Visualizzazione post con etichetta Manetti Bros. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Manetti Bros. Mostra tutti i post

giovedì 23 dicembre 2021

Diabolik – Manetti Bros

è la riproduzione del fumetto che abbiamo letto in gioventù, la coppia diabolica vince sempre, contro la polizia che viene bruciata sul tempo tutte le volte.

qui si racconta la nascita del sodalizio Diabolik - Eva Kant, il fascino del proibito è troppo invitante per Eva, e l'ispettore Ginko rincorre i due, ma non arriva mai, come Achille con la tartaruga.

gli interpreti sono tutti bravissimi e "ingessati" nei ritmi e nelle espressioni del fumetto.

quello che colpisce è la staticità, la freddezza, il rispetto delle tavole del fumetto, non ci sono supereroi a velocità folli, in Diabolik la velocità è quella degli anni sessanta.

da lodare il lavoro sui costumi, sugli interni, è proprio un film degli anni sessanta.

sempre attuale il ruolo del politico corrotto fino al midollo.

tutti bravi gli attori, nelle mani dei fratelli Manetti sono tutti perfetti.

buona (diabolica) visione, al cinema, naturalmente - Ismaele

 

 

 

 

Come sostiene il guappo interpretato da Toni Servillo in 5 è il numero perfetto di Igort (di nuovo un film tratto da una graphic novel): “I fumetti americani – dice al figlio – stanno tutti dalla parte sbagliata. Stanno con i supereroi. Nei fumetti italiani invece, da Diabolik a Kriminal, gli eroi sono tutti delinquenti”. Diabolik è la quintessenza di questo paradosso. Ed è bene non scordarlo.

Diabolik non è – per dirla con Umberto Eco – un superuomo di massa. Non è un uomo qualunque che si traveste da supereroe per proteggere i deboli dalle vessazioni dei forti. E non è neppure un ladro gentiluomo alla Arsenio Lupin. Ma allora: come rendere affascinante un simile personaggio senza tradirne la natura “criminale” ma anche senza inseguire un epos tribale alla The Godfather? Questa è l’ulteriore sfida che i Manetti Bros si sono trovati davanti. E l’hanno vinta costruendo un film che – a differenza dei suoi personaggi – non mette maschere per fingere di essere quello che non è: il Diabolik dei Manetti mostra – senza ostentazioni ma anche senza reticenze – la sua natura di oggetto filmico al tempo stesso ludico (i Manetti giocano con i loro idola) e rituale (c’è quasi una liturgia celebrativa di tutto un immaginario nazional-popolare), acrobatico (per le acrobazie e le capriole del montaggio, se non altro) e carnevalesco (tutti si mettono in maschera), iconico (la visività prevale sulla narrazione) e in ultima istanza metafilmico. Perché i Manetti portano la creatura delle sorelle Giussani a dialogare con il fantasma di Hitchcock (le magnetiche  entrate in scena della biondissima Eva sono squisitamente hitchcockiane, così come il diamante rosa a cui si dà la caccia risulta alla fine poco più che un macguffin…) e con quello del poliziottesco italiano, senza scordare l’impronta visuale di tutta la tradizione del cinema noir. Operazione raffinata. Molto più raffinata (e sospesa, ipnotica, rallentata) di quanto molti si aspettassero da un blockbuster da 10 milioni di euro. Ma tant’è: anche i Manetti ci regalano hitchcockianamente la loro tanche de gateau, la loro fetta di torta. Un po’ ipoglicemica e senza zuccheri aggiunti, forse. Ma per la nostra salute di spettatori golosi, e per il piacere dei nostri occhi, va davvero meglio così.

da qui 


…Il Diabolik 2.0 è un film fascinoso ed elitario, che punta tutto sul revival e su una confezione di incredibile eleganza formale: ogni cosa (gli esterni, il covo, l'auto, i vestiti di Diabolik) è stata pazientemente pensata e ricreata ad hoc, sfruttando appieno l'importante budget stanziato (circa 10 milioni di euro). Certo non è esente da difetti: Luca Marinelli non appare particolarmente a suo agio nel ruolo (e, mi sia permesso, sentire un Diabolik che parla con accento romanesco fa un po' sorridere...) e di sicuro i 133 minuti di durata un poco pesano (in particolar modo verso la fine, forse troppo "filosofica" anche per un pubblico consapevole), ma resta comunque la soddisfazione per aver assistito a un'opera di tutto rispetto e che non deluderà i fan (anche se forse solo loro, temo). Le buone notizie vengono dal cast di supporto: Miriam Leone incarna una Eva Kant semplicemente divina per fascino e presenza scenica, mentre Valerio Mastandrea è impacciato e "impostato" al punto giusto, perfetto per interpretare il ruolo, sempre dimesso e "ingrato", dell'integerrimo ispettore Ginko.

