lunedì 27 novembre 2017

Le Samouraï (Frank Costello faccia d'angelo) - Jean-Pierre Melville

il Samurai compie il suo lavoro di killer alla perfezione, fa una vita da eremita, l'essere vivente a cui vuole più bene, e convive con lui, è un uccellino, in gabbia, che si accontenta di poco, di pochissimo, come lui.
Jef non è mai sopra le righe, ha un profilo basso, non deve farsi riconoscere, lo conosce chi serve.
l'eremita dandy di periferia si trova in un gioco più grande di lui, deve difendersi, senza quartiere.
sappiate che è un film come pochi, non sapete cosa vi perdete - Ismaele

ps: ho visto la versione italiana, con qualche taglio, mi sembra di capire; il titolo italiano fece arrabbiare Melville, che apostofò i "colpevoli" del titolo italiano con il seguente gentile attributo: "Salauds!".

QUI il film completo, in italiano


E' incredibile la bellezza di questo film. Una bellezza che lascia davvero senza fiato. Quando il cinema d'autore si unisce ad una superba interpretazione (penso sia inutile parlare della bravura di Delon, una bravura, a mio parere, persino sottovalutata, se si considera l'incredibile curriculum di questo grande attore), ecco, improvvisamente, uno spettacolo davvero da manuale. E qui si tratta di un cinema veramente serio, che offre sensazioni inimitabili. Quale è il sentimento che affiora in noi dopo questa proiezione? Innanzi tutto, una sensazione di estrema partecipazione a questa storia. Si tratta quasi di cinema muto, talmente è intensa la recitazione, direi plastica, del protagonista. Ma i protagonisti, in realtà, sono due: Frank Costello ed il suo uccellino. Ed ecco affiorare il tema della solitudine, un tema costante delle interpretazioni di Delon. Questo spietato killer ha, come tutti, un volto umano: l'amore per l'unico vero compagno della sua vita, anzi, direi, del suo modo disperato di vivere: un piccolo animale rinchiuso in una gabbia, che lo sa allietare e che gli fa pesare un pò di meno la sua estrema solitudine. Ed è l'amore per questo animale che, più volte, lo salva, facendogli capire da dove arriva veramente il pericolo. Deluso da tutto quanto, dall'animo veramente sporco degli uomini e dalla vita disperata che conduce, lo sceglie come suo unico e vero amico. Anche lui, come il suo canarino, è un animale chiuso in una gabbia. E si tratta di una gabbia intrisa di sofferenza, di una disperazione tanto forte che culminerà con un vero gesto d'onore. L'ambientazione è scarna, come la sua anima: porte scrostate, periferie tristissime, a cui fa da contrapposizione un modo particolare di vestire, di aggiustarsi sempre il cappello. E' solo, ma ama se stesso, e lo dimostra con il suo abbigliamento sempre a puntino. Una vera parabola sulla solitudine, sulla difficoltà di fidarsi degli altri e sul modo di cercare, inutilmente, dei punti fermi a cui aggrapparsi. Un film tristissimo, come è triste, tante volte, la vita. Veramente superbo.
Scrivere di questo film è un’autentica follia, un atto di superbia, di pura tracotanza. L’unica attività concessa da “Le Samouraï” a chiunque abbia un briciolo d’intelligenza è la visione. La visione di una pellicola che, pur rispettando le regole cogenti del noir, travalica ogni indicazione di genere per affermare una vera e propria filosofia del cinema. Tradotto in italiano con un titolo irripetibile, “Le Samouraï” è il decimo film di Jean-Pierre Melville; l’anno prima, con lo strepitoso “Tutte le ore feriscono... l’ultima uccide” (“Lè deuxième souffle”) ha ottenuto il riconoscimento definitivo da parte di critica e pubblico. Adesso può finalmente portare alle estreme conseguenze il suo approccio stilistico. La secchezza narrativa di “Tutte le ore feriscono...” si trasforma in disadorna essenzialità, l’asciuttezza visiva in raggelata astrazione, il codice morale del milieu in regola monastica. Frank Costello (Jef nell’originale) è un asceta del crimine. Non commette omicidi o esegue delitti: segue un rituale, officia una cerimonia. La sua solitudine è prova di un’assoluta indipendenza, il rigoroso rispetto delle regole il segno paradossale della sua libertà, lo scontro con la morte il teatro della verità. Nel suo sfidare l’ineluttabile Frank Costello afferma l’autonomia morale dell’uomo, un’autonomia che trascende ogni determinazione contingente e accidentale. Voto: 10

Non esiste solitudine più profonda del samurai 
Se non quella della tigre nella giungla 

La frase è apocrifa, attribuita al Bushidō anche nel doppiaggio giapponese che la presero per buona e invece è una interpolazione dello stesso Melville mentre, sempre in tema di "curiosità" delle distribuzioni, in Italia, che il film lo co-produsse, si optò per una lettura creativa del titolo che da "Le Samouraï" divenne un incredibile "Frank Costello faccia d’angelo" attirandosi le ire di Melville che li apostrofò con un Farabutti che è la sintesi della disistima del regista francese per il nostro Paese, basta solo ricordare i suoi difficili rapporti con Volontè sul tournage de "Le Cercle Rouge" (1970) e la pessima fine che fa fare a Riccordo Cucciolla ne "Un Flic". 
Jef (o Frank, comunque Alain Delon) è un lupo solitario utilizzato dalla pegre parigina per lavori di fino e senza intoppi. 
Metodico al limite della mistica (o della schizofrenia, ci torneremo) vive da solo con un uccellino la cui sopravvivenza è garantita da piccoli gesti rituali, un goccio d’acqua, due semini e tanta tranquillità..

