martedì 31 gennaio 2023

Simulation e EctoLife - Hashem Al-Ghaili

 


Produzione in serie di esseri umani: per quanto tempo ancora rimarrà solo una distopia? - Arianna Cavigioli

In perfetto tema natalizio due settimane fa il giovane biotecnologo molecolare, divulgatore scientifico, regista e produttore Hashem Al-Ghaili ha messo in rete un video su un ipotetico futuro scenario in cui i bambini potranno essere coltivati in uteri artificiali all’interno di laboratori. Attraverso un algoritmo viene selezionato l’embrione geneticamente superiore da impiantare in una capsula trasparente che simula l’ambiente uterino. Ogni utero artificiale è pervaso da sensori per monitorare il livello di ossigeno nel sangue, il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la frequenza respiratoria, e rilevare eventuali anomalie genetiche. Grazie all’AI e tramite un’app i genitori possono conoscere in tempo reale e comodamente dal proprio smartphone lo stato (o meglio, i parametri) di salute del bambino, e scegliere suoni vocali o musicali da trasmettere nella capsula uterina. Inoltre, l’utero artificiale è dotato di telecamere a 360 gradi e indossando un visore vr è possibile vedere, toccare e udire quello che percepisce il feto nell’utero artificiale. Una tuta vr, invece, consente di sentire i calci e i movimenti compiuti dal bambino, nutrito al meglio con ormoni, fattori di crescita e anticorpi tramite un cordone ombelicale digitale.

I laboratori di EctoLife garantiscono la “produzione” di 30.000 bambini all’anno, un ottimo risultato se si vuole elevare il numero di nascite in paesi che soffrono di decrescita demografica come Giappone, Bulgaria e Sud Corea; e per fronteggiare il problema delle morti fetali dovute a complicanze in gravidanza, che secondo l’WHO sfiorano i due milioni all’anno. La retorica sottostante al progetto, ovviamente, è filantropica: permetterebbe alle madri a cui è stato rimosso l’utero a causa di malattie tumorali o altre complicazioni di oltrepassare i farraginosi iter burocratici della maternità surrogata. Ma tale speculazione dialettica è costruita ai fini della sponsorizzazione di un prodotto, che si punta a rendere disponibile per ogni coppia o single interessata/o. A conferma di ciò è la possibilità, prima dell’impianto, di programmare geneticamente l’embrione, personalizzando il colore degli occhi, dei capelli, della pelle, la forza fisica, l’altezza, e il livello di intelligenza. È facile da immaginare che ad ognuna di queste scelte in pieno stile The Sims corrisponderà un determinato valore economico. Ma il profitto non si fermerebbe qui, dato che un sistema di nascite tale andrebbe a tessere reti tra investitori in campo farmaceutico (ad esempio per le sostanze nutritive fornite ai feti e ad eventuali terapie rivolte agli stessi), tecnologico (per la strutture biotecnologiche impiegate) e comunicativo-digitale (grazie alle app di monitoraggio e vr). A ciò si aggiunge l’enorme quantità di dati medici e comportamentali che i dispositivi coinvolti possono potenzialmente immagazzinare e successivamente, tutele della privacy a parte, trasformare in valore.

Il video divulgato da Al-Ghaili non si riferisce a uno specifico progetto di ricerca, ma, oltre a voler sollecitare il dibattito su un nuovo modello di genitorialità, si basa su risultati laboratoriali ottenuti o comunque non lontani da raggiungere, e app già in uso per monitorare lo stato di salute del bambino fuori dall’utero.

Recentemente è stato finanziato dall’Unione Europea con un fondo di 3 milioni di euro il progetto PLS (Perinatal Life Support), che punta a realizzare un supporto vitale perinatale funzionante entro 5 anni. Sotto la guida dei ricercatori dell’Università Tecnica di Heindoven, il dispositivo vorrebbe supportare la vita dei “feti pretermine” (prima della 22esima settimana) tramite il loro trasloco in un utero artificiale simulato. All’interno, non sarebbero garantite solo le caratteristiche biologiche quali la presenza di uno pseudo liquido amniotico e sostante nutritive, ma i feti godranno di sensazioni tattili, uditive e olfattive paragonabili a quelle del grembo materno. In questo progetto i test sugli animali non saranno contemplati, perché manichini stampati in 3D e dotati di un vasto range di sensori permetteranno, insieme a modelli computazionali e simulazioni computerizzate ad hoc, di testare e monitorare tutti gli aspetti salienti della gravidanza, prima di immaginare un primo test sull’uomo.

Il PLS è figlio di un altro progetto che nel 2017 ha visto protagonista il Children’s Hospital, a Philadelphia, di cui è stato pubblicato uno studio sulla rivista Nature. Il team di ricercatori americano ha sviluppato la Biobag, una sacca di plastica che simula la protezione offerta dalla placenta, colma di una soluzione elettrolitica che mima il liquido amniotico, e dotata di un tubo che viene collegato al feto in via di sviluppo, per replicare le funzioni del cordone ombelicale, filtrando il sangue dalle scorie e dall’anidride carbonica e arricchendolo di nutrienti e ossigeno. L’esperimento è stato condotto attraverso l’impiego di feti di agnelli che si trovavano in una fase evolutivamente paragonabile ai nati pretermine umani nella soglia di viabilità riconosciuta: 24 settimane. Dopo 4 settimane di incubazione i feti di agnello sono stati estratti sopravvissuti, mostrando una normale crescita somatica, maturazione polmonare, crescita cerebrale e mielinizzazione. I limiti dell’esperimento, tuttavia, come è ben esposto in uno studio del British Medical Journal, riguardano soprattutto il carattere etico e legale del progetto, dato che la tecnica sottesa al Biobag, l’AWT (Artificial Womb Tecnology), non è un’estensione dell’attuale incubatrice, ma qualcosa di completamente nuovo. L’AWT, infatti, ha la capacità di sostituire completamente una funzione umana: replica e sostituisce un processo biologico, piuttosto che tentare un salvataggio.  Questo lo rende, in effetti, un passaggio nel regno dell’automazione. L’incubatrice tradizionale, invece, ha lo scopo di supportare solo quella capacità di vita che il neonato sta già esercitando o sta iniziando a esercitare. Pertanto, il neonato si fa carico di parte del fardello del sostentamento. L’AWT è più vicina alle tecnologie che sostengono gli individui con morte del tronco cerebrale, che alle forme di supporto artificiale fornite ai pazienti in coma con sistemi nervosi funzionanti, che coordinano ancora alcune importanti funzioni corporee. Subentra poi il problema terminologico, nonché etico, sulla denominazione vitale. Innanzitutto il termine “feto” (umano) per ora implica che si trovi all’interno di un gestante umano, e dunque occorre rivedere i termini scientifici. Inoltre, bisognerebbe metter mano anche alla definizione di “viabilità”, ovvero il punto dello sviluppo fetale in cui il feto può sopravvivere al di fuori dell’utero (circa 24 settimane). La viabilità consiste, in molti paesi, nella possibilità per il feto di godere di alcune tutele legali che limitano l’accesso all’aborto, “è un compromesso con la lobby anti-abortista e gli attivisti pro-vita”. Immaginare di spostare la viabilità verso la fase embrionale, comprometterebbe seriamente la possibilità di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza della donna. Infine, se il Biobag, strutturato per accogliere un “feto” che ha meno di 22 settimane, funzionasse meglio dell’incubatrice tradizionale, i medici intravedrebbero maggior valore nel trattamento per i nati pretermine più giovani, sacrificando i pretermine che hanno superato la fascia critica delle 22 settimane.