da qui

 

Diabolik dei Manetti Bros è un film controverso. Vive una doppia anima: una fin troppo patinata, afflitta da una scrittura a tratti ingenua e da un protagonista talvolta persino fuori ruolo. Ma anche un’altra, quella di un prodotto visivamente unico nel panorama cinematografico italiano (e, forse, non solo), di un noir d’altri tempi, concentrato sulle origini di una Eva Kant sorprendentemente protagonista. Una pellicola molto efficace nella forma ma scricchiolante in parte nel suo contenuto: un’operazione che farà felici i fan più sfegatati del leggendario ladro di Clerville, ma che difficilmente saprà farsi apprezzare al di fuori della sua nicchia.

da qui

 

…È una storia delle origini, in qualche modo. Ed è un buon soggetto con la sua particolarità stilistica: mette in scena la staticità del fumetto e l’iconicità dei personaggi di Diabolik. Che sono fatti di inquadrature fisse, di movimenti di camera moderna a spalla ma con pose molto marcate, quasi esagerate. Non sempre e non a tutti riesce, ma l’effetto è quello voluto dai Manetti Bros.: un leggero straniamento, la sensazione di vivere dentro un fumetto e dentro gli anni Sessanta, che sono un’epoca lontana (parliamo di quasi settant’anni fa) con movenze e gestualità molto differenti da quelle di oggi.

Ci sono insomma questi tempi dilatati, queste gestualità differenti, queste pose esasperate da fumetto che per qualche strano miracolo vengono veramente bene solo a Miriam Leone, in parte a Claudia Gerini e stranamente anche a Valerio Mastrandrea (che interpreta sempre se stesso ma senza accento romano, un po’ come fa George Clooney tra un film e l’altro). Tutto questo serve ai Manetti Bros., che producono un film decisamente lento. E lo sottolineo: lento.

Come è stato detto, non aspettatevi supereroi, superpoteri e supercattivi mostruosi con poteri mutanti e ultraterreni. Questo è un film che ha un passo molto diverso dalla maggior parte delle cose che si trovano al cinema oggi. È un film italiano, ma non l’ha fatto Netflix. Richiede uno sforzo da parte dello spettatore: accettare una diversità. È un film dal passo lento, ambizioso, a tratti lungo, sicuramente perfetto per la storia e il tempo in cui si colloca. Fumettistico ma al tempo stesso realistico, anche se in un suo modo molto particolare.

In conclusione, perché non voglio fare spoiler e raccontare la storia, è un bel film. Molto ben diretto, con una colonna sonora fantastica (le musiche sono di Pivio e Aldo De Scalzi con due canzoni interpretate da Manuel Agnelli) e attori che fanno il loro mestiere più che bene, con l’eccezione di Miriam Leone che è oggettivamente fantastica (e non mi riferisco all’aspetto fisico), portando avanti il film per la maggior parte del tempo, aiutata anche da Mastrandrea e da Roja. Mi è piaciuta molto la fotografia di Francesca Amitrano, che collabora spesso con i Manetti Bros., e il lavoro epico su scenografia e costumi guidato rispettivamente da Noemi Marchica e Ginevra De Carolis.

Per due ore e dieci sono andato in vacanza in un immaginario italiano che è genuinamente una nostra fantasia, non un adattamento storico o una qualche narrazione contemporanea più o meno realistica. No, i Manetti Bros. hanno fatto la cosa più simile alla creazione di un universo cinematico e, se andranno avanti le cose, l’inizio di un’esperienza molto godibile destinata a durare nel tempo ancora per un po’. Ma attenzione, ve lo ripeto: se lo andrete a vedere preparatevi, perché è un film con un suo passo, decisamente non frenetico, anzi lento, che può prendere in contropiede. Ma è un gran bel film e vale la pena.

da qui

 

Iperrealista ma carnale, cartoonesco ma feroce, il Diabolik dei Manetti si è fatto molto attendere, ma si rivela oggi come un esperimento di cinema prezioso.