The elements of the film--the killer, the cops, the underworld, the women, the code--are as familiar as the movies themselves. Melville loved 1930s Hollywood crime movies and in his own work helped develop modern film noir. There is nothing absolutely original in "Le Samourai" except for the handling of the material. Melville pares down and leaves out. He disdains artificial action sequences and manufactured payoffs. He drains the color from his screen and the dialogue from his characters. At the end, there is a scene that cries out (in Hollywood terms, anyway) for a last dramatic enigmatic statement, but Melville gives us banalities and then silence. He has been able to keep constantly in mind his hero's chief business.

…Melville utiliza poca complejidad en su película, y más busca la intensidad de sus bien desplegados personajes, en un definido filme de crimen que sabe manejar con destreza sus pocas piezas que se asientan con solvencia creando personalidades marcadas que a medio camino de conocerlos se nos tuercen voluntariamente y se nos hacen impredecibles; la dama faltando a su cita o el samurái provocando la sorpresa en su decisión final, salvo el oficial que se debe a su trabajo y no tiene otra meta que atrapar a su presa.
Desde el principio el dardo apunta a Costello y su sentencia es asunto de tiempo, una genialidad que juega a favor de la caza del gato sobre el ratón, sin embargo el asesino también va tras otras personas, no es un ente estático y despliega sus fichas con ingenio aunque sabe que tiene la soga al cuello, lo que no lo altera sino lo hace definir su situación, ordenar su ideas y sacudirse el polvo, despedirse de todo saldando cuentas…

lunedì 20 novembre 2017

Mr. Ove - Hannes Holm

Ove a 59 anni è un uomo finito, senza lavoro, vedovo, depresso fisso, con sfortunati tentativi di suicidio.
dopo si capisce perché non ne ha più voglia, pian paino lo conosciamo meglio.
fino a che la vita lo incrocia di nuovo (o viceversa) e allora cambia tutto.
nel remake Mr. Ove sarà interpretato da Tom Hanks, successo assicurato.
intanto godetevi il film in sala, pochissime, naturalmente.
vale davvero il prezzo del biglietto, e anche più - Ismaele






Il contesto narrativo è adornato da gustosi personaggi secondari e da una costante alternanza di flashback atti a raccontare il passato, più o meno recente, del Nostro, quasi ad assistere a una sorta di percorso di formazione senza continuità di sorta.
Una ricetta non originalissima ma confezionata magnificamente, immersa in toni suadenti dove lacrime e risate coesistono in un leggiadro e magnetico equilibrio.
Al contempo le due ore di visione trattano temi non semplici, e i bizzarri tentativi di suicidio perpetrati da Ove offrono, pur in chiave leggera, diversi spunti sulla volontà di credere ancora nella bellezza della vita, oltre ad altri spunti sociali inerenti la condizione degli immigrati e l'omosessualità malvista dalla società bigotta. Il tutto messo in scena con un tono caustico spruzzato di elementi surreali che infondono una gustosa freschezza d'intenti ad un'operazione sicuramente strizzante l'occhio al pubblico ma non per questo meno amabile.

In una società-villaggio che sembra un villaggio a metà strada tra il mondo colorato di Tim Burton e gli interni-vetrina di Ikea, il film sulla vita dello scorbutico Ove (ne conserva tutte le ragioni!) che si evolve fino a diventare un modello di efficienza e solidarietà verso il prossimo (adotta una adorabile gattina trovatella e ospita in casa un ragazzo mediorientale cacciato di casa per aver fatto outing con la propria omosessualità), diventa una lezione di vita senza pretendere di insegnarci nulla, ma con l’intenzione di raccontarci una bella storia di vita che pare una favola moderna.

…una storia potente e tragica che pur concedendo qualcosa alla divertita insofferenza del presente, lo rende immanente, togliendogli ogni carattere artificioso; riuscirà a parlarci di sentimenti autentici e delle piccole, grandi battaglie per la vita che si combattono tutti i giorni.
Il regista Hannes Olm cerca così un equilibrio tra i vari caratteri del film: la commedia grottesca e surreale portata avanti dall’intransigenza del vecchio Ove, il tono melodrammatico del racconto del suo passato, e le istanze di rivendicazione sociale della moglie e dell’amica immigrata. Potrebbe essere il pregio migliore della pellicola, ma invece si traduce in una equidistanza che rendono l’oggetto della visione più freddo di quanto possa sembrare.

Mr. Ove ha tutti gli elementi tipici del film composto e garbato, a cominciare dalla rassicurante rappresentazione di una cittadina nordica e dei suoi abitanti, tipi umani abbastanza prevedibili e riconoscibili, per quanto un po’ scompaginati. 
Eppure, nonostante quest’apparenza, la sgradevolezza che caratterizza il personaggio principale non sa di posa, ma sembra autentica dall’inizio alla fine: dentro quest’uomo corpulento e odioso, che tenta il suicidio nei modi più disparati senza riuscirci mai per un motivo o per l’altro (un topos della dark comedy, a ogni latitudine) c’è infatti un disagio autentico nello stare al mondo.
Una condizione che impedisce al film, col passare dei minuti e con l’elemento dell’integrazione e del calore umano che subentra, di farsi una semplice parabola sui buoni sentimenti, come in partenza si sarebbe potuto immaginare. La disperazione di fondo infatti persiste, l’umanità convive col nichilismo e vi aggiunge soltanto delle sfumature di complessità in più. Un aspetto che fa di Mr. Ove una specie di fiaba nera, in cui la cupezza di Ove concede una tregua al solo scopo di lasciar posto a una dolcezza e una distensione non meno contraddittoria e carica di domande…

…se Mr. Ove funziona, funziona grazie alla cura dei dettagli che lo rendono umano e credibile, a quei piccoli gesti nella recitazione di Rolf Lassgård e a quelli ripetitivi del personaggio che interpreta, per quell'aria sempre un po' sospesa e stralunata che hanno tanti titoli scandinavi.
Al fatto che Ove è uno che, se odia, odia solo gli idioti, in un mondo - il nostro - dove invece l'idiozia viene troppo spesso ostentata e appuntata al petto come fosse una medaglia di cui andare orgogliosi.
E sì, anche a quella piccola ma esemplare trovata legata alle automobili, al culto della macchina, all'idolatria per quel marchio stampigliato sulla calandra del radiatore.
Che, come tutto il film, fa ridere, arrabbiare e commuove allo stesso tempo.