Spostiamoci, ora, fuori dall’utero, per dare uno sguardo alla digitalizzazione del sapere genitoriale tramite app e dispositivi che monitorano lo stato di salute del bambino: possiamo citare almeno due esempi. Innanzitutto app quali Bebè +, che permettono ai genitori, una volta inseriti i dati sensibili del neonato, di conoscere le sue fasi di crescita, i suoi bisogni, le sue tendenze (espressi tramite parametri standard). Oppure Baby Connect, un tracker all-inclusive per lo sviluppo del bambino che registra il sonno, le poppate, i pannolini e l’umore del bambino in un’interfaccia che consente di scambiare informazioni in tempo reale. Ancora più recente è il software alla base dell’app Tata Digitale, che si prefigge l’obiettivo, tramite la registrazione sonora del pianto neonatale, di decodificarne la natura, indicando al genitore se si tratta di fame, sonno, colichette, dolore fisico o la richiesta di attenzione. Siamo di fronte alla volontà di standardizzare e digitalizzare un sapere pratico, soggettivo e legato all’esperienza diretta come quello della crescita figliale, legato a un cospicuo ricavo economico. Valore economico che si misura soprattutto attraverso l’immensa qualità di dati raccolti, una miniera d’oro nei tempi che corrono.

Ho iniziato l’articolo con una battuta perché fa sorridere la coincidenza temporale tra l’uscita di EctoLife e la vicina nascita di Gesù, ma anche perché le critiche al Transumanesimo che hanno più eco in Occidente sono di matrice cristiana e dunque comunemente intese dalla Sinistra come retrograde. Una strategia della classe dominante legata a interessi economici quali ad esempio quelli della Big Tech, è anche dipingere – tramite la collaborazione con grandi aziende di comunicazione e social network – i dissidenti come fanatici o ignoranti, proprio per ridicolizzare e delegittimare la possibilità stessa di critica. La contro-informazione politica e la possibilità della contestazione dal basso sono seriamente in pericolo, buttate nel calderone del complottismo più becero, anche quando si tratta di analisi basate su fonti accademiche o comunque su ricerche approfondite. Inoltre questa tendenza, che abbiamo visto già protagonista ad esempio a proposito dell’obbligo vaccinale, rispecchia una visione classista che preclude ai “non esperti” la possibilità di esprimersi su questioni così scientifiche da dover essere delegate ad altri, ma le cui conseguenze poi sono vissute sulla pelle della classe dominata.

Dunque, quale analisi per questo Transumanesimo che si vorrebbe estendere perfino alla creazione di esseri umani in laboratorio? Dove sta il profitto e quale è il conseguente modello sociale che ne deriva? Qui siamo ben oltre alla mercificazione del corpo femminile impiegata nella maternità surrogata: proprietà biologiche esclusivamente femminili sono espropriate per creare un ambiente (l’utero artificiale) consono alla coltivazione di esseri umani. Se “surrogare” etimologicamente significa “agire per altri”, (ed è infatti la madre biologica, spesso denominata in modo sminuente “portatrice di embrione”, che si fa carico del fardello della maternità), in un sistema natale simil-Ectolife le azioni della gestazione e della gravidanza sono delegate interamente a un dispositivo biotecnologico di proprietà privata. Il laboratorio/fabbrica trasforma completamente il processo di nascita in un’operazione tecnica: l’embrione è un prodotto da selezionare, migliorare, rifiutare o trasformare. Inoltre, la possibilità di procreare, uno dei pilastri su cui si basa la differenza sessuale, non è più prerogativa del corpo femminile, ma è affidata a un’entourage medica al servizio dei capitali biotech e farmaceutici.

Oltre al profitto legato alla mercificazione di un tale servizio, e al risparmio di un sistema sanitario non più “vincolato” a curare malattie neonatali, è impressionante immaginare la potenziale raccolta di dati e la conseguente sua trasformazione in materiale profittevole tramite diffusione su dispositivi e app. Gli interessi in gioco tra le varie compagnie farmaceutiche e Big Tech non sarebbero conteggiabili.

E cosa comporta in termini sociali l’artificializzazione e la digitalizzazione della gravidanza? Problematiche psicologiche e mediche, connesse al coinvolgimento del corpo nella fase del concepimento, ma anche il fondamentale diritto ai mesi di maternità retribuita è trattato come vero e proprio ostacolo per l’affermazione economica di quel prototipo umano costantemente produttivo e mai a riposo. Il modello sociale che ne consegue, che rappresenta al contempo l’esca perfetta per la sua affermazione, è la fuoriuscita dal proprio corpo di eventuali difficoltà, complicazioni, stress, lesioni, che insieme però al bagaglio esperienziale ed emotivo inspiegabilmente magico della gravidanza ne rappresentano le caratteristiche costitutive e reali. Eliminare il rischio potenziale di essere malati, avere complicanze gravi o sfiorare la possibilità di morte sono il grimaldello propagandistico su cui fondare un tecno-uomo invincibile e sfruttabile in ogni momento dal Capitale.

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lunedì 30 gennaio 2023

Il primo giorno della mia vita – Paolo Genovese

quando vai a vedere questo film sai cosa aspettarti, un’altra versione di La vita è meravigliosa, di Frank Capra (qui si può rivedere), con bravi attori del cinema italiano.

un deus ex machina, anche nel senso che è l’autista, Toni Servillo, un angelo di seconda classe, chissà, ha il compito di convincere a una seconda occasione di vita quattro suicidi.

ci riesce anche, il povero Toni, in parte, ma è il film che non riesce a volare alto, gli attori sono bravi, ma sembrano recitare col freno a mano tirato, il critico Guzzanti-Ghezzi direbbe che il film "arranchia" (qui).

se uno pensa a cosa poteva essere questo film, potrebbe restare deluso.

lasciate ogni aspettativa a casa, il film non vi deluderà, come se fosse un usato garantito.

buona (suicida) visione - Ismaele

 

 

Più in generale, il materiale narrativo – e umano – presente ne Il primo giorno della mia vita avrebbe potuto dar luogo a un’opera più interessante e lucida; il film di Genovese, invece, si ammanta di un coté accattivante (la metallica fotografia di Fabrizio Lucci fa il suo lavoro) ma non si libera di una certa sensazione di incompiutezza, accentuata anche dalla dilatazione della storia e dalla dispersività delle vicende dei personaggi. Alcuni passaggi che avrebbero forse meritato un maggior rilievo (il filmato che raffigura il futuro dei quattro) vengono toccati in modo quasi timido dalla regia, mentre al contrario si calca troppo la mano – in modo non sempre credibile – su altri aspetti (il background familiare del piccolo Daniele). Proprio questi, comunque – interpretato dal piccolo Gabriele Cristini – offre alcuni dei momenti migliori del film, specie nell’interazione con la madre in lutto interpretata da Margherita Buy; i rispettivi personaggi restano probabilmente i più riusciti e credibili, al netto di alcuni dialoghi poco efficaci (il confronto conclusivo tra Arianna e il personaggio di Servillo). Si ha l’impressione, comunque, che il regista non sia riuscito a caricare della necessaria forza emotiva i momenti più pregnanti della storia, al punto che tutto il film pare gravato da una freddezza non voluta, che ne limita in gran parte il potenziale. Un peccato, vista la buona confezione e le ottime potenzialità del soggetto.