Un’opera anomala, soprattutto rispetto all’industria cinematografica italiana, ma soprattutto un film fuori dallo spazio e dal tempo, distinto da una eleganza micidiale.

Com’era forse prevedibile, una parte della stampa condanna fatalmente la mancanza di ritmo, una tensione certo intesa secondo i canoni dei cinecomic a stelle e strisce. Cerchiamo allora di capire come si differenzia il cinefumetto Diabolik, un’opera complessa, forse a tratti imperfetta, eppure capace di negarsi agli standard del mercato, per uscirne comunque vincitrice

da qui

 

Senza voler svolgere il ruolo dei menagrami, o fungere da latori di profezie nefaste, non sono pochi i dubbi che accompagnano la visione di Diabolik. Non dubbi, sia ben chiaro, legati alle qualità del film, su cui si tornerà tra poco, ma all’accoglienza tutt’altro che benevola cui rischia di andare incontro. Già le prime reazioni che hanno fatto seguito all’anteprima stampa hanno mostrato una certa freddezza, una mal disposizione d’animo sia verso l’apparato cinematografico in quanto tale sia verso la storia che i Manetti hanno scelto di raccontare; il primo indizio, forse, di ciò che accadrà quando il film sarà effettivamente nelle sale, e parteciperà all’agone del botteghino natalizio, il periodo dell’anno al quale viene chiesto il miracolo di salvare un’annata condizionata da un rapporto difficoltoso tra il pubblico e il grande schermo. La domanda, che a qualcuno forse potrà apparire superflua ma è necessario in ogni caso porsi di fronte a un film dalla natura così popolare e dalle esigenze commerciali (i due elementi non sarebbero da confondere mai) è dunque la seguente: il pubblico si farà convincere – o conquistare, se si preferisce – dalle avventure di Diabolik? È su tale quesito che si concentrano i dubbi cui si faceva riferimento in precedenza. Se ci si immagina Diabolik come una gallina dalle uova d’oro in grado di risollevare le sorti del mercato si rischia – almeno questa è l’impressione, sarebbe bello fosse negata dai fatti – di andare a sbattere contro un muro a velocità folle, come quelle che raggiunge la splendida Jaguar E-Type guidata dal ladro più astuto del mondo. Il perché è presto detto: in modo del tutto cosciente Antonio e Marco Manetti hanno costruito un film d’altri tempi, del tutto distante dal ritmo del contemporaneo, dallo scandire del montaggio d’oggi, dalle pratiche del cinema mainstream attuale. Il loro tornare indietro fino alla fine degli anni Sessanta, prima volta all’interno del loro cinema di uno spaesamento temporale simile, non è solo narrativo, ma diventa un elemento di senso, di lettura dell’industria. Una dichiarazione di appartenenza a un mondo che non esiste più, e che si può ricreare solo aderendo a un immaginario dichiaratamente falso, bidimensionale, fumettistico…

da qui

 

martedì 26 novembre 2019

Piano 17 - Manetti Bros

i personaggi di Coliandro quando Coliandro ancora non c'era.
una sceneggiatura che non ti lascia annoiare mai, quando ti sembra arrivare a un vicolo cieco si riapre le strada e si riparte.
e il tempo è il protagonista del film.
i Manetti Bros non deludono.
non perdetevelo, buona visione - Ismaele







L'idea base del film sta nel timer di una bomba, che procede inesorabile, mentre il tempo viene frammentato in molteplici flashback, che pian piano ricompongono l'intera vicenda. Una banda di rapinatori, non proprio gentili ma nemmeno troppo cattivi, capeggiata dal riflessivo Matteo Mancini, comincia a sfaldarsi per le incomprensioni interne. Sospetti e gelosie fra i membri del gruppo intorbidano le acque e fanno emergere la figura del secondo Mancini, fratello minore del capo, malvivente dal cuore tenero e dallo spiccato acume psicologico-introspettivo. I Manetti Bros spiegano che inventando questo personaggio hanno pensato a una specie di Sherlock Holmes del crimine, sottile osservatore di dettagli e psicologie umane.
In effetti nella lunga scena claustrofobica all'interno dell'ascensore, con la tensione che cresce ogni minuto e diventa palpabile, Mancini junior si dimostra freddo e padrone di sè, e riesce a mettere a nudo le debolezze dei suoi compagni di sventura…

