così non è.

La prima grande scelta operata dalla serie è quella di non concentrarsi sul massacro da cui prende le mosse, circoscrivendolo solo al primo episodio, in modo tale che la violenza subita dalle ragazze non diventi il fulcro del racconto, ma sia funzionale solo per introdurre la vicenda. Concentrarsi sulla ricostruzione del massacro sarebbe stata la cosa più facile da fare, andando così a stimolare l’interesse del pubblico per il racconto di storie violente, sempre più crescente e diffuso.

Le sceneggiatrici decidono di prendere un’altra strada e puntare l’attenzione su ciò che il massacro ha scatenato, sul processo che ne è seguito e sull’importanza lunga che ha avuto, così facendo si evita di cadere in quella pornografia della violenza purtroppo tanto diffusa, anche al di fuori dei prodotti seriali, per esempio sulle pagine di cronaca.

Ciò che non viene mostrato assume una grandezza immane che pesa su Donatella Colasanti, e sul pubblico, molto più di quanto avrebbe fatto se ci fosse stata mostrata. Noi spettatori siamo a conoscenza di ciò che avviene nella villa già prima di guardare Circeo, ma la scelta di non mettere in scena la violenza fa in modo che quella violenza sia da noi concepita in maniera ancora più orribile e terrificante.

Quando Donatella Colasanti racconta, noi visualizziamo ciò che non abbiamo visto in precedenza, e quando le viene chiesto di raccontare di nuovo anche a noi sembra una richiesta troppo estenuante e dolorosa.

Circeo sceglie di mostrare il dolore e le conseguenze postume della violenza e dello stupro subiti da una ragazza, operando questo spostamento, mettendo in atto questa scelta apparentemente semplice, diventa un’altra serie da ciò che poteva essere e ci mostra una realtà altra, più interessante, vitale e necessaria…

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…La produzione è molto delicata, non solo per il fatto di cronaca scelto, ma soprattutto per l’angolazione adottata da cui narrare la vicenda. La missione di Circeo era quella di far comprendere quanto la risonanza mediatica del caso di Donatella sia stata importante nella lotta per i diritti delle donne e globalmente l’obiettivo è stato raggiunto. Non mancano, chiaramente, alcuni difetti qua e là, come ad esempio la gestione dei salti temporali o la caratterizzazione dei personaggi secondari, ma sono dettagli che su cui si può soprassedere.

L’elemento più interessante, che al contempo è quello più ambizioso, sta proprio nel coniugare il trauma di Donatella e la lotta femminista. Due elementi che coesistono soprattutto grazie alla figura di Teresa Capogrossi, un innesto che funziona alla grande, che rende più armonico il tutto. Grande merito va anche, non ci stancheremo mai di dirlo, a una bravissima Greta Scarano, sempre più grande protagonista della serialità italiana. Circeo in fin dei conti funziona perché restituisce uno spaccato non solo di un fatto di cronaca, ma di un intero periodo storico…

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venerdì 1 dicembre 2023

Only the animals - Storie di spiriti amanti (Seules les bêtes) - Dominik Moll

un puzzle che si completa man mano che la storia viene raccontata dalla parte di ciasun protagonista, e quello che sembrava inconoscibile continua a esserlo per la polizia, ma non per chi guarda il film.

nessuno è felice e quello che fa per raggiungerla porta alla disperazione, all'insuccesso, a un'infelicità ancora maggiore.

un gran bel film, che non annoia un attimo, e solo la parola fine mette termine a tante avventure apparentemente senza motivo.

ottimi attori nelle mani di un regista davvero bravo e di una sceneggiatura che cattura lo spettatore.

buona (infelice) visione - Ismaele



 

 Figure di provenienza geografica e di estrazione sociale diverse, ma accomunate dal desiderio di abbandonare il proprio grigiore esistenziale, di trovare qualcosa o qualcuno che possa illuminare e dare un senso alle loro vite. Eppure ciascuno rimane sempre irrimediabilmente concentrato su sé stesso: ogni punto di vista è parziale, ogni personaggio legge la realtà con i propri occhi, alla luce dei propri bisogni, dei propri desideri, e questo comporta tutta una serie di incomprensioni e di equivoci che finiranno per degenerare.

La verità, insomma, è preclusa ai nostri protagonisti, tutti vittime dei loro piccoli mondi; solo lo spettatore, al termine dell’ultimo capitolo, avrà una visione completa di quel che è accaduto.