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Anche i dialoghi sembrano più declamati che sentiti, più artificiosi che ispirati. Ogni emozione è tenuta a distanza sia dal copione che dalla regia, e i quattro "walking dead" attraversano davvero come zombie questa storia, senza creare la risonanza emotiva necessaria per coinvolgere lo spettatore.
Impossibile non fare un paragone mentale con altri film di tema simile, ma di impatto emotivo infinitamente maggiore, come 
La vita è meravigliosa o La ragazza sul ponte, che rappresentavano la scelta del suicidio come l'estrema ratio di nature profondamente romantiche e idealiste, non come un gesto di inerte disperazione. Forse la chiave di lettura più interessante come cartina di tornasole della contemporaneità è la scelta di fare del "maschio bianco privilegiato" l'elemento più fragile, quello che, pur essendo stato favorito dalla vita per cultura e tradizione, non riesce comunque a darle un senso nel presente.

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…Un cast, quello de Il primo giorno della mia vita, che si giostra alla perfezione seguendo un racconto introspettivo, che parla di problemi di attualità, della disperazione che guida ognuno di noi, chi più chi meno, e di quanto sia difficile combattere i propri demoni, di come la sofferenza ti si appiccica addosso e resta, tanto che finiamo per sentirne la mancanza quando il tempo la porta con sé. Dialoghi precisi e necessari, la scrittura non straborda di parole superflue, come purtroppo spesso succede, riuscendo a lasciare allo spettatore un po’ di respiro per poter provare emozioni.

Unica pecca il finale, che forse toglie un po’ di serietà trasformandosi in qualcosa che non è in linea con tutto il resto. Esageratamente stereotipato, cambia atmosfera e cade nella rete delle commedie all’italiana, tipiche dei film di Gabriele Muccino, dalle quali ci si aspetta sempre la solita minestra, esaltando i momenti cruciali con musiche e battute un po’ banali, perdendo un po’ di vista i dettagli.

Nonostante questa piccola caduta, possiamo tranquillamente dire che Il primo giorno della mia vita è uno di quei film che ci fanno sperare che il cinema italiano torni ai livelli del passato, grazie alla sua eleganza ed estrema attualità, per un tema che non è uno dei più “gettonati” in questo momento particolare, ma che é sempre reale, l’invisibilità della sofferenza e, soprattutto, delle persone che la portano con sé ogni giorno…

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Una regia mai sopra le righe, che delicatamente accompagna lo spettatore per immergersi in un contesto difficile e doloroso ma pieno di significato. Questa organicità delle emozioni fa trascorrere il tempo in un lampo, tra grandi verità, silenzi, gioie, prese di coscienza. Ancora una volta un film che riflette in maniera efficace sul significato della vita.

Usciti dalla sala si ha la sensazione di voler abbracciare tutti, per sentire che non siamo soli, che la sofferenza appartiene a tutti anche se in maniera diversa.

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…Un film che vuole parlare di suicidio in relazione ad un percorso di rinnamoramento alla vita, deve riuscire ad emozionare lo spettatore senza fare leva solo su una lunga sequela di dolori, tragedie e perdite. Senza scomodare il già citato capolavoro di Frank Capra, ciò che scarseggia qui è l’empatia necessaria a far appassionare lo spettatore alla vicenda, e di certo non aiuta la superficialità con cui sono trattate tematiche come il cyberbullismo o l’abuso psicologico in famiglie disfunzionali. Restano oltretutto alcune questioni profonde e molto interessanti affrontate in maniera soltanto parziale, come l’evoluzione del dolore col passare del tempo o l’effettiva libertà di decidere di togliersi la vita. Dilemmi a cui è difficile dare una risposta, ma che sarebbe stato bello affrontare con più attenzione.

Come nel caso di The Place, anche Il primo giorno della mia vita appare come un oggetto escludente, un film da osservare attraverso una grande vetrata che tiene lo spettatore ben al di fuori della storia.

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l’operazione è talmente costruita, posticcia, priva di sincerità, che gli elementi più incongrui – l’arco narrativo del bambino, per esempio – risultano ancora più palesi, complici gli attori che praticamente declamano il copione senza dare vita alle parole. Ci provano un po’ Servillo e Buy, con dei ruoli che molto probabilmente riuscirebbero a fare con un minimo di carisma anche nel sonno, e soprattutto Mastandrea, quello con la materia più verosimile tra le mani in quello che è un susseguirsi di banali peripezie mortifere. Un inizio non esattamente promettente per quella che vorrebbe essere la nuova annata di cinema d’autore di produzione italiana.

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domenica 29 gennaio 2023

Gelecek Uzun Sürer (Il futiro dura per sempre) - Özcan Alper

un film sulla memoria, quella dei curdi ammazzati dall'esercito turco.

Sumru cerca testimonianza degli omicidi, dalle parole dei sopravissuti. 

incontra Ahmet, che recupera le sue interviste ormai dimenticate, che grazie a Sumru tornano a vivere.

l'interesse di Sumru verso quelle storie si incrocia col fatto che il suo ragazzo è entrato in clandestinità, probabilmente è diventato un guerrigliero.

un bel film, niente retorica.

buona (clandestina) visione - Ismaele

 

 

Nel film, Sumru è una studentessa in etnomusicologia originaria di Hopa, nella provincia turca di Artvin, a pochi chilometri dalla frontiera con la Georgia (come il regista stesso, che a Hopa è nato, il personaggio vive a Istanbul e parla anche l’homshetsi, lingua della comunità hemşinli) che parte per un viaggio nel sud-est del Paese per registrare elegie popolari per la sua tesi. Il motivo inconscio del viaggio è anche però quello di avvicinarsi ai luoghi di origine del suo compagno, attivista politico scomparso nel nulla da lungo tempo senza più dare notizie.
Alla ricerca di sopravvissuti alla violenza anti-curda degli ultimi decenni, Sumru registra con empatia testimonianze parlate e cantate, soprattutto di donne che hanno visto i loro amati scomparire nel nulla o venire uccisi. Incontrato Ahmet, venditore ambulante di DVD e cinefilo, Sumru si avventura con lui ancora di più nel luogo e nel tema, avvicinandosi a Hakkâri, nell’Anatolia orientale, città natale del suo compagno. Prima, però, fa tappa a Diyarbakır, città considerata come la Capitale curda dopo l’allontanamento del popolo dai suoi villaggi in Turchia, nella speranza di trovare una sua traccia. Ed è proprio la città a sembrare ferma nel tempo, congelata da un dolore che non permette ai suoi abitanti di affrontare il futuro. La sua ricerca, man mano che si addentrerà nel suo viaggio, si macchierà progressivamente del sangue dei Curdi vittime della repressione turca del recente passato, e mai realmente finita. Le voci rotte di madri, mogli, figlie, recitano un canto di dolore che è difficile dimenticare.
Gelecek uzun sürer è un film sul tema universale della memoria, o sulla sua rimozione, legata a una guerra svoltasi nel pressoché totale disinteresse internazionale, tanto da essere addirittura priva di nome…

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venerdì 27 gennaio 2023

Il tempo dei cavalli ubriachi - Bahman Ghobadi

ci sono film che raccontano la nostra vita, più o meno e film che ti catapultano in un mondo altro, fuori dalla nostra comfort zone.

