giovedì 27 febbraio 2014

La casa dei giochi – David Mamet

l'avevo visto al cinema, nel 1987.
oggi continua ad essere un film perfetto, non capita spesso.
se vi interessa una storia che non ha niente da dire, dove tutto è prevedibile, con attori di quart'ordine, dirigetevi verso altri film.
"La casa dei giochi" è un film nel quale si resta intrappolati, e te lo ricorderai per sempre, promesso - Ismaele






…Joe Mantegna a Lindsay Crouse,
mentre lei gli scarica addosso tutti i colpi del proprio revolver, 
in una delle scene finali de La Casa dei Giochi di David Mamet
Ma perché la psicoanalista gliene dava tanti? E perché il “paziente” ne voleva ancora?
Perché la psicoanalista stava sopprimendo, col paziente, la colpa che non poteva sostenere, colpa incarnata (in lui) davanti ai propri occhi. Ed il “paziente”, che l’aveva capito bene, le diceva “dammene ancora, signora”. Nel senso di “dammene pure quanti ne vuoi, non è così che risolvi il tuo problema, io non c’entro niente, non era questa la mia partita, la mia era più lieve e leggera, tutto sommato più innocente.”
La partita di lui riguardava la maneggevolezza degli Oggetti, la dicibilità, ammissibilità, frequentabilità degli oggetti.
La partita di lei riguardava il Soggetto, la pesantezza e l’indicibilità dei suoi conflitti e dei suoi tabù. Ma lui non poteva sapere cosa fosse in gioco per lei, che era una Signora.
Lui era solo un ladro e gli piaceva rubare.
Lei spara e spara e ciononostante non gli fa niente, non è quello il punto, non è quello il bersaglio.
È solo una reazione (pura reattività, pura perdita, direbbe Jacques Lacan), nessuna risposta a niente, nessuna soluzione a niente.
Sopprimendolo non può comunque sopprimere il dato di fatto che lui “le è già accaduto”, non può sopprimere l’irrimediabilità di ciò che è già successo. Sparare non rimedia, non redime e non purifica (nonostante ci sia un capro espiatorio e ci sia pure un sacrificio, non c’è catarsi). Sparare non riavvolge la pellicola, non sfiora nemmeno il vero discorso dell’Errore di lei, della sua Colpa e del suo non riuscire né a sostenerla né ad elaborarla.
Per uno spettatore psicoanalista, questo finale di film è pura goduria. Ma lo è tutto il film. Logico e preciso…

David Mamet (Chicago, 1947), tra i più grandi sceneggiatori viventi, esordisce alla regia con questo film sorretto da una storia scritta magistralmente. La musica classica che accompagna i titoli di testa prepara il campo al predominio iniziale di ambienti facoltosi, patinati e molto illuminati. Nelle scene d'apertura viene ribadita un'informazione riguardante la protagonista (Lindsay Crouse), una psicoanalista dall'aspetto mascolino autrice di un libro best-seller: se l'anziana amica le dice "[...] il tuo conto in banca aumenta", il giovane paziente è ancora più efficace quando si serve del postulato "[...] tu sei ricca". Lo spettatore si fa dunque un'idea precisa sulla situazione finanziaria della donna e proprio da qui la vicenda può muovere i primi rilevanti passi. L'arrivo della notte, sostenuto da una musica tendente al jazz, sposta l'azione nella desolata casa dei giochi attorno a cui Mamet, autore proveniente dal teatro, ha costruito questo film sull'inganno e sul rapporto creatosi tra una malavita maschilista e sempre più avida di denaro e un asettico mondo degli studi e del sapere…

The plotting is diabolical and impeccable, and I will not spoil the delight of its unfolding by mentioning the crucial details. What I can mention are the performances, the dialogue and the setting. When Crouse enters the House of Games, she enters a world occupied by characters who have known each other so long and so well, in so many different ways, that everything they say is a kind of shorthand. At first we don't fully realize that, and there is a strange savor to the words they use…
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mercoledì 26 febbraio 2014

Che vita da cani! (Life Stinks) – Mel Brooks

il film è una variante di "Una poltrona per due", non è un capolavoro, ma regala un'ora e mezza di comicità.
ridere fa bene, e Mel Brooks, che ha fatto "Frankenstein Junior", è un benefattore dell'umanità - Ismaele



Proprio un bel filmetto divertente ma impegnato e con delle note tristi, io Mel Brooks lo preferisco così...meno demenziale ma molto sarcastico e cinico senza farci mancare comunque simpaticissime gag e sequenze comiche tipiche del suo stile.
La sceneggiatura non sprizza certo originalità ma fila liscia come l'olio senza annoiare neanche un minuto e senza cadere mai nel ridicolo o nell'eccessivo (a parte la scena,divertente, del combattimento tra ruspe-dinosauri) , ed era questa la mia paura.
Ho riso davvero molto...il balletto per fare l'elemosina, lui che spoglia la barbona vestita da mille strati, la lite eterna con il pazzo che dice di essere più ricco di lui e appunto la scena della barella in ospedale in cui lo mandano in coma da Torazina