Only the Animals riesce dunque a fondere sapientemente le sue due anime: avvincente racconto giallo, ma anche interessante spaccato sociale. Mai come oggi siamo tutti connessi, eppure mai come oggi siamo tutti soli

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Una película llena de misterio y suspense, que crea un juego oscuro, donde las piezas van juntándose para impactar al espectador hasta el final. El guion nada en una estructura narrativa llena de matices, junto con un trabajo técnico es maravilloso. Ambos forman un combo extraordinario. El resultado global es fascinante. Un reparto coral con una calidad interpretativa excelente, con un uso de la expresividad y la presencia escénica soberbio. Un embrujo cautivador y atrayente, con una atmósfera sombría y compleja, que arrasa en su remolino de sensaciones.

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La aclamada novela homónima del escritor francés e ingeniero agrónomo Colin Niel, Solo las Bestias (Seules les Bêtes), publicada en 2017 y reeditada en francés en 2019 debido al éxito de la adaptación cinematográfica, le sirve como punto de partida al realizador Dominik Moll para construir un film con una estructura multidimensional deudora de Rashomon (1950), la extraordinaria historia del escritor japonés Ryûnosuke Akutagawa llevada al cine por Akira Kurosawa, que analiza la vida en el campo, el amor en tiempos de Internet, las estafas cibernéticas y la asfixiante necesidad de cariño del ser humano.

 

¿Qué conecta a un joven en la capital económica de Costa de Marfil y una pareja de empresarios agropecuarios en la campiña francesa? En medio de una cruda tormenta de nieve una mujer oriunda de París (Valeria Bruni-Tedeschi) desaparece en el camino hacia su casa de invierno en un pueblo rural de montaña. Alice (Laure Calamy), una agente de seguros local, nota a su amante, Joseph (Damien Bonnard), un retraído hombre de campo, distraído cuando lo va a visitar a su granja para asesorarlo y tener sexo. El esposo de Alice, Michel (Denis Ménochet), también desaparece unos días después tras aparecer golpeado y comportarse extrañamente. Alice piensa que su marido tuvo un altercado con Joseph, pero no sospecha la conexión que se abre entre todos los personajes de esta caleidoscópica película que incluye a una bella camarera francesa, Marion (Nadia Tereszkiewicz), y a un joven estafador de Costa de Marfil, Armand (Guy Roger ‘Bibisse’ N’Drin), que intenta ganar dinero aprovechándose de incautos cibernautas para recuperar a su ex novia.

 

Estos seis personajes serán los protagonistas de una trama de misterio y crimen que parte del deseo de ser amado para adentrarse en las oscuras aguas de la shockeante desilusión que la vida le depara a los románticos soñadores. Cada uno de estos personajes vive en una desesperante soledad con la que lidia a su intrincada e íntima manera. Moll teje deliciosamente una tela de araña con flashbacks que revelan la equivocación que pesa sobre las incautas víctimas del destino en materia de lo que acontece a su alrededor. De esta forma el espectador descubre en este rompecabezas cómo su visión de la trama cambia y cómo el mundo de las apariencias corre la cortina de lo oculto para ofrecer nuevas perspectivas desde las cuales apreciar los acontecimientos…

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Dominik Moll, director de estas cinco mini historias, adaptando la premiada novela de Colin Niel, con el mismo título, roza en ocasiones intenciones varias de los Hermanos Coen en ejemplos como Fargodonde las personas acaparan toda la atención y monta un rompecabezas en el que las piezas en un principio no parecen encajar unas en otras pero que al final muestran una forma definitiva demasiado regular y predecible. Todo lo que parece no tener sentido, en el fondo si lo tiene, todo lo que se vende en ocasiones como coincidencia para nada adolece de ese mal sino que se sustenta en un cuidado guion sin mancha ni trampa de cartón.

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giovedì 30 novembre 2023

La propaganda di Hollywood a beneficio dell’immagine USA - John Kleeves

 

FORREST GUMP E JEAN SEBERG

La propaganda di Hollywood a beneficio dell’immagine USA

di John Kleeves

dal sito sitoaurora.altervista.org
(l’articolo è stato scritto nel 1999!)

Due premesse:

La prima è la mia solita: io sostengo che la filmografia statunitense ("Hollywood") è una filmografia di Stato, controllata sin nei dettagli dalla United States Information Agency (USIA), un’Agenzia federale pubblica nell’esistenza ma segreta nell’operatività (come la CIA) istituita nel 1953 allo scopo di creare nel pubblico internazionale una precisa ancorché falsa immagine degli Stati Uniti.