Il tempo dei cavalli ubriachi, del 2000, è uno di quei film inquietanti che raccontano la vita di bambini che devono lottare per la sopravvivenza, senza sapere cosa succederà nei prossimi dieci minuti.

il mondo è molto pericoloso, se vivi in Iran, ai confini con l'Iraq, dove la vita non vale niente.

tanti film horror sono più rassicuranti de Il tempo dei cavalli ubriachi.

c'è da soffrire, ma è un film di serie AAA+, non ve ne pentirete.

buona (gelida) visione - Ismaele


 

…Vidi  Il tempo dei cavalli ubriachi al cinema e suscitò in me un'emozione fortissima.
 Da allora non l'avevo più rivisto ed ero veramente curioso di sapere se l'impatto emotivo di allora si era mitigato col passare degli anni.
Invece no. Mi sono emozionato a questa storia come la prima volta.
La cinepresa di Ghobadi sembra quasi non raccontare una storia,documenta la realtà alla stessa maniera del neorealismo o della copiosa cinematografia del maestro Kiarostami(di cui è stato assistente).
La sua è pura verità girata a 24 fotogrammi al secondo ( come direbbe Godard), lo sguardo tenero e impaurito di Madi, un ragazzo costretto nel corpo e nel cervello di un bambino, è il simbolo di una lotta costante e dall'esito sempre incerto per riuscire a terminare la giornata.
Verrebbe quasi da distogliere lo sguardo da questo inferno sceso in terra, lembo di terra dimenticato da Dio,  questo non luogo in cui i diritti umani vengono costantemente negati è un urlo alla coscienza di tutti quelli che sono abituati a vivere nell'opulenza senza apprezzarlo .
Molti non sanno neanche che alle soglie del terzo millennio ci sono uomini che vivono con così poco.
Eppure la loro speranza è incrollabile.

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"Il tempo dei cavalli ubriachi" (premiato a Cannes come miglior opera prima) di Bahman Ghodabi (iraniano di etnia curda) è la bellissima storia di un solidissimo amore filiale, quello che tiene uniti questi cinque fratelli sventurati che oppongono agli infausti eventi che gli sono capitati in sorte la fierezza tenera di cuori non ancora corrotti. É assai commovente il sentimento che li lega, la forza che hanno di guardare avanti, l'aiuto vicendevole che prestano al povero Madi, il fatto che questo fratello sfortunato non è lasciato mai solo al suo inevitabile destino ma è accompagnato passo passo lungo una strada che tutti vogliono percorrere insieme, senza che si perda mai la speranza di vederlo guarito e con un trasporto emotivo che sgorga una purezza di spirito davvero encomiabile. Tutto ruota attorno al povero Madi, ogni sforzo è alimentato dal desiderio di non vederlo soccombere alla crudeltà del suo male, ogni azione individuale è sempre tesa alla ricerca di un bene condiviso, mossa da un altruismo che è tanto il frutto di una solidità di valori di vecchia tradizione quanto derivato dalla concreta necessità di compattarsi familiarmente per meglio resistere alle intemperie di un mondo in continua fibrillazione…

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Stupefacente è la simbiosi con il "cavallo": la fatica pesa in modo equivalente sugli umani come sui quadrupedi, mai adibiti a cavalcatura, tutti sono bestie da soma e tutti sono ubriachi di lavoro; anche gli asini per sopportare il freddo vengono ubriacati – almeno una bottiglia di acquavite a testa per ogni viaggio – al punto da diventare ingovernabili nel momento del pericolo, quando un’imboscata getta nella confusione la carovana di contrabbandieri. È il momento di maggior pathos: Eyud è preso dal panico, è palpabile la sua disperata angoscia nel momento in cui è più evidente la sua solitudine nell’affrontare le avversità, momento ancora più cinematografico in quanto è ormai venuta meno la narrazione in voice over della sorella mandata oltre confine a sposarsi, episodio che accentua la solitudine del ragazzo. L’asino ubriaco e imbarazzato dal carico, gli spari delle guardie e il dirupo scosceso, il resto della carovana sparpagliato e in rotta ala ricerca di scampo dalle pallottole: le riprese sono ancora più concitate e fanno uso di molti dettagli sugli sforzi degli uomini e degli animali, le inquadrature brevi e movimentate aumentano a dismisura il senso di smarrimento, le sue urla rotte dal pianto e dalla paura sono richieste di aiuto lancinanti.

Strazianti quanto l’addio a distanza alla sorella-narratrice, il cui matrimonio combinato dallo zio (ennesima umiliazione per Eyud, schiaffeggiato per essersi ribellato) subirà un intoppo, andata in sposa anche lei oltre confine: come ogni merce è stata contrabbandata e pure Madi è stato oggetto di scambio, infatti non segue la sorella, perché la neo-suocera non vuole uno storpio a cui badare, che viene dunque barattato con un mulo, quello stesso da riportare in Iraq per venire venduto. Un’altalena tra i due versanti che non fa altro che annullare le differenze tra un lato e l’altro del confine, dove la fatica di vivere è uguale da qualsiasi punto si guardi.

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…Quello descritto nel film è un mondo di bambini costretti a diventare adulti troppo presto, dove ogni giorno si può restare orfani o saltare su una mina, e dove un quaderno, come quello che Ayoub regala ad Amaneh, sembra il dono più prezioso. Il finale è aperto, lasciando spazio alla speranza ma facendo anche intuire che le sofferenze non sono finite.

La camera a mano di Ghobadi scava nella sofferenza dei personaggi in un film crudo, senza velleità poetiche ma con il preciso e dichiarato obiettivo di denunciare le sofferenze di un intero popolo. Il cinema iraniano si conferma uno dei più vitali sulla scena mondiale; anche se qualcuno comincia ad avere perplessità dovute alla "furbizia" con cui certi film verrebbero confezionati per piacere al pubblico dei festival europei, mi pare che i risultati siano spesso di buon livello. In particolare poi in questo caso, come ad esempio nell’altrettanto bello Sotto la pelle della città visto a Torino e non ancora distribuito in Italia, la partecipazione alla sorte dei personaggi sembra sincera e la denuncia efficace.

Forse non è un capolavoro, sicuramente un film da vedere, soprattutto per chi ancora crede che il Cinema non debba essere solo intrattenimento ma anche arte, cultura, impegno.

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…We see them in the back of a truck returning to their village, and there is a shot that emotionally charges the whole film. Ayoub and Ameneh sit close together, both helping to hold little Madi. Ayoub caresses the hair of the little creature, and Ameneh gently kisses him.

They love their crippled brother, who never speaks throughout the film, who must have regular injections of medicine, who needs an operation, who will probably die within the year even if he gets the operation.

The truck is stopped by guards and impounded. The three siblings struggle together through the snow, separated now from their father. Their existence is more desperate than ever. They become involved with mule-trains that smuggle truck tires over the mountains to Iraq. The high mountain passes are so cold that the mules are given water laced with alcohol, to keep them going--thus the title. Ameneh agrees to marry into a Kurdish family from across the mountains, if they will pay for Madi's operation. What happens then I will not reveal…

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The pathetic and deformed figure of Madi is a key icon in this film. His utter helplessness and doomed condition provide a metaphor for a stunted and ultimately hopeless existence. And yet his family’s solicitousness and loving affection for him is extraordinary. Ayoub and Ameneh are constantly caressing him, buying him presents, and administering medicine to him at all times. This image of loving family bonding for a figure whom other people might pity but still shrink away from is a lasting one and a compelling tribute to Kurdish values. Ameneh and Madi are probably brother-and-sisters in real life, because they have the same last name, Ekhtiar-dini. Indeed there are five credited cast members in the film with that last name. The appealing figure of Ameneh is also a key image in the film. She is the sympathetic, affectionate watcher, the representative of universal innocence that deserves a better and safer future. We can all relate to Ameneh’s plight and to this film.