…It’s almost impossible not to be intrigued by Ove – a bossy, grumpy, obsessively righteous, and deliberately offensive widower who fights anyone disobeying the rules created for the neighborhood he lives in. The more we know about his past, the more we get fond of him, excusing his rude conducts and understanding his reluctance to help others.
When we take a quick glance at the 56-year-old Ove, immaculately played by Rolf Lassgard (“Under the Sun”, “After the Wedding”), he reminds us Michael Caine. With him, honesty, responsibility, and duty come always first, no matter what. We follow him on his morning rounds, learning he doesn’t tolerate pets, children’s toys left in the playground, and especially cars circulating on the pathway…

One Word (Bir Kelime) - Tufan Tastan

domenica 19 novembre 2017

Pas koji je voleo vozove (Il cane che amava i treni) - Goran Paskaljevic

un po' di anni dopo La strada, di Fellini, sembra di rivedere i due protagonisti di quel film in Mika, evasa dalla prigione, e Rodolyub, un cowboy che di guadagna da vivere con i suoi due cavalli e esperienza fatta nei film western, magari come stuntman. 
Mladic, un ragazzo orfano in cerca di un cane che viaggia sui treni, è il terzo protagonista, aiutante del cowboy, all'inizio.
la vita non è rose e fiori per nessuno, Mika viene picchiata e violentata, Mladic cerca di aiutarla, ma Mika non vuole nessun aiuto, mai avere debiti.
il film è abbastanza triste, ma non del tutto, merita di essere visto, un film dove tutti sono ultimi, senza troppe speranze, così va il mondo, e il film non fa eccezione.
buona visione - Ismaele





…Mika’s character resembles that of innocent Gelsolmina (La Strada) or the virginlike Cabiria from Nights of Cabiria and The White Shriek, Bojkovic’s short hair and vivid nature doing little to conceal her striking resemblance to Giulietta Masina. But even more than Masina’s characters, Mika is a doer, someone who takes her faith into her own hands. While Paskaljević’s film can also be considered a road movie of some sort, Mika’s road is quite different from that of Gesolmina: where Gesolmina meets the tyranny of her boss with holy passivity, Mika flees – first from the police, then from Alexich, and finally from the helping hands of Ding’s owner (in the case of Ding’s owner, this distrust has fatal consequences)…

Escaped prisoner Mika (Svetlana Bojkovic) is an independent, thirtyish woman fleeing both the authorities and her smuggling past; larger-than-life Rodolyub Rodney (Yugoslav mega-icon Velimir ‘Bata’ Zivojinovic) is a charismatic former movie stuntman in his forties (supposedly a double for “Stewart Granger, Lex Barker and Kirk Douglas”) now on the road with his rodeo show;  Mladic (Irfan Mensur) – is the meek-and-mild, twentyish son of a railroad man, on a quest to find ‘Ding’, the errant, loco-hopping family pet that provides the picture’s cutesy title…


Amer Shomali: “La risata dell’oppresso fa tremare l’oppressore”