L’Agenzia, che non si occupa solo di Hollywood, ora conta sui 30.000 dipendenti ed ha sede al 301 IV South West Street di Washington; il direttore si chiama Joseph Duffey. Il fatto che i critici cinematografici di professione abbiano mancato di notare tale collegamento dipende dalla loro visuale limitata, e da una acquiescenza con la Grande Potenza che ha fatto loro reprimere – più o meno consciamente – quei sospetti sull’indipendenza di Hollywood che sicuramente spesso gli affioravano in mente (non si fa carriera nei media italiani dicendo verità sgradite agli Stati Uniti). Io dunque analizzo i film di Hollywood per mostrare al pubblico gli elementi di propaganda politica e culturale di cui sono stati caricati dall’USIA.

Mi pare la prima cosa che si debba dire di questi film. La seconda premessa è una rapida biografia di Jean Seberg, necessaria perché pochi ricordano questa attrice eppure grande diva degli anni Sessanta. La Seberg nacque il 13 novembre 1938 a Marshalltown (Iowa). Giovane bellissima e assai fine, che portava i capelli biondi tagliati un po’ corti, debuttò nel 1957 con Saint Joan (Santa Giovanna) di O. Preminger e quindi lavorò regolarmente.

Fra gli altri film ricordiamo Bonjour Tristesse (Idem, 1958) sempre di Preminger; The Mouse That Roared (Il ruggito del topo, 1958) di J. Arnold, con P. Sellers; A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) di J.L. Godard, con J.P. Belmondo; A Fine Madness (Una splendida canaglia, 1967) di I. Kershner, con S. Connery; Pendulum (Idem, 1969) di G. Schaefer, con G. Peppard. Per la fine dei Sessanta era una diva conclamata, al livello di Jane Fonda, e arrivò all’apice nel 1970, quando uscirono ben quattro film che la vedevano protagonista: il grande successo Airport (Idem) di G. Seaton, con B. Lancaster, D. Martin, V. Heflin, J. Bisset e G. Kennedy; Paint Your Wagon (La ballata della città senza nome) di J. Logan, con C. Eastwood e L. Marvin; Macho Callaghan (Idem) di B. Kowalski, con L.J. Cobb; e la produzione italiana Ondata di calore di Nelo Risi.

Erano però gli anni del movimento per i diritti civili dei neri e delle Pantere Nere.

L’FBI era stato incaricato dal Congresso di eliminare tali movimenti, usando i mezzi repressivi consueti per il regime statunitense: false accuse giudiziarie; persecuzioni dell’IRS (Internal Revenue Service, il fisco americano) e della DEA (Drug Enforcement Agency, l’antinarcotici); licenziamenti da parte dei datori di lavoro; diffamazioni; omicidi anonimi per strada compiuti da agenti travestiti.

Il programma preparato dall’FBI in merito era stato chiamato COINTELPRO, e in base ad esso erano stati fatti assassinare Malcom X nel 1965 e Martin Luther King nel 1968, mentre entro i primi anni Settanta tutti gli elementi trainanti – per un totale di alcune decine – venivano soppressi con agguati in strada (Huey Newton sfuggì sino al 1983, quando fu ucciso a Los Angeles; Abbie Hofmann riparò all’estero ma nel 1989 tornò e fu ucciso con una iniezione che provoca un arresto cardiaco senza lasciare tracce; Bobby Seale fu incarcerato sino al 1997; Ira Einhorn, latitante all’estero dal 1979 perché accusato di aver ucciso la sua ragazza Holly Maddox, uccisa invece si sa da chi, è stato fermato in Francia nel gennaio del 1999 e attende l’esame della richiesta di estradizione degli Stati Uniti) [E’ stato poi condannato all’ergastolo per l’uccisione della Maddox, uccisa in realtà da agenti della CIA che volevano incriminarlo, come inutilmente sostenuto dalla difesa nel corso del processo, NdR].

La tecnica della diffamazione veniva usata con larghezza.

Nel 1967 il produttore Robert Maheu fabbricò per conto dell’FBI, di cui era informatore abituale, uno spezzone porno apparentemente ripreso da una telecamera nascosta, dove protagonista era un sosia di King. Si era trattato di una operazione del tutto analoga a quella compiuta nel 1957 nei confronti del presidente dell’Indonesia Sukarno, sempre realizzata tramite Maheu. Anche la cantante Eartha Kitt subì trattamenti del genere nell’ambito di COINTELPRO.