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mercoledì 25 gennaio 2023

The idol - Hany Abu-Assad

Mohammed ha un dono, una voce angelica.

nella prima parte con la sorella e due compagni forma un gruppo, sono ancora bambini, ma sono a Gaza, poi la sorella muore...

nella seconda parte il giovane Mohammed tenta l'impossibile, partecipare a un talent, Arab Idol, e tra mille vicissitudini e colpi di fortuna riesce anche a vincere.

diventa un simbolo e un ambasciatore di Gaza nel mondo, alla faccia dei razzisti israeliani.

buona (musicale e anti-apartheid) visione - Ismaele

ps: di pochi anni fa è anche un bel film mongolo, nel quale un ragazzino tenta la fortuna dei talent per cantanti e riesce ad arrivare in finale a Ulan Bator.

 

 

 

Nonostante le interessanti premesse poste nella sua prima frazione, The Idol scivola tuttavia successivamente, e nel modo peggiore, su una retorica d’accatto e di scarsa presa emotiva, che non riesce a far scattare l’empatia e dà per scontata l’adesione dello spettatore alla vicenda che trova rappresentata sullo schermo. La sceneggiatura mostra fin dall’inizio la tendenza a presupporre troppo sul piano della partecipazione empatica, facendo già nella prima parte un uso eccessivo delle ellissi narrative (che in certi casi si traducono in veri e propri buchi di trama) per descrivere l’evoluzione della vicenda; nella seconda metà del film, tuttavia, questi difetti si aggravano oltremodo, componendo un racconto schematico, arduo da accettare nelle sue premesse e nel suo svolgimento, privo di credibilità e sostanza narrativa…

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Hany Abu-Assad decide di rappresentare sullo schermo il problema palestinese attraverso una commedia musicale, nella quale, se si presta la giusta attenzione, si ritrovano le difficoltà, i soprusi e le ingiustizie alle quali sono costrette quotidianamente le persone di Gaza, ma lo fa tratteggiando una storia semplice, una favola, attraverso il sogno che la passione e il talento siano in grado di rompere i muri, di essere più forti del filo spinato e delle bombe, che la musica sia in grado di creare unione, che il soave canto di Mohammed sia capace di amplificare la voce di un popolo schiacciato e farla risuonare forte e chiara al di fuori della gabbia palestinese. Purtroppo questa impostazione favolistica ha spesso l’effetto di togliere spessore al personaggio: Mohammed non ha mai una reale difficoltà: ne incontra nel corso del suo cammino, ma sono tutte all’acqua di rose, risolte secondo modalità poco probabili, specialmente in tale contesto. Questo non fa altro che creare problemi di empatia con il protagonista. Certamente una scelta, probabilmente dettata dalla volontà e dalla necessità di creare un’opera accessibile a tutte le fasce di pubblico, che alimenti la speranza di un possibile cambiamento, anche attraverso forme di spettacolo appartenenti a valori culturali antitetici.

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canta il vero Mohammed:

martedì 24 gennaio 2023

EO – Jerzy Skolimowski

mah, ero andato al cinema con tutte le migliori intenzioni del mondo, promettendomi di non fare confronti con un altro film.

e poi inizia Eo, la parti "animali" sono le migliori, sono quelle "umane" un po' dementi, il grassone in porta, i polacchi abbastanza fuori di melone, quella specie di messa con una Isabelle Huppert mezzo pazza.

se il tentativo del regista era quello di dire che la specie umana è perduta, e che prima si estingue meglio è, c'è riuscito benissimo.

nel complesso il film è squilibrato, Eo vede tante follie, stranezze, e alla fine resta confuso come noi, chissà.

e la sua fine sarà quella dei suoi compagni di sventura, non c'è lieto fine.

buona (asinina) visione - Ismaele


Due cose mi hanno sempre sorpreso: l'intelligenza degli animali e la bestialità degli uomini - Tristan Bernard

Proteggere gli animali contro la crudeltà degli uomini, dar loro da mangiare se hanno fame, da bere se hanno sete, correre in loro aiuto se estenuati da fatica o malattia, questa è la più bella virtù del forte verso il debole - Giuseppe Garibaldi

Dopo essere fuggito dalla Polonia occupata dai nazisti, il premio Nobel Isaac Bashevis Singer paragonò i pregiudizi di specie alle «teorie razziste più estremistiche». Singer sosteneva che i diritti degli animali fossero la forma più pura di difesa della giustizia sociale perché gli animali sono i più vulnerabili di tutti gli oppressi. A suo parere i maltrattamenti degli animali erano l'epitome del paradigma morale secondo cui «la forza è diritto». (Jonathan Safran Foer)


 

 

tranne che in un paio di personaggi, di sicuro non verrà mai mostrata empatia umana nè nei confronti di EO nè verso gli altri animali.

In realtà questo mondo manicheo di esseri umani cattivi e animali maltrattati è un pò esso stesso un possibile limite del film. 

Ma, essendo il film una "favola" e volendo insegnare qualcosa credo che questa estremizzazione sia assolutamente perdonabile.
Sì, ok, però i problemi immensi sono altrove.

E no, non posso accettare che davanti queste 3-4 sequenze si possa "soprassedere" e mettere sto film come migliore dell'anno perchè parla di animali ed empatia.

Le scene che riguardano gli esseri umani sono, a dir poco, terribili.

E non parlo di terribili nel senso che mostrano umani terribili (sì, quello fanno, ma va benissimo) ma terribili per come sono state scritte e costruite.

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…Nella sua curiosità verso tutte le possibili potenzialità del digitale, il cinema di Skolimowski smarrisce l’intensità di un cammino cristologico continuamente interrotto, forzatamente deformato, piatto nel mostrare la crudeltà dell’uomo come nella rissa tra tifosi dopo la partita di calcio. Il viaggio, il tentativo di ribellione, la speranza e la rasegnazione di EO vengono risucchiati in un’estetica visiva dove Skolimowski cerca confusamente una strada senza riuscire mai a trovarla. In più ci sono tutti i segni pesanti della co-produzione Italia- Polonia dove tutta la parte nel nostro paese risulta appiccicata, tra Pavarotti di Ridi pagliaccio e lo scontro tra Lorenzo Zurzolo (il protagonista di Baby e Sotto il sole di Riccione) e Isabelle Huppert che rompe i piatti, tra posticcio cinema d’autore italiano e una piatta serie teen Netflix. Quando la dimensione astratta di Skolimowski si raggela, viene fuori un film che spegne tutte quelle pulsioni istintive che hanno caratterizzato tutto il suo miglior cinema. Tra la sua versione di Au hasard Balthazar e la personale rilettura dell’omonimo racconto di Ivan Turgenev in Acque di primavera non c’è tutta questa differenza. Skolimowski spaccia ancora l’esercitazione per sperimentazione. E, come in quel caso, c’è ancora di mezzo l’Italia tra i produttori.

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Ora con Eo vediamo un asino e il suo percorso di vita. La stessa pochezza dell’essere umano, filmata dai colleghi cineasti nei due anni precedenti, con una scrofa e con una vacca, emerge ora prepotente in ‘Eo’, a colori.