Bella sorpresa questa pellicola firmata dai Manetti bros. che vede protagonista il bravo (e diciamolo, pure simpatico) Giampaolo Morelli, il quale un anno dopo sotto la direzione degli stessi Manetti porterà in televisione uno dei più riusciti personaggi televisivi di questo ultimo decennio, L'Ispettore Coliandro.
Ora anche se in Piano 17 non c'è la mano di Carlo Lucarelli, bisogna dire che i Manetti dimostrano di conoscere a menadito le regole del thriller e confezionano una pellicola che ha tutto per rendere felici gli amanti della suspance.
A parte il fatto che Morelli qui interpreta un criminale (ancorché simpatico ed accattivante) come 
Marco Mancini mentre nella serie televisiva veste i panni del poliziotto, bisogna dire che i due personaggi sono molto diversi e dare merito all'attore di aver dato grande credibilità ad entrambi.
Se Coliandro è un casinista che una ne pensa e cento ne combina finendo per risolvere i suoi casi grazie alla sua tenacia ma anche a qualche colpo di fortuna, Mancini è un duro vero, parte di una banda di criminali, obbligato con un ricatto a espletare una missione (deve mettere una bomba in un ufficio per distruggere dei documenti) che cerca di eseguire nel modo più rapido ed essenziale.
Proprio il tempo della bomba (che esploderà un'ora e mezza dopo l'innesco) scandisce il tempo del film…

martedì 19 novembre 2019

L'arrivo di Wang - Manetti Bros

tutto il film è girato in un bunker sotterraneo, per cui potrebbero soffrire gli spettatori claustrofobici.
una giovane traduttrice viene misteriosamente cercata, si tratta della traduzione di un interrogatorio molto cattivo, molto forte, anche se  il signor Wang sembra non capire.
e poi alla fine si capirà tutto, o quasi.
bel film, da recuperare - Ismaele







…Fedeli a quel cinema di genere frequentato sin dall'inizio della loro carriera, i Manetti Bros. si cimentano con la difficile via della fantascienza, confezionando una pellicola che pur entrando ampiamente nella categoria finisce con l'avere un'impostazione tanto curiosa da sconfinare nel dramma psicologico. Tra il breve incipit in cui la protagonista viene bendata e quel finale rivelatore per più motivi, si sviluppa, infatti, una storia basata sullo scontro tra discordi, inconciliabili visioni e sulla difficoltà di comprendere se stessi così come l'altro da sé. Con una caratterizzazione spesso esasperata, soprattutto nell'agente interpretato dal bravo Ennio Fantastichini, i tre personaggi in campo - più o meno stabili intorno al tavolo dell'interrogatorio - diventano presto simboli della volontà di comunicazione o della sua negazione assoluta, perdendo tuttavia la possibilità di diventare caratteri a tutto tondo, dotati quindi di profondità e spessore…

il nuovo film dei Manetti Bros. colpisce per la capacità di indirizzare emotivamente l’attrazione dello spettatore verso un determinato personaggio, salvo poi stravolgere questo orientamento con originale imprevedibilità. L’ironia propria dello stile dei fratelli Antonio e Mario Manetti si fonde con una costruzione narrativa imperniata sui crismi del cinema di genere e rafforzata dall’incalzante colonna sonora; l’accompagnamento musicale è infatti impeccabile nell’alimentare le suggestioni derivanti dall’evolversi della storia e conferisce quindi un valore aggiunto alla pellicola.
Considerati come degli outsider alla Mostra del Cinema di Venezia 2011, i fratelli Manetti regalano un raro esempio di un appassionato modo di fare cinema caratterizzato dall’umiltà di non prendersi troppo sul serio e preoccupato invece di appassionare con immediatezza il pubblico.

Però è pur vero che il cinema di serie B dei decenni gloriosi del cinema italiano, cioè il vero riferimento dei fratelli Manetti, è stato un fiume in piena di sceneggiature pasticciate e qualità intermittente, e dunque la delusione di cui sopra è dettata dal troppo amore per il cinema di genere, dalla passione cinefila per una sua resurrezione, un giudizio che andrebbe mitigato, perché ingiusto nei confronti di due filmmaker comunque generosi ed appassionati che quasi miracolosamente sono stati in grado di costruirsi una filmografia eccentrica, pressoché unica nel panorama anemico del cinema italiano dell’ultimo decennio (esordirono nel 2000 con il lungometraggio Zora la Vampira).