La Seberg in privato era sempre stata simpatizzante del movimento dei neri e raggiunta la grande notorietà nel 1970 pensò di usarla per pubblicizzare la causa.

L’FBI la inserì nelle liste di COINTELPRO, e poco dopo venne da sé una occasione di diffamazione: la Seberg era incinta e al momento adatto l’FBI concertò una campagna di stampa insinuando che il padre era un leader delle Pantere Nere.

Appresa la notizia la Seberg entrò nelle doglie e diede alla luce un bambino prematuro che morì tre giorni dopo, l’8 settembre 1970. La donna, sgomenta per tanta malvagità, non riuscì mai a superare il trauma; tentò subito il suicidio, e di lì in poi avrebbe ripetuto il rito ad ogni anniversario della morte del piccolo. Intanto tutti in America l’avevano abbandonata; nessun produttore poteva offrirle parti, nessuno dei colleghi di ieri – Eastwood, Lancaster, Marvin, Peppard, Connery, Sellers e così via – si azzardò ad offrirle sostegno, anche solo morale.

La Seberg fu portata in Europa, dove alcuni cercarono di aiutarla facendola lavorare. Girò così l’italiano Questa specie d’amore (1971) di A. Bevilacqua, con U. Tognazzi e F. Rey; il francese Kill (1971) di R. Gary, con J. Mason e S. Boyd; lo spagnolo L’altra casa ai margini del bosco (1973) di J.A. Bardem; il francese L’attentato (1973) di Y. Boisset, con J.L. Trintignant, M. Piccoli, P. Noiret, G.M. Volontè; il nominalmente anglo-americano Il gatto e il topo (1974) di D. Petrie, prodotto per la TV dall’amica Aida Young; il francese Prossima apertura casa di piacere (1974) di D. Berry. Il suo ultimo film, il trentesimo della carriera, fu Bianchi cavalli d’agosto (1975) di R. Del Balzo.

L’8 settembre 1979, a Parigi, il suo decimo tentativo riusciva e moriva suicida. Da allora l’USIA ostacolò la riprogrammazione dei suoi film ovunque potè, certo in Italia, perché la gente non doveva focalizzare sulla donna e la sua vicenda. Ecco perché pochi ora ricordano Jean Seberg.

Si può anche notare che Paolo Limiti, un adoratore di Hollywood e delle sue bionde star del passato, nella sua trasmissione su Rete 2 " Ci vediamo in TV " non nomina mai questa attrice.

Siamo pronti per Forrest Gump.

E’ un film inquietante e pericolosissimo, perché non solo oltremodo carico di propaganda politica e culturale, ma anche costruito con tecniche subliminali sopraffine e atte a danneggiare.

Racconta la singolare vita di un americano di nome Forrest Gump, semi ritardato e da bambino poliomielitico, cui capita di avere contatti pure fugaci con molti grandi personaggi e di partecipare agli eventi storici nodali del suo tempo. In pratica tramite Forrest si fa una carrellata di trenta anni di storia americana, diciamo dal 1955 al 1985, dandone senza farsi accorgere una valutazione precisa. Il film è del 1994 ed è anche stato trasmesso dalla televisione di Stato italiana, per cui non è necessario dilungarsi sulla trama.

Ecco gli elementi di propaganda intenzionale che sono presenti nel film:

1 – Forrest è descritto come gli USA vorrebbero che il mondo credesse l’americano tipico: forse poco intelligente ma onesto e ben intenzionato, candido sino all’ingenuità; uno che se fa il male lo fa per stupidità o per eccesso di zelo.

E’ propaganda culturale, perché l’americano tipico è l’opposto; è astuto, cinico e mal intenzionato, e quando fa il male – pur ridendo, come in genere – sa di farlo. Serve perché gli americani amano fare gli sprovveduti per "non pagare il dazio", come si dice qui: dopo avere compiuto una nefandezza, mettiamo un colpo di Stato o una strage di civili, sono dispostissimi ad attribuirla al loro "zelo anticomunista" forse eccessivo, a "informazioni incomplete o sbagliate", a "bombe intelligenti" che con falsa ritrosia ammettono qualche volta difettose, anche a pura e semplice dabbenaggine.