Una cosa li accomuna tutti. Sembra che la sensibilità del cinema valga come un monito contro la superficialità del genere umano:  il suo egoismo. La sua auto-celebrazione, la banalità dei suoi interessi, il calcio, le sbornie, la violenza gratuita, lo sfruttamento di animali e risorse, la distruzione di un ecosistema per il proprio tornaconto, sono tutti i temi che emergono da Jerzy Skolimowski, come da Kossakovsky e Arnold.

La valenza di fitta fantasia, illuminazione visiva di Jerzy, mai banale, mai inelegante, sempre sorprendente in ogni inquadratura, fin dal rosso grafico e sanguigno della locandina prescelta o del sapore iconico di certe musiche, genera di sicuro un impatto emotivo indelebile nello spettatore sensibile che, attraverso occhi ed orecchie colpite, presterà attenzione maggiore alla cura e amore degli animali che lo circondano, dopo la visione del film.

Per tutti gli altri sarà meglio l’estinzione di massa.

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EO transmite un mensaje necesario en el momento que vivimos. Es una pieza visualmente hermosa y cruda a la vez. Pudiendo afectar a las personas más aprensivas para con los animales. Sin duda, una película necesaria que deberíamos ver todas las personas por lo menos una vez. La forma en la que está filmada hace imposible que el espectador no se identifique con EO y su duración hace más atractivo su visionado. Sin duda, una película perfecta si se observa desde la perspectiva del mensaje y no del entretenimiento.

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Jerzy Skolimowski, conviene recordarlo, presenta EO a sus 84 años de edad, y ahora mismo cuesta horrores encontrar en el panorama internacional algún cineasta que haga gala de un espíritu tan joven como el suyo. Su nueva experiencia fílmica es una fábula empecinada en viajar, y con ello, a explorar: alcanzar fronteras, superarlas, empujarlas para así seguir avanzando. Hasta que parezca que ya no haya límites; que estos no hayan existido nunca. El cine como máquina de liberador momento perpetuo, pues con total libertad, toma todas y cada una de las decisiones a nivel narrativo y estético. Ahora estamos en un circo, y ahora en un campo de fútbol, y ahora en un bosque, y ahora esto claramente es una película de terror, y ahora una de ciencia-ficción, y ahora toca reírse de la idiosincrasia polaca (o de una civilización extraterrestre), y ahora el tratamiento del sonido nos indica que estamos dentro de la cabeza del asno, y ahora la paleta cromática de la escena pinta lo que bien podría ser un paraje apocalíptico. Hasta llegar a la única zona que aquí puede definirse como línea de meta: allí donde el sense of wonder llama también a un terror desesperante.

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Cuando lo liberan, el burro empieza un viaje por todo el país, allí conocerá a gente buena y mala, pero sobre todo vivirá situaciones desagradables, crueles y violentas. Solo en sus sueños volverá a vivir los buenos momentos que pasó junto a Kasandra. 

El director nos pretende mostrar su particular visión de la Europa actual, en su viaje EO se va encontrando con violentos aficionados de un equipo de fútbol, maltratadores de inmigrantes e incluso un mercado negro de animales. 

La cinta acaba convirtiéndose en un manifiesto contra la explotación, la crueldad y la ciencia tecnológica.
La película funciona gracias a la estupenda fotografía y al poder visual que tienen muchas de sus imágenes. La potente música y la capacidad de Skolimowski para manejar la cámara son otros aspectos a tener muy en cuenta. 

La cinta no es nada complaciente con el espectador, es un cine más experimental, pero muy interesante de ver.

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Skolimowski entreats us to go where the blissfully silent eponymous beast goes using lightweight digital cameras that capture the strange and often brutal behaviour of the people he comes across, viewed through his untranslated perspective with a clinical, even anthropological distance. Played by six different donkeys at different points, EO the protagonist is pure and inscrutable in each of his physical forms, his journey presented without comment until that closing text, which forces us to linger on his soulful eyes whenever they're offered up in close-up.

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Le immagini, per Skolimowski, sono chiamate non a indicare (una via) o a implicare (un significato), bensì a concepire. Inventare. EO trasforma l'antropomorfismo e l'antispecismo in una cascata travolgente di vettori e di colori visivi. Un film selvaggio e ferino come potrebbe esserlo Jodorowsky, di cui sembra replicare anche l'elementarità dell'allegoria. Un film che scende in picchiata e sbanda, che ricorda e ritorna, che assorda e complica. Un film folle, un film non parlato. Un tour de force di purissima e ineducata messa in scena, al di là di qualunque lesa maestà: perché la messa in scena, per Skolimowski, equivale propriamente al senso dell'esistenza dell'asinello EO, è cioè una brutale trance; un'anagogia impetuosa.

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Tra l’incuriosito e il timoroso mi sono dunque recato nella solita Sala Debussy - che accoglie tra le sue comode poltroncine i giornalisti durante i press-screening - per prendere visione di Eo e capire se e come il regista polacco avesse attualizzato Balthazar, se ne avrebbe cambiato il percorso, i simboli, magari persino la morale…

…Al netto di una conclusione traballante - e a mio avviso svilente nei confronti dell’epilogo originale di Bresson - di certo non si può dire che Eo sia un film inguardabile o mal costruito dal punto di vista tecnico-visivo. 

Il mio dubbio resta semplicemente sulla natura concettuale di quest’opera, che nulla sposta rispetto al capolavoro originale, inficiandone invece alcuni puntelli concettuali, facendo soffrire ancora (e da diversi punti di vista) il povero Balthazar.

Pardon: il povero Eo. 

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lunedì 23 gennaio 2023

L'Innocente - Louis Garrel

un film un po' confuso, apparentemente, con colpi di scena uno dopo l'altro, amore filiale e materno, quello verso la miglior amica della vedova e quello verso il nuovo marito (ex)galeotto della madre, tutti amori che "pesano" contemporaneamente sulle spalle di Abel.

il film è divertente, intrigante, sorprendente.

non vuol essere una pietra miliare del cinema, meno male.

e se non cerchi quella pietra non sarai deluso, promesso.

buona (floreale) visione - Ismaele

 

 

 


 

Andare oltre ciò che si vede, soprattutto in un momento storico in cui i ritmi e le possibilità della vita odierna ci portano più facilmente a fermarci in superficie. E in questo senso, l’Arte, espressa tramite la recitazione (di cui Sylvie, come detto, è insegnante), serve proprio a questo: a portare a galla la realtà. Il film si apre con una recita in cui i detenuti si calano nel personaggio di loro stessi: Abel e Clémence sono costretti a recitare per la riuscita di un rocambolesco piano ma nel farlo, sono costretti ad affrontare finalmente una volta per tutte i loro sentimenti. L’innocente è dunque un film che non ha nulla di rivoluzionario o sconvolgente, ma che si dimostra essere ben costruito, onesto e rispettoso nei confronti dello spettatore, e che riesce nel suo intento di essere intelligentemente divertente. E non è poco.

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Sin ser una gran película está claramente hecha para que el gran público disfrute alejado de sus preocupaciones personales. Un guion bien construido, va enlazando secuencias adecuadamente interpretadas, para dejar satisfecho a quien desea encontrar acción, amores, humor y persecuciones. Disfruten sin esperar ni exigir mucho más que distraerse satisfactoriamente.