Una bella intervista di Chiara Cruciati a Amer Shomali, regista di The Wanted 18



Perché un film sulla Prima intifada?
Sono nato fuori dalla Palestina, sono cresciuto in un campo profughi in Siria. Durante gli anni della Prima Intifada ero ossessionato dai fumetti che venivano pubblicati dall’Olp. Molti artisti arabi e internazionali facevano cartoon, poster, disegni su quello che stava accadendo in Palestina e questo ha modellato in me un’immagine della Palestina molto potente. Un luogo bellissimo e utopico. Ad un certo punto, negli anni Novanta avevo in mano un libro di fumetti su Beit Sahour, di un artista egiziano, che raccontava la disobbedienza civile nel mio villaggio di origine. Ero affascinato: era il mio villaggio e quei personaggi, dei supereroi, potevano essere i miei zii, i miei nonni. Un giorno leggevo Superman e il giorno dopo la lotta a Beit Sahour e la sua gente, i miei parenti.
Più tardi nel 1997 quando arrivai a Beit Sahiur dopo il processo di pace, rimasi scioccato dalla realtà: il mio villaggio era un posto come gli altri, i giovani erano interessati a cose materiali, non c’era senso di comunità, niente di quello di cui sognavo da fuori. Provai a fuggire e a tornare in Siria al campo profughi, ma senza successo: ormai qualcosa era cambiato in me. Poi ho incontrato uno dei personaggi che avrei inserito nel film. Mi disse solo: tutto quello che ti hanno raccontato è vero, ma è passato, sei arrivato tardi, hai perso la Prima Intifada.
Allora ho iniziato a pensare al film: un modo per riappacificarmi con Beit Sahour, raccontarne la storia per farla vivere ancora e per viverla io stesso tramite le voci dei protagonisti. Ho ricreato la mia versione della Palestina, per me e per i giovani. È stato in qualche modo un’operazione egoista. È stata una riconciliazione con la Palestina di oggi. La immaginavo come un’utopia e dovevo comprendere quel passaggio critico, che è stato il processo di pace di Oslo.
È stato un modo anche per svelare gli errori, quello che non è stato fatto e quello che è stato sbagliato. Uno strumento per un possibile futuro?
Alcuni mi chiedono oggi se tramite il film promuovo una terza o una quarta Intifada copiando il modello della Prima. Non esattamente: non intendo riproporre quelle pratiche ma piuttosto sottolineare ed esaltare la creatività, quel tipo di resistenza che le nuove generazioni potrebbe facilmente rimettere in piedi. Possono farlo ma devono crederci, devono credere che possono guidare la comunità.
Con la versione inglese del film, vuoi parlare al mondo fuori. In un periodo in cui mancano i grandi intellettuali di un tempo, da Kanafani a Said a Darwish, possono i nuovi artisti e i loro nuovi linguaggi ridefinire la narrativa palestinese e controbattere a quella israeliana, più facilmente comprensibile all’Occidente?
Il film ha diverse versioni, in arabo, in francese, in inglese e anche in giapponese. Lo abbiamo fatto perché potesse essere trasmesso anche in altri paesi, nei cinema e nelle televisioni. È stato difficile perché dovevo bilanciare il contesto: non ridurlo troppo perché altrimenti il pubblico straniero non avrebbe capito di cosa si stava parlando; e non ampliarlo troppo per non renderlo noioso per l’audience palestinese e quella araba che conoscono la storia dell’Intifada. Alcune scene sono state riviste molte volte, rischiavano di non essere divertenti perché avevano o troppe informazioni o troppo poche.
Veniamo proprio all’ironia, all’umorismo che è il linguaggio principale del film. Un’ironia che va a sgretolare le basi dell’occupazione israeliana, della sua paranoia illogica del controllo. Non è facile narrare un periodo tanto drammatico come la Prima Intifada attraverso la voce di 18 mucche.
La decisione di usare l’umorismo in questo film era un rischio, ma era la cosa giusta da fare. Non avrei saputo farlo altrimenti, sono un fumettista e cerco l’ironia ovunque, in ogni angolo di una storia. Ma era comunque difficile combinare una mucca che diceva qualcosa di divertente vicino ad una madre che raccontava del figlio ucciso. All’inizio non avevo una risposta. Poi uno dei protagonisti del film mi ha raccontato un episodio: una notte, durante la Prima Intifada, stava studiando matematica a casa perché il giorno dopo avrebbe avuto l’esame finale. In piena notte l’esercito israeliano ha fatto irruzione a casa sua, lo ha preso, bendato e ammanettato e lo ha caricato nella jeep. Era disperato, sapeva che avrebbe saltato l’esame e avrebbe perso l’anno. Stava pensando a tutto questo quando la jeep si è fermata di nuovo a Beit Sahour e ha arrestato un’altra persona. I soldati l’hanno fatta salire dietro, con lui. Il ragazzo gli ha dato una gomitata e ha chiesto: “Chi sei?”. L’altro ha risposto: “Il professore di matematica”. Hanno iniziato a ridere come pazzi. I soldati urlavano di smettere di ridere ma non riuscivano a fermarsi. Hanno fermato la jeep e li hanno picchiati ma loro continuavano a ridere.
In quel momento è stato tutto chiaro: i soldati pensano che arrestandoti, bendandoti e ammanettandoti, ti controllano completamente. Ma non è così: tu puoi ancora ridere e loro non possono farci nulla. Tu continui a pensare e loro non possono controllare la tua mente. La risata dell’oppresso può distruggere le fondamenta del sistema di oppressione. È stata la chiave del film: i palestinesi soffrono per la loro situazione ma non sono vittime, sono persone con i loro sentimenti e anche con le loro risate. Così, chi sta fuori non proverà pieta ma empatia.

mercoledì 15 novembre 2017

Quattro notti con Anna - Jerzy Skolimowski

una strana storia d'amore, quella di Leon.
lui è un po' ritardato, ha vissuto ai margini della società, lavora all'inceneritore dell'ospedale, e vive con la nonna vecchia, che poi muore.
vive di niente, le sue relazioni con gli altri esseri umani sono come quelle dei gatti, lui ama la natura e gli animali.
poi scopre, già molto grande, la bellezza di un'infermiera vicina di casa, la spia, riesce ad entrare a casa sua con l'inganno e trascorre quattro notti con lei, che non si accorge.
il suo amore è esserci, vicino a quella donna, che per lui è bellissima.
la protegge nel sonno, la guarda, cura la casa.
nessuno potrebbe capire un amore così strano, le porte della galera si aprono.
lei sa che lui non le ha fatto del male, ma non riesce a volerlo.
insomma, un film tristissimo, ma molto bello, e in più si può vedere online dal sito della Rai, in lingua originale, con i sottotitoli italiani, cosa volere di più?
buona visione - Ismaele




QUI il film completo, con sottotitoli in italiano



Skolimowski decide di far vivere la storia a chi osserva in prima persona, accompagnati dallo stesso protagonista, creando una sensazione di enorme vicinanza e di malsana compassione per l’oggetto principale delle sue attenzioni.
Ma nonostante tutto, a scapito del più completo pessimismo, una goccia di umanità rimane nel prossimo, la donna infatti comprende Leon e capisce la sua inconsapevolezza e solitudine nell’atto perpetrato ai propri danni: lo stupro subìto dalla stessa anni prima, del quale sempre Leon fu incolpato (ma in seguito prosciolto), la convince e le apre gli occhi sull’ingenuità del soggetto. Ecco che quello dell’infermiera diviene lo sguardo che il regista ci invita a posare sul nostro prossimo, perché la pena che suscita il protagonista deve essere superiore alla condanna per l’atto commesso; il perdono e la comprensione devono convivere ed esistere in un universo malato ed imperfetto, regnato dall’odio e dall’ingiustizia. Su questo ci invita a riflettere il regista, sul trionfo di un bagliore di luce in un manto oscuro incedente e dilagante…

Skolimowski si spinge nei meandri dell’incapacità di comunicare approfondendo situazioni ambientali nelle quali questa è portata all’estremo, come nel caso di Quattro notti con Anna: quello di un ritardato mentale innamorato della donna del cui stupro è stato accusato. L’estremità del caso di Leon è straziante e commovente nella sua incapacità di darsi una risposta e crea un’empatia profonda con il personaggio che va al di là della solidarietà per i suoi mali, ma va al profondo delle idiosincrasie di ognuno di noi quotidianamente di fronte a situazioni in cui l’incomunicabilità è il proverbiale convitato di pietra.
Con l’interpretazione magistrale di Artur Steranko e Kinga Prejs e le scelte di fotografia azzeccatissime nel ricreare quella cupezza che affatica gli occhi e del cui valore simbolico è quasi superfluo parlare, Quattro notti con Anna è un ritratto lirico dolce e tragico allo stesso tempo, la storia di un amore tossico, nel senso che produce tossine ineliminabili, avvelena la vita del protagonista che lo desidera senza poterlo realmente ambire.