Tutto pur di non dire: abbiamo sovvertito e abbiamo ucciso perché così avevamo programmato per la nostra convenienza. Non dico che non esistano americani come il Forrest del film. Esistono in verità, e si possono anche prendere a modello per un film. Frank Capra lo ha fatto molte volte. Ma averne inserito uno come protagonista di un film come questo non può che essere una scelta precisa e maliziosa.

2 – Attraverso l’abile montaggio di filmati d’epoca vediamo Forrest in contatto con i presidenti Kennedy, Johnson e Nixon. Ci sono più strati di falsità. Sono presentati come incontri di un uomo comune con il Potere incarnato e così si dice implicitamente che i presidenti americani comandano. I presidenti americani invece non contano proprio niente. Il Potere negli Stati Uniti è detenuto dall’establishment imprenditoriale, in particolare dalle Multinazionali, e il presidente è solo un impiegato incaricato di fare i loro precisi interessi nel mondo, il che è la definizione di sempre della politica estera americana.

Gli Stati Uniti in effetti non sono una repubblica presidenziale; sono una dittatura dell’imprenditoria. Dire o suggerire che i presidenti americani comandano è propaganda. Quindi si presentano i tre presidenti secondo i soliti cliché: Kennedy idealista, democratico, ben intenzionato; Johnson populista, democratico, ben intenzionato; Nixon, disonesto, poco democratico, male intenzionato (e perciò sarebbe stato allontanato dalla carica, e cioè licenziato). Tutto falso: erano dei presidenti americani e perciò erano tutti uguali, tutti dediti a fare gli interessi all’estero dell’establishment, con i soliti metodi spietati.

Kennedy fece uccidere Ngo Din Diem; tentò di fare altrettanto con Castro (per 20 volte secondo quest’ultimo); diede impulso alla sovversione in Indocina; fece preparare l’orrendo programma quadro di manipolazione psicologica di massa che fu chiamato in suo onore CAMELOT (come i media americani chiamavano Kennedy, perché era " nobile " e " senza macchia " come un cavaliere della Tavola Rotonda; il programma The Quartered Man che fu usato dalla CIA per il colpo di Stato in Cile del 1973 faceva parte di CAMELOT).

Johnson fece mettere in scena l’incidente del Golfo del Tonchino e poi iniziò quei bombardamenti di civili in Indocina che alla fine, tirate le somme, avrebbero provocato 6 milioni di morti. Nixon era come loro, giusto meno simpatico, e fu licenziato solo perché aveva sancito la sconfitta nella Guerra del Vietnam.

3 – La sensazione della democraticità del sistema americano pervade tutto il film. Lo fa in maniera indiretta, dandola per talmente scontata da non meritare evidenziazioni. Come detto gli USA non sono affatto una democrazia. Sono un sistema totalitario, che si regge sull’esclusione dal voto di più della metà della popolazione e sulla repressione del dissenso. Sopra l’ho chiamata una dittatura dell’imprenditoria, e dire o suggerire che sono una democrazia è propaganda.

4 – Durante una manifestazione di "hippies" e di neri a Washington un uomo un po’ anziano e in divisa stacca goffamente la spina del megafono dell’oratore di turno.

E’ una inserzione di propaganda subliminale: suggerisce che eventuali boicottaggi alle manifestazioni progressiste degli anni Sessanta – dei pacifisti, dei figli dei fiori, dei neri – furono dovute ad iniziative estemporanee e personali di singoli benpensanti, sia pure magari appartenenti a qualche corpo statale o federale. Noi abbiamo invece avuto modo di vedere a proposito del movimento per i diritti civili dei neri che si trattò di ben altro, che si trattò di una repressione ufficiale, e violentissima benché surrettizia, ordinata dal Congresso.

5 – Nel film i movimenti degli hippies pacifisti e dei neri per i diritti civili sono potentemente diffamati. I loro happenings sono disordine, schiamazzi, ubriachezza, droga e intemperanze sessuali. Non è certo la parte "buona" dell’America. La parte buona è evidenziata da Forrest, che casualmente capita in una di queste manifestazioni vestito in alta uniforme (è in licenza dal Vietnam, dove faceva il suo dovere; mantiene la divisa perché – ci suggerisce la regia – ne è orgoglioso).

E’ proposto un party delle Pantere Nere, cui partecipa Jenny, l’amata di Forrest: alcool e droga e tutto il resto. Un giovane presentato come comunista, segretario della tal cellula, picchia senza apparente motivo Jenny; si sa come sono i comunisti. La salva Forrest, nella sua divisa. Non sono le opinioni del regista o dei produttori; è la propaganda dell’USIA.