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Commedia, melodramma e thriller si incontrano così nella struttura de L’innocente, trovando un equilibrio praticamente perfetto, senza sbavature. E il risultato è un film irresistibile, pronto a divertire dal primo all’ultimo fotogramma, capace di intrattenere senza perdere quel retrogusto tenero e amaro che appartiene solo alle storie autentiche

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L’innocente in effetti è un film energico, recitato da attori più che capaci, a partire dalla nostalgia impersonata da Anouk Grinberg (mamma Sylvie), donna sessantenne che sembra aver perduto ogni speranza sull’amore e sulla possibilità di una vita felice, passando per la trasgressione Roschdy Zem (il galeotto, futuro sposo, Michel) che non sembra mai perdersi d’animo, nemmeno davanti alle accuse di Abel (Louis Garrel) preoccupato per la madre incosciente che si trova a dover gestire; finendo poi con Clémence, che pur sembrando un ruolo marginale è in realtà il personaggio meglio riuscito, grazie anche alla favolosa interpretazione di Noémie Merlant, che possiede la giusta dose di ironia e malinconia cavalcando così i due aspetti preponderanti della pellicola.

Pur presentandoci un film che inizialmente potrebbe sembrare confusionario, Garrel compone insieme a Tanguy Viel una sceneggiatura convincente in cui i colpi di scena si alternano a momenti di normalità senza mai però scadere nel banale o nella noia. Un film che diverte ed intrattiene, che non è mai scontato, nemmeno nel finale.

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Amori, sentimento e melodramma non mancano e rappresentano una garanzia per gli appassionati del genere. Notevole però è stavolta il loro utilizzo, anche in chiave metanarrativa, come strumenti "del mestiere" in una rapina, nella quale ovviamente nulla va come dovrebbe per i personaggi mentre tutto fila alla perfezione dal punto di vista cinematografico: una sequenza estesa e calibrata alla perfezione nella regia, nella scrittura e nella recitazione, forse tra le cose migliori firmate fin qui da Garrel.

Già con i precedenti e ben riusciti L'uomo fedele e La crociata Garrel si era costruito un mini-universo personale di cinema intimo e autonomo, che parla di uomini e di donne, di impeto e di passività, e in cui il suo Abel, nome che ritorna, è ormai un alter ego fluido da indossare come un cappotto comodo. La scomparsa di Jean-Claude Carrière, co-sceneggiatore del suo secondo e terzo film, lo lancia su nuove strade che però restano familiari e si ripropongono sotto luce diversa, come quelle su cui in L'innocent si inseguono due furgoni della polizia penitenziaria, con l'idea, ora e sempre, di fare un po' di rumore e dirsi ti amo.

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sabato 21 gennaio 2023

Pari - Dariush Mehrjui

il film è tratto dai racconti di Salinger e dovrebbe essere visto dopo la rilettura di quei racconti.

è successivo a Sara, la protagonista, Niki Karimi, è la stessa attrice, i diversi episodi sono cuciti insieme, per quanto possibile.

è un film non immediato, ma merita,

buona (iraniana-salingeriana) visione - Ismaele


 

In the mid 1990s Dariush Mehrjui made three successive films (Sara, 1993, Pari 1995, and Leila, 1997), each focusing on an Iranian woman trying to find fulfillment in a society not normally attentive to a woman’s efforts towards self-realization. The first two films of this trilogy, Sara and Pari, were based on well-known works of Western literature and adapted to Iranian circumstances. In the case of Sara, which was based on Ibsen’s A Doll’s House, the adaptation was straightforward, since the Iranian social context matched well with the 19th century social environment described by Ibsen. But Pari, which was based on works by J. D. Salinger, was a more difficult stretch, and I would say not so successful. Even so, Pari stands (as does Salinger’s work in general) as an interesting attempt to deal with philosophical/spiritual struggles, and it deserves more than passing consideration.

Normally, I concentrate on a film’s own narrative, as it stands, and pay little attention to its original sources from other media.  However, in this case I will make some explicit comparisons with Salinger’s relevant stories – “Franny” (1955) [1], “Zooey” (1957) [2], and “A Perfect Day for Bananafish” (1948) [3].  Although there are necessary changes to fit Salinger’s stories into an appropriate Iranian context, it is surprising just how closely Mehrjui’s film matches up with Salinger’s work and in some places is almost a literal transcription.  Since Iran had no copyright relations with the United States, there were no contractual agreements made at the time of production.  Nevertheless, Salinger, who was always litigious about his intellectual property privileges, managed to have his lawyers block a planned screening of Pari  in the New York in 1998.

As useful background information for this work, it is worth pointing out that across the relatively sparse literary output over the course of Salinger’s life, many of his stories concern various experiences of the fictional Glass family over a period of years in mid-20th century New York City [4]. In particular, the family focus is on the Glass family’s seven precociously intellectual children, particularly (in descending orders of age) Seymour, Buddy, Zooey and Franny, all of whom appear in altered form in the film Pari.  The 1948 suicide of Seymour Glass, the oldest and most charismatically brilliant of the Glass children, is described in Salinger’s “A Perfect Day for Bananafish”, the story that launched Salinger to literary stardom.  Parts of this story, though in altered form and set later in time, are depicted in Pari.  But for the most part, Pari reflects the two stories, “Franny” and “Zooey”, which Salinger set close together in time in 1955.  Together, those two stories relate the development of Franny’s spiritual crisis, which was occasioned by her reading a 19th century book, The Way of a Pilgrim, which she found on  Seymour’s long unattended bookshelf.  The Way of a Pilgrim and its sequel, The Pilgrim Continues his Way, describe the spiritual journey of a wandering mendicant monk in Russia who finds spiritual bliss by ceaselessly repeating the Jesus Prayer ("Lord Jesus Christ have mercy on me") as a mantra.  Franny, who is about 21 years old, then has long discussions in this connection with her brother Zooey, who is four years older.  Although Seymour had died seven years earlier, considerable reference is made to his strong intellectual influence on both Zooey and Franny in those two stories.

Transferring a written fictional story into film often presents problems to the filmmaker, particularly in connection with how to present cinematically the thoughts of the characters that were described in prose in the original text.  In this respect Salinger’s prose would seem to offer  some advantages, since overt conversations dominate over internal monologues in his stories. But with Salinger, the long conversations are taken to the limit, and in his stories occupy almost the entire story space; there is very little depiction in the way of physical action or movement. Mehrjui does his best to depict as much of this conversational material as possible in cinematic action, but there are limits to what can be accomplished in this respect.  Another issue that had to be dealt with was that Salinger’s stories are anchored in the intellectual New York cultural milieu heavily influenced by its Jewish population [5]. Translating the wise-cracking New York social culture banter into an Iranian Islamic context was a real challenge, which turned out to be only partially met successfully.  Despite these difficulties, though, it is surprising to me to see just how faithful many of the scenes in Pari are to the Salinger’s original text.


In Pari, the principal characters are

  • Pari (Salinger’s Franny) – played by Niki Karimi, who had the lead role of Sara in Mehrjui’s previous outing
  • Dadashi (Salinger’s Zooey) – played by Ali Mosaffa
  • Safa (Salinger’s Buddy) – played by Khosro Shakibai
  • Assad (Salinger’s Seymour) – played by Khosro Shakibai

And the film narrative goes through four stages:

  1. Pari’s Story (essentially Salinger’s “Franny”)
  2. Dadashi’s Story (essentially the first part of Salinger’s “Zooey”)
  3. Assad’s Story (a modified portion of Salinger’s “A Perfect Day for Bananafish”)
  4. Pari and Dadashi


1.  Pari’s Story
The film begins with two scenes that are drawn from the story “Zooey” and can be understood within the conversational context in that story but appear to be quite mysterious and without explanation in Mehrjui’s film.  In the first such scene, Pari is shown in a swimming pool and being pushed down under the water by her companions (this was a dream that Franny relates in Salinger’s story).  In the second mysterious scene, Pari is shown entering an empty college classroom and obsessively filling the blackboard with philosophical epigrams, after which she erases the entire blackboard. This is also described in context in “Zooey”, but is totally unmotivated here in the film. 