…L’anello donato di nascosto diventa il simbolo di un legame invisibile che c’è finché non si percepisce, vivendo in uno stato di incosciente partecipazione, senza chiedere altra realtà da quella immaginata. Da fuori a dentro in un processo di graduale e faticoso avvicinamento si stringe il legame  tra lo sguardo a distanza e il contatto con la pelle, per avvicinarsi quel tanto che basta a percepire che nessuna corrispondenza sarà possibile, per aspettare quel niente necessario per uscire per sempre da una casa che non è mai appartenuta.
L’unico accesso veramente proibito è quello dello sguardo dell’altro. Leon non può entrare dalla porta d’ingresso e alla luce del sole, ma da una finestra marginale e nel buio delle notti per poi cedere alla tentazione di vedere tutto e annegare. Non gli importa niente di diverso dalla partecipazione al sonno di lei che dorme e non sa. Sapere è il discrimine che annuncia la fine prossima di uno sbilanciamento di esistenza. Anna esiste solo per lui che la guarda e di cui ignora tutto; lei non sa di esistere per lui eppure finché lo ignora lei esiste e lui pure. Esistere nell’ignoranza senza cedere alla tentazione di vedere tutto e percepire la vita attraverso un’idea di finestra dalla quale non si vede a fondo sono le uniche strategie di sopravvivenza perché «se vedessimo davvero qualcosa non resisteremmo alla tentazione di buttarci di sotto» (E. Ghezzi)…

Questo film è laconico e quasi completamente muto, direi quasi alla Kaurismäki se non fosse per l'assenza di quell'umorismo e di quelle situazioni surreali che ravvivano le opere del regista finlandese. La narrazione è temporalmente decostruita, al punto che soltanto verso il finale si comprende chiaramente il vero ordine cronologico delle vicende. Leon, il protagonista, assiste allo stupro di una ragazza, Anna, e viene accusato di essere il colpevole. Condannato, quando esce dal carcere inizia a sorvegliare di nascosto Anna, del quale si è invaghito. Dopo averle messo nel sonnifero nel vasetto dello zucchero, si introduce nottetempo in casa sua per starle vicino e guardarla mentre dorme, ma anche per ripararle piccoli oggetti (come in "Ferro 3") e per lasciarle dei regali. La quarta notte, però, verrà scoperto... Una pellicola notturna e disperata, lenta ma a tratti intrigante, anche se in fondo piuttosto inconcludente.

Ritratto tagliente di una Polonia ritrovata dopo il lungo esilio volontario. Film capace di mantenere viva l’attenzione nel silenzio e nel buio, di rinvenire carcasse di drammi facendo rifulgere, tuttavia, piccoli momenti di grazia.   

"Four nights with Anna" in realtà non sorprende molto e per qualche ragione strana non riesce a fare totalmente breccia se non a tratti, però resta intatto il senso di osservare un'umanità maltrattata e umiliata, i deboli e gli ultimi, con la cornice di una storia d'amore che più bizzarra non si può. E se la trama ad un primo sguardo appare malata e morbosa il regista riesce, grazie anche all'incantevole interpretazione del protagonista, a svuotarla di qualsiasi malizia rendendola sensibile, delicata e soprattutto nel finale struggente. Senza rinunciare a dei pugni nello stomaco ben assestati e fortissimi.

lunedì 13 novembre 2017

The Place - Paolo Genovese

tratto da una serie tv Usa, The Booth At The End, il film di Paolo Genovese era atteso dopo l'exploit, di critica e di pubblico, del film precedente.

molti attori sono presenti in entrambi i film, qui protagonista assoluto è Valerio Mastandrea, sempre seduto (e sempre più somigliante a Francesco De Gregori), è un po' Aladino, un po' psicologo, un po' (cattiva?) coscienza delle persone che lo cercano per raggiungere i loro sogni e desideri.

le persone e le loro storie sono spesso collegate, ma solo lui lo sa, e prova a muovere i fili invisibili che li collegano, riuscendoci, faticosamente, in parte.



The Place resta sotto Perfetti sconosciuti, è meno corale, con un finale meno esplosivo, più freddo, e allo stesso tempo è un film coraggioso, non ci sono facili battute, c'è poco da ridere, di sicuro è un film diverso dai soliti, merita di sicuro il biglietto del cinema - Ismaele








…Non tutto funziona, è giusto dirlo. Gli interpreti sono credibili, ma non tutti i loro personaggi e le loro storie. Qualcuno è abbastanza pleonastico, per non dire controproducente alla statura del film (vogliamo bene a Sabrina Ferilli, ma a lei viene riservato l'ingrato compito di chiudere i giochi con un epilogo tanto posticcio quanto insulso, che stride pesantemente con quanto di buono si era visto fino allora), mentre anche la sceneggiatura spesso si incarta su se stessa rendendo il film un po' ripetitivo e prolisso (diciamo che qualche minuto in meno avrebbe giovato), dove la retorica e il pietismo, seppur tenuti sotto controllo, sono sempre in agguato.
Malgrado tutto, ritengo comunque The Place un film coraggioso e riuscito, un film dalla struttura universale e in controtendenza rispetto all'omologato panorama italiano, dove evidentemente l'ottimo cast dà una grossa mano a nascondere le pecche di cui sopra. Paolo Genovese è un cineasta intelligente, consapevole dei propri mezzi e dei propri limiti. E le sue pellicole sono validi esempi di un buon "cinema medio" di cui, opinione personale, in Italia abbiamo tanto bisogno per riportare la gente ad affollare le sale.