6 – L’USIA ha stabilito nel 1978 con molta precisione come Hollywood deve rappresentare la guerra del Vietnam, sia dal punto di vista politico che militare tecnico. Non posso dilungarmi e mi limito all’essenziale. Politicamente va detto, o dato per sottinteso, che gli USA intervennero per difendere il Sud dalla minaccia comunista. Dal punto di vista militare non andavano assolutamente mostrati i bombardamenti di civili e tutta la guerra andava ridotta a una guerriglia nella foresta, con piccole pattuglie americane che si difendevano da proditori attacchi di elementi non in divisa. Panzane naturalmente, propaganda.

Gli USA intervennero per assicurare alle loro Multinazionali le risorse del paese e dell’Indocina tutta; interessavano particolarmente le foreste di alberi della gomma, buoni per fare i pneumatici. I bombardamenti di civili erano quotidiani, e così per anni. E la guerra fu una classica guerra moderna, risolta non dai guerriglieri Viet Cong ma dalle artiglierie e dalle divisioni corazzate, meccanizzate e di fanteria dell’esercito regolare del Vietnam del Nord.

E’ importante invece fare credere che si sia trattato unicamente di guerriglia: si giustifica in qualche modo l’esito del conflitto. Invece ammettere una guerra "regolare" rivelerebbe una verità che gli USA vogliono nascondere a ogni costo: la congenita e stupefacente debolezza delle loro forze di terra, che non sono in grado di battere nessun avversario, praticamente (nel 1968, l’anno dell’offensiva del Tet, quando i carri armati nord vietnamiti giunsero a Saigon, 540.000 equipaggiatissimi soldati americani appartenenti a 51 divisioni, appoggiati da una potentissima aviazione e serviti da 850.000 ascari sud vietnamiti, avevano a che fare con il seguente avversario: 87.400 regolari nord vietnamiti ripartiti in 10 divisioni, 56.000 Viet Cong, altri 69.000 guerriglieri sciolti, e 50.800 elementi non combattenti addetti a trasporti, sanità, propaganda e così via). Forrest va alla guerra in Vietnam e le sue vicende concordano con la versione USIA, come per tutti gli altri film di Hollywood è ovvio.

Non si parla dei motivi della guerra, ma se ci fosse stato qualcosa di losco l’intelligente e democratico tenente Dan lo avrebbe detto, no?

Quindi il combattimento cui partecipa Forrest è tipico di quanto prescritto dall’USIA: la sua pattuglia cade in una imboscata di guerriglieri. Di carri armati nord vietnamiti che avanzano in file serrate e di carri armati americani abbandonati dagli equipaggi in fuga non c’è traccia.

7 – A parte come un cammeo va trattata una scena di Forrest in Vietnam. In una sequenza di pochi secondi si vede la pattuglia di Forrest avanzare in perlustrazione col fucile spianato in una risaia, fra i contadini sud vietnamiti che rimangono chini a lavorare sulle loro piantine tranquilli, come se niente fosse. E’ una scena di propaganda subliminale. Sembra innocua e invece trasmette un messaggio preciso: che i contadini sud vietnamiti – e i sud vietnamiti in generale – si fidavano degli americani, li consideravano alleati e amici.

Una falsità: i sud vietnamiti, e i contadini in particolare, erano terrorizzati dai soldati americani. Basti ricordare l’episodio di My Lai, una frazione del grosso villaggio sud vietnamita di Song My, dove nel novembre del 1968 la Compagnia "Charlie" dell’Americal Division sterminò tutti gli abitanti perché nei pressi erano attivi guerriglieri Viet Cong; le vittime furono 500, ed erano vecchi, donne e bambini perché gli uomini erano alla pesca. Esiste un filmato dell’operazione, girato da uno dei soldati americani. Da notare che Hollywood non ha mai tratto un film da tale episodio, che pure si presterebbe.

8 – Analoga la scena in cui il reduce tenente Dan presenta la nuova moglie a Forrest: nel doppiaggio italiano è definita una latino americana, ma ha tratti somatici indocinesi, addirittura vietnamiti (messaggio subliminale: i vietnamiti non ci tengono rancore, perché non abbiamo fatto loro nulla di male). Probabilmente, poi, nell’originale inglese la donna è proprio definita " vietnamita " e così è il doppiaggio nei paesi meno evoluti.