Pari is then shown in her college, expressing intense dissatisfaction with the arrogance and pedantry of her college philosophy professor, who is lecturing the class on Khayyam and Rumi.  She seems to feel that her teachers are merely posturing and not penetrating to the ultimate truths of these great thinkers.  Fed up with what is going on around her in Tehran, she decides to take a bus to Isfahan and visit some family members and her fiancé there. Her fiancé meets her at the bus station and starts talking about his own intellectual endeavors at his university, which account Pari also finds boring and self-serving. They then go to a restaurant, and Pari tells her fiancé about the Sufi book she has been reading (this book is like The Way of the Pilgrim, but here it describes a wandering monk in Khorasan and his repetitive prayer makes reference to God, not Jesus).

The Sufi book that Pari has discovered has pointed her to a new way of conscious engagement with her surroundings that is entirely different from the academic detachment that she has found so dissatisfying and pseudointellectual at the university.  In fact the Sufi-inspired mantra-prayer technique is entirely distinct from any intellectual contemplation of God.  You don’t even have to believe in what you are doing; you are simply instructed to endlessly continue the repetitive chanting.  The argument goes that if one continues the practice, whether believing in it or not, one will be transformed into a sublime state of consciousness. The technique has similarities with the Brahmanic “Om”, Zen “No-Mind”, and Tibetan Buddhist chanting, which suggests that it has been rediscovered many times and in many places around the world. 

Pari tries to tell her fiancé how important her mantra-prayer has become to her and how it reflects truths from other religions, such as Buddhism, but her fiancé is dismissive and merely asks her, “do you really believe this stuff?”  Under increasing emotional stress, Pari rushes out to the restroom and eventually faints.  She is taken back home and after witnessing the death of an aged relative, decides to go back to Tehran.

2.  Dadashi’s Story
The film now cuts to Dadashi in Tehran, who is reading a long letter from his brother Safa.  In this scene there is an account from Safa's perspective of Assad’s mysterious suicide by self-immolation. Dadashi’s mother approaches him and asks him to see if he can straighten out Pari, whose spiritual crisis is now taken to be a nervous breakdown.

Dadashi goes ahead and finds Pari sleeping on the couch, and he launches into a long conversation with her about the books she has been reading.  In this sequence, Dadashi comes across as rather dogmatically overconfident, as he insists that Pari should surrender to God (Ali’s teaching), rather than succumbing to the arrogance of selfishly trying to find her salvation on her own and make her own judgments.   Pari is unconvinced by Dadashi’s rants and urges him to leave her alone.

3.  Assad’s Story
Dadashi now enters Assad’s old study and examines some of his brother’s old notebooks. The scene then moves to a depiction of Assad’s suicide some years earlier.  Assad in this sequence is shown to be generally benign and thoughtful, but he has apparently reached some irreversible level of philosophical despair.  He speaks cordially to small child that he meets and then quietly and deliberately arranges his self-immolation.

4.  Pari and Dadashi
Dadashi approaches Pari again, this time by calling her on the phone and pretending that he is Safa.  When Pari sees through that ruse, she runs away.  This sequence of the film then diverges from Salinger’s text, as Dadashi finds Pari and dramatically challenges her to burn herself alive as Assad had done.  The film closes with Pari acceptance of Dadashi’s retelling of Safa’s story that if one is dying on a hillside with his throat cut and a bunch of women walk by carrying jugs on their head, one should still be able to sit up and see how the women carry their jugs safely over the hill.

On the whole, Pari doesn’t manage to capture the charm of Salinger’s Franny and Zooey. For one thing, the Dadashi character is just a bit too pushy and arrogant in this depiction. The New York energy of Zooey fails to translate into an acceptable Iranian equivalent. Similarly, Niki Karimi’s Pari character is bit too intense and strained to gain a sympathetic audience here. And the intellectual repartee of the story doesn’t generally come across.

The first part of the film, though, which essentially shows Salinger’s "Franny” story, is more successful. Here the characteristic Salinger concern about phoniness and authenticity, and the inevitably accompanying awareness that an obsession about other peoples’ phoniness becomes, itself, an affectation, is reasonably well portrayed.

Another thing that I liked was Mehrjui’s ending to the film.  The film's closing story about the women jug bearers actually comes earlier in Salinger’s story “Zooey”, as something of a passing reflection on the part of Buddy (Safa in this film). In the movie, though, Merhjui has elevated this curious metaphor to a final image that stands for acceptance of, and ultimately embracing, life’s eternal mysteries. In this finally enlightening perspective, Pari’s ceaseless prayer is shown to be simply a way to maintain one’s meditative immersion in the immediacy and wonder of life, as it happens right in front of us all the time.

★★½

Notes:

  1. J. D. Salinger, “Franny”, The New Yorker, January 1955.
  2. J. D. Salinger, “Zooey”, The New Yorker, May 1957.
  3. J. D. Salinger, "A Perfect Day for a Bananafish," The New Yorker, January 1948.
  4. “Glass Family”, Wikipedia, http://en.wikipedia.org/wiki/Glass_family (accessed May 17, 2013).
  5. “History of Jews in New York City”, Wikipedia, http://en.wikipedia.org/wiki/History_of_the_Jews_in_New_York_City (accessed May 16, 2013).
  6. J. D. Salinger, Franny and Zooey, Penguin Books, 1964

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…It’s possible that Salinger might actually have liked Pari had he watched it. The Iranian film industry is decidedly not Hollywood, and Mehrjui’s sensibilities are subtle and self-aware. But Salinger never did. He was oblivious to the film’s existence until 1998, when Lincoln Center planned to screen the film during a three-week festival celebrating Iranian cinema. Publicity around the event brought the film to Salinger’s attention. Representatives of Salinger responded immediately with a letter, stating that the screening would constitute a copyright breach. Though Lincoln Center might have contested the warning, they decided instead to cancel the screening, perhaps wary of the legal track record of past Salinger adaptations.

In a New York Times article published in response to the controversy, the Iranian director expressed bewilderment over the decision. “I don’t want to distribute the film commercially,” Mehrjui said. “It’s kind of a cultural exchange. I just want to let the film be seen for the critics and the people that follow my work.”

He added, too, that he had written the reclusive author seeking permission to use the material for his movie and, when he hadn’t heard back, decided to move forward with the project. “In our country, we don’t have copyrights,” he said. “We feel free to read and do whatever we want.”

This is, of course, not entirely true. Iran does indeed have domestic copyright laws in place, though they are nearly half a century old, and in many ways, they have failed to provide artists and businesses with the protections they require. These laws, however, do not extend to any work produced outside the country, and Iran boasts a bustling market of pirated films. In busy corridors of Tehran, young boys sell stacks of pirated DVDs in plastic sleeves, their cover art badly photocopied, for less than a dollar. Truth be told, I’ve probably seen more Hollywood blockbusters during my stints in Iran than I have in my lifetime in the United States…

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