The Place sperimenta una scrittura filmica che conserva il teatro come spettacolo vivo, facendo respirare la finzione e la performance, lasciando conversare l'immagine teatrale, che si offre senza limiti allo sguardo, e il quadro cinematografico, che costringe il punto di vista. Convertito il salotto in ristorante, i suoi attori vivono il set come vivrebbero la scena, sono le loro performance a organizzare lo spazio, costruendo il proprio personaggio davanti alla macchina da presa.

Il successo di Perfetti Sconosciuti ha caricato di aspettative l’arrivo di The Place. La coralità del primo film è richiamata nel secondo, ma questo rappresenta l’unico punto di contatto tra le due pellicole. Se nel primo caso si trattava di una commedia brillante e divertente, nel secondo lo spettatore si trova di fronte ad un genere quasi drammatico. Ovviamente non è qui che nasce la delusione. La svolta di Perfetti Sconosciuti è rappresentata dal colpo di scena finale, tentato anche in The Place pur senza bissarne la forza e l’incisività. Insomma, manca quel quid che inevitabilmente ci si aspettava. Stesso discorso per il ritmo: serrato sì, ma a tratti forzato e poco scorrevole.

The Place non è un film eccezionale, ma proprio per questo motivo sembra che Genovese sia a proprio agio, perché anche in un adattamento abbastanza pedissequo (sono uguali alla serie tv anche le singole storie e il personaggio della cameriera), si muove benissimo ed esalta a dovere un materiale che, è facile intuirlo, in altre mani poteva rendere molto meno. Proprio il suo stile estremamente tecnico e calligrafico lo aiuta, con un necessario moltiplicarsi di inquadrature differenti per mostrare sempre la stessa situazione senza uscire mai dai binari di una messa in scena invisibile e funzionale agli attori.
Alla fine nelle sue mani quella di The Booth At The End sembra una storia italiana, anche se non lo è. Sembra una storia di personaggi teatrali pirandelliani, una in cui ognuno mette in scena se stesso davanti ad un pubblico formato da una sola persona, in un film che insiste sottilmente su quelle debolezze umane che inducono le persone a chiedere un aiuto disperato.

Mastandrea dimostra per l’ennesima volta la sua bravura nel saper tenere la scena pur non muovendosi dalla sedia, non comprendiamo chi rappresenti veramente, se una figura demoniaca o un giustiziere che conduce il richiedente nella propria zona d’ombra.
The Place risulta un film ambizioso, ricco di dialoghi, primi piani, con narrazione che si svolge in un unico ambiente che a tratti rischia di stancare lo spettatore, sopratutto a causa di alcune interpretazioni deboli che fanno decadere il magnetismo scenico. Anzi, probabilmente l’errore più grande é stato quello di mettere in scena troppe storie, troppi personaggi, e sviluppandone davvero bene pochi, rischiando così che non si crei abbastanza empatia con le storie e i suoi portatori.
Un’occasione mancata probabilmente, ma non vogliamo buttarla direttamente nella pattumiera, anzi apprezziamo lo sforzo di realizzare qualcosa di diverso dalla solita commedia – porto sicuro per molti registri nostrani – e siamo certi che Paolo Genovese vuole dimostrarci che può mostrarci la sua bravura su altri generi anche drammatici…

domenica 12 novembre 2017

Klopka (The trap) - Srdan Golubovic

Srdan Golubovic ha fatto pochi film, questo è il secondo che vedo, dopo Krugovi (Circles), e anche Klopka è memorabile.
ottima sceneggiatura e bravissimi attori, tra cui Miki Manojlovic, in una piccola, ma fondamentale, parte.
siamo a Belgrado, dopo la guerra e la globalizzazione, tutto è in vendita, tutto si vende e si compra, anche le vite umane hanno un prezzo.
un bambino malato, un'operazione decisiva, due ottimi genitori, una proposta irricevibile, e poi succede tutto.
grande film, fosse arrivato da Hollywood sarebbe stato nei nostri cinema un mese, e sarebbe stato nella cinquina degli Oscar.
cercatelo, non ve ne pentirete, promesso - Ismaele







"The Trap" racconta una storia del nostro tempo, descrive la crudele realtà della società contemporanea in cui, per necessità, anche chi apparentemente conduce una vita tranquilla può da un momento all’altro sprofondare nel baratro. Non vuole essere un film che suggerisce cosa sia giusto e cosa sbagliato, ma semplicemente descrive con lucida drammaticità cosa può accadere ad un uomo quando è costretto per amore filiale a fare delle scelte che probabilmente non avrebbe mai pensato di poter fare…

Thriller serbo poco conosciuto, vale la pena di scoprirlo. Una buonissima regia che sa mettere angoscia e molto disagio. I personaggi del film vengono devastatati psicologicamente piano piano, vuoi per la preoccupazione per la malattia del figlio, vuoi per la varie difficoltà a cui viene sottoposto il padre. Non lascia scampo, nemmeno la fine. Anche le interpretazioni sono perfette. E' da vedere.

…El progresivo deterioro interior y exterior de la pareja protagonista, paralelo al declive físico de su vástago, permite a Srdan Golubovic abrir sus intenciones al dibujo de una radiografía que alcanza todos los estratos sociales de la ciudad, desde la miseria infantil a los grupúsculos enriquecidos con el tráfico de armas. Con verismo palpable y una dirección inteligentísima, que encadena con pretendida imperfección largos encuadres estáticos e imposibles rupturas de planos, la historia atrapa en su brutal sinceridad desangelada, en el cariño casi inmediato del público hacia unas figuras entrañables de puro identificables. Impredecible pese a sus presuposiciones, “The trap” sacude la conciencia a ritmo de thriller y cala desde la insondable profundidad del drama familiar. Obligada.