9 – Una sottile propaganda culturale è propinata da Forrest podista. Forrest corre a piedi per gli States senza mai dire nulla. La gente pensa che abbia un qualche messaggio da comunicare e diversi giovani cominciano a trotterellargli dietro in attesa. Dopo tre anni e due mesi Forrest finalmente si ferma ed i giovani pendono dalle sue labbra, ma lui dice: "Sono un po’ stanchino. Penso che tornerò a casa".

E’ una irrisione per coloro che attendono qualcosa dai pensatori, dagli ideologi, da tutti quelli che non ritengono soddisfacente il sistema americano e continuano a cercare. Per l’USIA il sistema americano è perfetto e chi spera di trovare alternative è un illuso. Occorre ricordare che un funzionario dell’USIA – uomini e donne culturalmente preparatissimi, veri intellettuali di regime – partecipa alla messa a punto finale della sceneggiatura di ogni film di Hollywood.

10 – Nel film c’è un chiaro elogio del capitalismo americano. Dopo il Vietnam, Forrest e il tenente Dan, uno semi ritardato e l’altro senza gambe, diventano miliardari con la Bubba Shrimp Company. Messaggio subliminale: sono due meritevoli e il sistema – che è giusto – immancabilmente li premia, sia pure dopo averli fatti penare un po’. Si fa di più. Si suggerisce infatti – sempre per via subliminale – che è Dio stesso a guidare tale sistema: provoca una tempesta che elimina la flotta peschereccia della concorrenza.

E’ l’idea fondamentale del Calvinismo, la religione americana: Dio fa arricchire i meritevoli, o gli insondabilmente prediletti, e manda a ramengo gli altri. Segue un po’ di propaganda subliminale a favore della Apple Computers: Forrest e il tenente Dan arricchiscono ulteriormente investendo in azioni di questa Multinazionale, che diventa veicolo di positività e quindi positiva anch’essa.

Diventati capitalisti consolidati i due fanno beneficenza: donano alla parrocchia Protestante locale, alla madre dell’amico nero Bubba morto in Vietnam, e fondano un ospedale a Bayoula, il paesino di pescatori di gamberi rovinati dalla tempesta divina. Nella vicenda è contenuta – di nuovo per via subliminale – una diffamazione dei neri: i pescatori di gamberi di Bayoula (paesino della Louisiana nel delta del Mississippi) sono tutti neri e sempre stati in miseria ma ecco, arrivano due bianchi a fare il loro mestiere e diventano miliardari.

11 – Come si vede il film fa grande uso delle tecniche subliminali per convogliare propaganda. Evidentemente un esperto in materia ha collaborato alla realizzazione dell’opera. Una tecnica subliminale sopraffina in effetti è anche usata per la "normale" costruzione della vicenda. Forrest ha una vita punteggiata da contatti personali, pure fugaci, con grandi personaggi pubblici: conosce Elvis Presley (cui addirittura ispira le caratteristiche movenze); incontra i presidenti John Kennedy, Lyndon Johnson e Richard Nixon (e ne innesca la caduta); partecipa casualmente ad una intervista televisiva di John Lennon; assiste all’attentato al governatore Wallace.

Occorre in qualche modo rendere verosimile tale sequela di eventi pubblici e si ricorre ad altri collegamenti più sotterranei, che riguardano accettabili concatenazioni di eventi sul piano privato e predispongono ad accettare anche quelle a livello pubblico. Il filo conduttore sono gli arti inferiori del corpo umano. Forrest bambino guarisce dalla poliomielite e diventa valido maratoneta. In Vietnam il tenente Dan lo ammonisce come prima cosa a tenere i piedi asciutti (le risaie).

Lo stesso tenente Dan perde proprio le gambe. Il collegamento con la sfera pubblica avviene col governatore Wallace, rimasto paralizzato nell’attentato, e su di una sedia a rotelle come il tenente Dan. Il tenente Dan alla fine cammina con delle protesi che richiamano gli apparecchi portati da Forrest bambino.

12 – E vengo al motivo per cui ho inserito nelle premesse una biografia di Jean Seberg. Perché la figura di Jenny Curran, l’amata di Forrest, è stata costruita in modo da evocare proprio lei. La vicenda di Jenny non è esattamente uguale a quella della Seberg, perché sarebbe troppo scoperto, e quindi inefficace se non controproducente (non sarebbe un’operazione subliminale…).