I Manetti Bros, da sempre alla ricerca di un percorso alternativo rispetto ai canoni imperanti, scelgono la fantascienza, merce rarissima anche nei periodi d’oro, probabilmente a causa del confronto, inevitabilmente penalizzante, con l’industria americana, che sull’efficacia dell’impianto spettacolare ha basato il suo successo. Invece il risultato si apprezza proprio per la capacità di osare l’impensabile, affrontando un soggetto originale e stimolante senza limitarsi ad alludere, ma sfoggiando effetti speciali che non sfigurano affatto con i più illustri colleghi d’oltreoceano. Interessante anche il sottotesto che pone interrogativi non banali sulla fiducia da riporre nell’altro, chiunque esso sia, uscendo da tesi buoniste e optando per il beffardo…

Senza spoilerare troppo (il finale è a sorpresa), pur nella consapevolezza che già sia a tutti nota l’identità dell’“ospite”, diciamo che in ballo ci sono la sicurezza nazionale, una possibile invasione extraterrestre, i servizi segreti, l’aeronautica militare e il solito labile confine tra verità e apparenza. Bravi Manetti: la tensione nel film si costruisce non tanto sull’attesa della rivelazione (molti gli spettatori che sanno, o sospettano) quanto sull’atmosfera angosciosa della stanza degli interrogatori. Mentre una seconda parte, quando la traduttrice riesce a fuggire, ci immerge nei meandri più canonici (e autentici) del thriller: inseguitori, vie di fuga, nascondigli. Il valore aggiunto sono però i personaggi.
La traduttrice, forte del fatto di essere la sola a capire il signor Wang, pensa naturalmente di avere intuito tutto; l’inquisitore, convinto che la violenza sia il solo linguaggio universale (letteralmente…) sente comunque il peso drammatico del proprio compito (magnifica la sequenza di Fantastichini in bagno, e soprattutto magnifico lui!). Ne L’arrivo di Wang osano, i Manetti Bros. Non hanno paura del confronto con gli omologhi spacconi Made in Usa: L’arrivo di Wang è fantascienza pura e semplice, concepita da chi non solo la capisce, ma la ama (per dire: Fantastichini ha una sua società di produzione che si chiama Klaatu Production). Un film da difendere con i denti che per fortuna avrà una distribuzione in Italia e all’estero. Welcome back, brothers.
da qui

…sono proprio gli ultimi – e inaspettati – sviluppi della narrazione ad aumentare il peso specifico dell’operazione, trasformando il pur gradevole film in un’intelligente metafora sulla complessità dei rapporti umani e sull’incomunicabilità. La scelta di costruire tutta l’opera attorno ad un interrogatorio si rivela doppiamente riuscita, poiché riesce a catturare da subito l’attenzione dello spettatore, costringendolo a doversi misurare con questioni nient’affatto banali, ma anche per il suo significato meta-cinematografico di traduzione di un linguaggio, quello del cinema di fantascienza nel contesto industriale italiano. Ne L’arrivo di Wang la parola assume un ruolo centrale come veicolo primario della narrazione e nella contrapposizione con l’immagine così assurda e irrazionale dell’alieno. Allo shock visivo, davanti al quale veniamo privati di qualsiasi spiegazione, i due registi oppongono la parola, come impossibile strumento di contatto e di scambio, nonché unico dispositivo in grado di costruire, inventare, immaginare mondi alternativi. Necessità da low budget forse, ma quanta forza, quanta autentica passione riesce a sprigionare il film! Ennesima conferma del talento unico e prezioso dei loro autori, tra i pochissimi eredi di una gloriosa stagione di cui si sente sempre più la mancanza.
da qui

domenica 15 ottobre 2017

Ammore e malavita - Manetti Bros

sceneggiatura dove tutto si incastra, in certi punti il film è un po' ripetitivo, e comunque si fa seguire bene.
indeciso tra la commedia e la tragedia (visti i molti morti, con sangue annesso), in realtà riesce a essere un tragico film comico, dove la vita è appesa a un filo.
il film è un po' didascalico, tutto è al suo posto e quello che ti aspetti succede, o succede quello che ti aspetti (a scelta).
cinema che corre, non ti lascia molto tempo per rifiatare, devi seguire la corrente, non c'è scampo.
alla fine comunque vince Song'e Napule, film meno di corsa, anche per chi non è un atleta.
buona visione (di entrambi, naturalmente) - Ismaele