 A harsh, existential thriller, this, which is also a terrific portrait of life in the grey, hopeless suburbs of contemporary Belgrade. 
   Mladen and Marija are both professionals, he an architect, she a teacher, who nevertheless, working for the state, are relatively poor. So when their young son is suddenly diagnosed with a life-threatening condition that only a trip to a specialist hospital in Germany can put right, there is no way they can afford it, and their lives are ripped apart as they realise their powerlessness. No-one can help, so Marija puts an ad in the newspaper (apparently a common resort) asking for financial help. 
   A response from a mysterious caller presents Mladen with an offer he cannot accept yet can hardly refuse since the life of his son is at stake. It's stomach clenching, unbearable to watch, as this everyman is forced into an evil act which will hopefully save his son. Ironies pile upon ironies, as he descends into a spiral of guilt. What would you do to save your child's life? 
   Meanwhile in the streets, in the post-Milosevic  'society in transition', wealth and poverty co-exist in a corrupt dead-hearted society where criminals with expensive cars can do as they please and little boys live on the margins washing car windscreens. 
   All framed by a  'confession' by Mladen to an unknown listener, the stunning ending can be seen as the ultimate tragedy, or a kind of redemption. A member of the audience remarked on its utter sadness. It's a sad country,' responded the director.

'Yaşıyor' Yönetmen Sırrı Süreyya Önder Senaryo - Tufan Taştan

venerdì 10 novembre 2017

Al fuoco pompieri! (Horí, má panenko - The Fireman's Ball) - Miloš Forman

film che fa ridere, mischiando risate a tristezza.

una festa che è anche una fotografia di un mondo con un grande avvenire dietro le spalle, che non può più reggere.
tutti rubano, alcuni credono di avere potere, ma è potere della miseria, non resta più niente da rubare, solo guardare le ragazze, l'ultima forma di schifosa prevaricazione, di un gruppetto di vecchietti bavosi.
alla fine non c'è più niente, neanche un tetto, la Primavera di Praga è dietro l'angolo, poco più in là i carri armati.
il film sarà candidato all'Oscar nel 1969.
Miloš Forman lascerà Praga, e il film intanto sarà bandito dagli schermi della Cecoslovacchia, e non solo.
film che merita molto, un gioiellino, cercatelo, non ve ne pentirete - Ismaele


 

 

 

Il ballo organizzato dall'associazione dei pompieri di un paesino cecoslovacco si trasforma in un disastro: naufraga nel caos il tentativo di eleggere la miss della serata, i premi della lotteria vengono trafugati, scoppia un incendio in una casa vicina e l'ultraottuagenario capo in pensione (Jan Stöckl) rimane senza regalo di addio.
Tragicomico e malinconico come solo il cinema dell'Est Europa sa essere, Al fuoco pompieri! è uno dei film più importanti e maturi della prima parte di carriera di Miloš Forman. Dosando attentamente la comicità agrodolce, il regista costruisce un tenero ritratto di un gruppo di uomini di mezza età totalmente inetti, incapaci non solo di organizzare una festicciola di paese ma anche (e soprattutto) di dare un senso alla propria divisa e alla propria missione. Sfiorando il grottesco in alcune sequenze (la fuga delle aspiranti miss con il bailamme che ne segue, la “premiazione” dell'ex capo) il ballo dei pompieri diventa metafora di tutti i fallimenti e di tutte le circostanze assurde che costellano le nostre vite: un valzer crepuscolare e buffo al contempo che si conclude, amaramente, su una bellissima nota onirica nel finale. Buona performance corale del cast privo di grandi nomi ma ricco di volti espressivi. Prodotto da Carlo Ponti e nominato all'Oscar per miglior film straniero, provocò in patria aspre polemiche, soprattutto da parte della categoria dei pompieri che lesse la divertente satira come un attacco personale.

da qui

 

In Al fuoco, pompieri, conosciuto in Italia anche con la traduzione letterale del titolo ceco Fuoco ragazza mia!, Miloš Forman si focalizza sulle storture che falcidiavano il suo Paese e, pochissimi mesi prima della loro esplosione, mentre la febbre sociale stava per raggiungere il punto di ebollizione, le racchiude in una sera di festa destinata ad andare a rotoli da cui attaccarle apertamente. Con l’arma della satira più pungente, le prende e le ridicolizza, le vira all’assurdo, le disumanizza, dipingendole impietoso, senza filtri, senza altri veli che non siano quelli della finzione cinematografica. Ne ha per tutti Forman, nella sua personale lotta contro un intero sistema statale ormai incancrenito: ne ha per gli uomini in divisa, fra i quali nessuna personalità riesce a emergere sull’altra, come se fossero un grigio e informe ammasso di mediocrità; ne ha per l’intera cittadinanza convitata alla festa, fra selvaggi accoppiamenti sotto il tavolo, ulteriori furti al posto di restituzioni e candidate miss non così tanto avvenenti che comunque, al momento della sfilata, fuggono e si chiudono in bagno mentre a ricevere la corona, per esclusione, sarà un’anziana paesana. Fino alla messa alla berlina della falsa solidarietà di una comunità intera, che al vecchietto che ha perso tutto nell’incendio della sua casa, quello stesso vecchietto la cui sedia viene progressivamente avvicinata alle fiamme “perché non prenda freddo” ma di spalle “perché non veda la sua casa bruciare”, dona anziché denaro i biglietti di una lotteria della quale i premi non esistono più, già trafugati da mani ignote. E a nulla servirà il tentativo di recuperarli, a luci spente per (tentare di) lasciare nell’anonimato i colpevoli redenti, se non a infangarsi ancora una volta, a rivelarsi per quello che si è, in una società talmente marcia che persino l’ultimo sparuto barlume di onestà non può che ribaltarsi in vergogna, ignominia, fallimento. Miloš Forman, profeta di quello che sarebbe accaduto l’anno dopo e che lo costrinse, fra interventi militari e censori, ad abbandonare il suo Paese, già nel ’67 distruggeva la burocrazia con l’arma dell’ironia, colorava lo schermo della più ottusa stupidità della gente e dell’arroganza degli incompetenti che si aggiogano il diritto di decidere per gli altri, metteva in scena il caos per mostrare come non possa che generare altro e peggiore caos. Centrando un film straordinario, bruciante, sofferto, mai abbastanza celebrato: il sontuoso e urticante monumento funebre di un’intera civiltà.