I punti di contatto però sono molti e qualificanti. Chi è la Jenny proposta nel film? E’ una giovane bionda e bella, sensibile e con propensioni artistiche, tendenzialmente una brava ragazza. Si mette però con gli hippies e i contestatori, e in particolare frequenta le Pantere Nere. Finisce così nella promiscuità e nella droga, e contrae l’AIDS. L’idea del suicidio comincia a farsi strada nella sua mente (la passeggiata sul balcone del grattacielo). Partorisce da single un figlio, che è di Forrest. Dopo qualche anno sposa Forrest e quindi muore.

I collegamenti sono: la collocazione temporale negli anni Sessanta/Settanta; il nome "Jenny" analogo a "Jean "; la somiglianza fisica di Jenny con la Seberg; le sue propensioni artistiche; la sua frequentazione delle Pantere Nere; il tema del suicidio; la gravidanza, e da single; la durata annosa di una angosciosa parabola conclusa con la morte. Questi collegamenti nel subconscio dello spettatore che in un angolo della memoria conserva qualche vaga nozione di Jean Seberg e della sua vicenda provocano con sicurezza l’identificazione, anche se a livello di coscienza non se ne accorge.

Perché è stata compiuta tale operazione?

L’obiettivo propagandistico del film è di proporre gli anni Sessanta/Settanta americani nel senso voluto dal regime; di riabilitarli. Se ci pensiamo sono gli anni peggiori per l’immagine americana dell’intero Novecento: movimento dei diritti civili e sua repressione; contestazione giovanile e sua repressione; Pantere Nere e loro sterminio; guerra del Vietnam e relative bibliche stragi di innocenti.

La vicenda di Jean Seberg fu all’epoca un avvenimento clamoroso, e negativo per il regime quasi come quelli accennati: era opportuno, dato che si facesse un film per riabilitare tutto il periodo, riabilitare anche gli aguzzini della Seberg.

Il personaggio di Jenny infatti riabilita il regime tramite la diffamazione che opera della Seberg. Il subconscio di quegli spettatori in cui si è verificata l’identificazione ragiona con la cieca meccanica che gli è propria: se Jenny è la Seberg allora la Seberg finì male perché con hippies e Pantere Nere imparò la droga e la promiscuità e di lì la disperazione e la gravidanza e il suicidio; non sapevo che avesse anche l’AIDS ma sì, può darsi.

La Seberg è diventata così un personaggio negativo, e se ebbe degli aguzzini questi non furono poi così inescusabili. Il lavorio del subconscio come si sa ha effetti a livello della coscienza (è per questo che l’USIA ricorre così spesso alla tecnica subliminale). Molti lettori italiani potranno obiettare di non aver mai sentito parlare di Jean Seberg. Può darsi, ma altri sì. Ci sono paesi poi dove la vicenda della Seberg ebbe eco maggiore che in Italia, inducendo strascichi più lunghi nella memoria. In Francia ad esempio, e senz’altro negli Stati Uniti; non tutti i critici cinematografici europei inoltre sono come quelli italiani, o come Paolo Limiti. L’USIA quando manipola sceneggiature non pensa solo all’Italia; pensa al mondo.

Povera Jean Seberg. Le diffamazioni dell’FBI l’uccisero. Ora anche le diffamazioni di Hollywood, sulla sua tomba.

Il personaggio di Jenny in Forrest Gump costituisce la prova provata, inoppugnabile, delle interferenze del governo statunitense nei prodotti finiti di Hollywood. In questo caso infatti è esclusa ogni altra ipotesi. Non può essersi trattato delle opinioni personali del regista o dei produttori: che interesse potevano avere Zemeckis, Tisch, Starkey o Finerman a falsificare, e in tale modo subliminale e premeditato – da specialisti della propaganda – la vicenda di Jean Seberg?

Solo l’USIA, per conto del governo statunitense, poteva avere interesse in una tale operazione. E’ la prima volta nella storia di Hollywood che l’attività dell’USIA viene dimostrata. Ciò è stato dovuto a un colpo di fortuna nostro: lo specialista in tecniche subliminali dell’USIA che ha lavorato sul film era troppo bravo ed ha ecceduto nei virtuosismi.

Lo stesso personaggio di Jenny in Forrest Gump rappresenta anche la sentenza più definitiva per i critici cinematografici non solo italiani, ma anche europei: era un messaggio in codice diretto all’inconscio degli spettatori e non l’hanno afferrato. Spero abbiano imparato cosa sono davvero i film di Hollywood.

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