Se c’è un modo di fare cinema gioioso è quello dei Manetti, un cinema che ti travolge di entusiasmo e ti predispone a godere di una pellicola. Un modo di girare che si fa perdonare qualche scivolone, che rende sofisticata anche la scelta di inserire qualche elemento kitsch, dove il demenziale si mescola alle raffinate citazioni, alla cura registica, all'amore per il dettaglio. Lo spettatore si ritrova davanti a un’opera felice, da prendere con ironia…

il plot è fragile, con un innesco narrativo da barzellettaccia. Un boss malavitoso, sempre sotto pressione e bersaglio di cosche rivali e forze dell’ordine, predispone insieme alla consorte un piano per sparire dalla circolazione. Identificato un perfetto sosia, lo fanno uccidere e organizzano un funerale col suo cadavere, mentre il boss ufficialmente morto se ne sta acquattato nel suo rifugio. Ma già questo è più farsa e pochade che noir, con il signor Macbeth e Lady Macbeth vesuviani mai credibili davvero come coppia diabolica, sempre un filo bonari e de core e mai feroci anche quando ordinano una strage via l’altra.
Son bravissimi Carlo Buccirosso (sublime as usual) e Claudia Gerini, ma nulla possono contro la balordaggine e l’inconsistenza e le incongruenze dei loro personaggi. Ecco, ai Manetti non riesce proprio di tenere insieme la ferocia del genere Gomorra (i cadaveri si sprecano) con la ballata grottesca…

Il lavoro di ricerca nell’underground del cinema italiano che i Manetti Bros. portano avanti ormai da decenni ha finalmente dato i suoi frutti, dal momento che Ammore e malavita ha finalmente aperto gli occhi anche a quella parte di critica radical chic che si muove strisciando dentro il mondo irreale dei Festival, c’è da dire però che il pubblico li ha sempre sostenuti, supportati, attesi, beati quanto spiazzati da questa loro leggerezza nel muoversi fra un genere e l’altro mantenendo sempre uno stile personalissimo, l’ hanno capito prima di tutti gli altri come si fa ad essere innovativi guardando con rispetto al passato.

Non sarà perfetto, Ammore e malavita, ma non è vero come probabilmente affermeranno in molti che si sfilacci il discorso o che tiri eccessivamente per le lunghe il tutto: anche l’incipit, effettivamente monstre rispetto alla prassi, è giustificato da una serie di intuizioni così brillanti che non avrebbe senso eliminarle dal montaggio finale. Esagerano, i Manetti, ma lo fanno con uno spirito sincero, così come il mélo espanso a cui tanto deve il cuore appassionato di una città che trasuda letteralmente dallo schermo, in quei canti baritonali tra le viuzze, mentre sfrecciano moto e pallottole, o come quel mare che è esso stesso città. Vita. Mala Vita. Si muore sia per scherzo che per verità in Ammore e malavita; si muore per necessità e si muore perché non si può fare a meno di essere coerenti fino in fondo. I Manetti sfidano gli spettatori, costringendoli a immedesimarsi nel personaggio più carogna di tutti a ben vedere, quel Ciro che tradisce davvero – da principio per una ragione più che valida, in seguito solo per eseguire ciò che gli è stato insegnato da ragazzo – e uccide perfino l’amico di sempre. Così, quasi a sangue freddo. Quel Ciro che giustamente deplora il piano ordito da Don Vincenzo e donna Maria, ma poi lo esegue a sua volta. Ma è un esecutore, per l’appunto, non un creatore: solo alle donne è consentito “mettere in scena”, creare la tessitura narrativa, stupire con la finzione. La più grande finzione di tutte: la morte stessa. Quella morte che è quotidianità per chi vive nel sottobosco criminale, quella morte che scivola fuori da ogni canzone in scena, quella morte che è parte integrante della vita, così come l’amore, il sentimento, unico appiglio a un’umanità imbastardita.
I Manetti, grazie anche all’ottimo lavoro di Pivio e Aldo De Scalzi in fase di colonna sonora, ordiscono un musical che sposa le regole del genere ma le rimette in scena con uno spirito scanzonato, quasi buttato via, con un’alzata di spalle. Ma non mancano le coreografie, alcune davvero minimali eppur sorprendenti (quello schioccare di dita dei fantasmi sugli scogli…), e non manca mai l’idea. Così come arriva a supporto un cast in splendida forma, a partire da un monumentale Carlo Buccirosso fino al Gennaro interpretato da Franco Ricciardi, che già aveva rapito le orecchie del pubblico in Song’e Napule intonando A verità, e che qui è un ingessato e rigoroso scagnozzo del boss. “Nun è Napule”, cantano nel finale i protagonisti, perché nessun altro posto sarà mai come casa. Nonostante le pallottole. Nonostante l’ammore e la malavita…