da qui

 

Milos Forman's The Firemen's Ball was banned "permanently and forever" by the Communist regime in Czechoslovakia in 1968, as Soviet troops marched in to suppress a popular uprising. It was said to be a veiled attack on the Soviet system and its bureaucracy, a charge Forman prudently denied at the time but now happily agrees with. Telling a seductively mild and humorous story about a retirement fete for an elderly fireman, the movie pokes fun at citizens' committees, the culture of thievery, and solutions that surrender to problems…

Is "The Firemen's Ball" dated today? That's an interesting question. It no longer borrows energy from its risk-taking, as so many Soviet bloc films did in the 1960s and 1970s. In those days any new film from Poland, Hungary, Yugoslavia or Czechoslovakia, in particular, was likely to be a veiled attack, wreathed in the glamour of danger. But "The Firemen's Ball" hasn't dated as entertainment; Forman doesn't push his political points, being content to let them make themselves, unfolding gracefully from the human drama. The movie is just plain funny. And as a parable it is timeless, with relevance at many times in many lands. Remarkable, how often when I learn of a bureaucratic brainstorm I think of the fireman moving the farmer's chair closer to the flames.

da qui

 

 

 

dice Miloš Forman

  • „Non avevo in mente di fare un’allegoria politica – non mi piace  nei film però purtroppo nella storia del furto alla lotteria i primi protagonisti del regime comunista hanno riconosciuto loro stessi.“
  • „Insieme a Papousek abbiamo preso il tutto e ce ne siamo andati da Praga a Krkonose (montagna al nord della Boemia, nota red.) per scrivere una storia di un disertore che si nasconde nei sotterranei del palazzo Lucerna di Praga. Ci ha raggiunto Ivan Passer per aiutarci, ma neanche lui riusciva a tirarci fuori dal punto morto della sceneggiatura. Così abbiamo deciso di riposarci un po’ e siccome nel paese dove stavamo c’era un ballo, organizzato dai pompieri locali, abbiamo deciso di recarci là. Volevamo giusto bere qualche birra, guardare la gente, chiacchierare con le ragazze e rilassarci un po’. A Vrchlabi, dove stavamo, la maggior parte della gente lavorava  nella fabbrica locale e ogni tanto organizzavano dei balli per divertirsi un po’. Questo qui era  stato organizzato dai pompieri volontari, che per far divertire  i partecipanti avevano  preparato un concorso di bellezza per le proprie figlie. C’era anche una lotteria. Bevevano e litigavano con le loro mogli. Noi tre li guardavamo a bocca aperta. Durante tutto la giornata seguente non facevamo altro che parlare con Ivan Papousek della serata passata. Lunedì abbiamo iniziato a buttare giù le nostre idee: chissà cosa sarebbe successo se... E da martedì abbiamo iniziato a scrivere un’altra sceneggiatura. Quella storia  si scriveva da sola. Ogni volta che c’era un problema, siamo andati a Vrchlabi a farci due chiacchere con i pompieri, dato che avevamo scoperto che locale frequentavano per giocare a carte, bere  birra e giocare a biliardo. Ormai ci conoscevano ed erano aperti con noi – così abbiamo finito la prima versione della sceneggiatura del film Al fuoco, pompieri!iIn sei settimane.“
  • „Nel passato un film del genere sarebbe stato semplicemente vietato. Ma in quel periodo speciale della Primavera di Praga anche i capi dei comunisti stavano perdendo il senso di  sicurezza e quindi dissimulavano  le azioni impopolari dietro dei raggiri . Per esempio organizzavano le proiezioni di un  film che in realtá volevano vietare, il pubblico però se lo sceglievano loro. Pagavano  dei provocatori che dovevano ad esempio gridare che il film offendeva la classe lavoratrice -per poi poter ritirare il film dalla distribuzione sostenendo che „il popolo non lo gradisce.“
  • „La prima proiezione pubblica della pellicola Al fuoco, pompieri! venne  organizzata a Vrchlabi. I personaggi influenti  della politica e  della cultura scelsero  questo posto sperando che i cittadini si sentissero offesi e ridicolizzati dal modo in cui li ho presentati sullo schermo. Avevano presupposto che la loro reazione sarebbe stata talmente furiosa che mi fu addirittura vietato di partecipare alla proiezione per non essere magari ferito. In realtà il pubblico di Vrchlabi rise durante tutto il film. Poi arrivo´  il momento della discussione aperta. Uno dei provocatori, portati dal partito, si alzo´ e dichiaro´ in nome  di tutti i presenti, il suo disgusto per il  livello a  cui questo film arrivava ad umiliare la nostra classe lavoratrice e soprattutto i pompieri. Quando finí o, uno dei pompieri locali chiese  di parlare – per caso anche lui si chiamava Novotny come il Presidente della Repubblica di quel tempo. Il signor Novotny si alzo´ e disse: . “Beh, compagni, io non so... Davvero non so. Sapete, non è che io sia un oratore, un intellettuale, però davvero, io non so. Qui il compagno afferma che questo qui ci umilia, vabbè magari sì, ma cavolo, gente, non vi ricordate com’era quando ha preso fuoco la stalla degli Jira? E noi che trincavamo  come dei pazzi al bar? E poi quando siamo finalmente arrivati dagli Jira ci siamo resi conto di aver lasciato la pompa nella base? Ma, ve lo ricordate? E poi, quando la macchina ci è scivolata e siamo caduti di lato sul ghiaccio? Ancora oggi vedo la capra degli Jira in fiamme. Non è che siamo così tanto beoti in ‘sto film. “

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