Promossi a pieni voti dal pubblico del festival, i Manetti devono evitare il rischio di accontentarsi ripetendo ad oltranza la formula del loro successo: pur riuscito, infatti, "Amore e malavita" risente del fatto di essere una variazione sul tema di Song' e Napule e, quindi, di scontare qualcosa in termini di novità e freschezza rispetto al modello di riferimento.
da qui

giovedì 1 maggio 2014

Song'e Napule - Manetti Bros

una sorpresa bellissima, si esce dal cinema davvero contenti.
dentro c'è il giallo, il poliziottesco, la musica, interpreti bravissimi, una sceneggiatura che non ti annoia un secondo (quando il ritmo cala è solo per prendere la rincorsa per ripartire più forte), tensione e divertimento viaggiano insieme, ci sono anche l'amore per Napoli, una storia d'amore, l'Italia come è, e tanto altro (bravissimi i Manetti Bros).
il film è gioiellino da non perdere, cercalo, non te ne pentirai.
è uno di quei film da passaparola, dopo averlo visto passa la parola anche tu - Ismaele 






un film che pazzamente diverte e coinvolge, che allunga, storce e capovolge gli stereotipi, che è commedia dal primo istante (spassoso il monologo di Buccirosso all’inizio), che è musicarello napoletano, che è valido poliziesco in tutto il suo corso (Sassanelli nei panni del commissario Cammarota acchiappa latitanti funziona che è una meraviglia), che è Camorra Movie, che è surreale documentario sulla città (la descrizione dell’universo neo melodico è più fedele di quanto si possa pensare) che è omaggio a tanto altro cinema, ma che è prima che di ogni altra cosa un’esplosione vesuviana di cinema manettiano. Leggero e intelligente, per certi versi all’italiana ma poco incline all’amarezza. Che mai si prende troppo sul serio ma che ha sempre qualcosa da dire. Buonissimo cocktail, fortissimo cinema!...

Bravi i Manetti a farci giocare con commedia e noir per raccontarci come stanno le cose oggi.
Per entrare nella band formata anche da Pastetta (Ciro Petrone – Gomorra) e Torrione, Paco diventa più napoletano possibile e dice “Sì, sono diplomato al Conservatorio, ma quello serale.”
Ecco, questa è una delle moltissime battute riuscite del film che fotografa la vergogna di possedere un titolo di studio e il bisogno di essere più gangsta e ignoranti nell’Italia 2013. Meglio saper vivere che sapere. E’ così che ci hanno programmato.
Menzione specialissima per Lollo Love, del quale speriamo sia fatto uno spin-off o addirittura una serie. Un neomelodico, quasi un superoe, che canta sul serio (tutte le canzoni sono scritte e arrangiate dagli Avion Travel e cantate dallo stesso Morelli) e trova l’amico e forse cognato della vita. Paco, infatti,  si innamora di Marianna (Serena Rossi), la sorella di Lollo Love.
E questo è un altro capitolo del film trattato con intelligenza e leggerezza, mentre vediamo al contempo una città e un noir.
“E’ tutto come nella realtà”, strepitavano i napoletani in Sala Sinopoli e giù un’altra risata.
L’uso del dialetto è incantevole anche per gli oriundi. Bravi Morelli e Roja ad essere credibilissimi nel loro accento.
Un modo diverso di raccontare il popolo e i neomelodici napoletani. Molto lontano dal Reality di Garrone, molto più vicino alla gente che ride nonostante veda le pistole sparare e i bossoli esplodere.
Ormai siamo così, non abbiamo più paura di niente e ci sentiamo tutti un pò napoletani.
Grazie Manetti Bros.

Nelle maschere e nei tic di due personaggi agli antipodi, per scelta e per natura, parliamo del commissario Cammarota e, appunto, di Lollo Love, che il film stabilisce i confini di una fantasia che intrattiene e fa ridere cento volte di più della media delle commedie italiane che stanno in testa ai botteghini. Solo per questo "Song'e Napule" sarebbe un biglietto da staccare. Ma c'è molto di più, da vedere e da sentire.
da qui