Brooks, as usual, is his own best asset. As an actor, he brings a certain heedless courage to his roles. His characters never seem to pause for thought; they’re cocky, headstrong, confident. They charge ahead into the business at hand. There is a certain tension in “Life Stinks” between the bull-headed optimism of the Brooks character, and the hopeless reality of the streets, and that’s what the movie is about.
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martedì 25 febbraio 2014

Parada - Srdjan Dragojevic

una commedia costruita con una sceneggiatura che ti cattura, non te ne stacchi più.
la fantasia è almeno pari alla realtà, tutto è già successo.
il film sorprende per la sincerità dei personaggi, per l'ironia, e anche più, per lo spirito balcanico, dove le mezze misure sono bandite, tutto è eccessivo, e perfetto per chi ha la fortuna di non perdere "Parada" - Ismaele 




Parada è una scatenata, irresistibile commedia che non si ferma di fronte a niente, che mette in campo e in scena, con il filtro dell’ironia e dello sberleffo, il repertorio più inquietante dell’anima profonda balcanica: il culto maschile e maschilista della forza bruta, il delirio della violenza e del sangue che ha trovato nelle guerre post-jugoslave la sua espressione esemplare, l’amore feticistico per le armi da fuoco e per le lame, la passione smodata per l’alcol e per la musica fracassona simile a una scarica di kalashnikov. E che mette in scena, anche, l’oscura, inconfessata fascinazione che tutto questo riesce ad esercitare…
…Altro che manifesto politically correct, qui si osa mettere in scena una scorrettezza al limite dell’oltraggioso e spalancare finestre sull’abisso. Onore al regista Srdjan Dragojevic, che è riuscito a mettere insieme una narrazione di strepitosa ricchezza e complessità, il che è le negazione della piattezza e dell’unidimensionalità del classico film militante, di ogni militanza…

… Dragojević riesce di nuovo a raccontare una tragedia, facendo anche ridere - a volte molto amaramente - con alcune battute sagaci, specie nei dialoghi tra gli ex combattenti (Limun rivolgendosi ad Azel: 'Hei, sai cosa sono le minoranze sessuali?' Risposta: 'Sì, siete voi, i serbi!'; Halil, vedendo insieme Limun e Niko: 'Ah ah ah, ma guarda qua, un cetnico! Un ustascia! Vi manca solo un frocio!!!', e Limun e Niko si girano verso Radmilo che fa ciao ciao con la manina).
Insomma, Parada, una tragicommedia sociale come l’ha definita Dragojević stesso, sta girando con buon successo per i vari territori della ex Jugoslavia, portando avanti il suo discorso di tolleranza e di difesa dei diritti umani, perché al di là di tutto è questo ciò di cui parla il film. Diritti umani, diritto alla libertà, diritto all’esistenza, in una regione, quella balcanica, ancora così indietro rispetto a questi temi, tuttora oggi protagonista di scontri violentissimi contro i manifestanti ai gay pride che ostinatamente ogni anno si cercano di organizzare in questi giovani Stati.
Purtroppo il percorso da fare è lungo.
Bihac ieri ha dimostrato la sua inciviltà, il suo primitivismo, l’ignoranza specialmente delle persone più giovani, quei ventenni che dovrebbero essere il futuro di questo Paese, al cinema. Risate, battute volgari e violente, schiamazzi… E’ stato difficile non alzarsi in sala e mandare tutti quanti a quel paese.
Non so se chi ha visto questo film ieri sera abbia scelto cosa andare a vedere, con consapevolezza. Ma mi atterrisce ancor di più pensare che queste persone, questi barbari, siano andate apposta al cinema per farsi due risate guardando i froci. E quello che hanno visto probabilmente non li ha soddisfatti, perché qui – con la massima bravura e intelligenza di Dragojević – le poche scene di contatto fisico sono di una delicatezza assoluta…

Srđan Dragojević scrive una sceneggiatura furiosa, pensata assistendo alla televisione agli eventi legati al gay pride di Balgrado del 2001, interrotto dalle violenze degli oppositori, che fecero numerose vittime. Trenta gli arresti, zero le condanne. Nemmeno un pur formale stigma da parte del governo. L’edizione del 2009 non venne nemmeno autorizzato a causa delle minacce da parte delle organizzazioni di estrema destra. Quello del 2010, il secondo tenutosi davvero, vide 1000 partecipanti difesi dalla polizia da 6000 violenti oppositori) che sposta continuamente il punto di vista da un personaggio all’altro garantendo al film un ritmo sostenuto che porta alla conclusione dei suoi 115 minuti in un soffio. Soprattutto, sceglie di raccontare la sua storia in chiave di commedia, calcando i toni sulle situazioni, optando spesso per lo stereotipo e trasformando a tratti i suoi personaggi in macchiette, con i personaggi positivi sopra le righe per ricordare che siamo in zona commedia e quelli negativi in piena chiave grottesca per metterne ulteriormente in risalto ignoranza e grettezza. Sbagliato? No, funziona e diverte. In fondo lo stereotipo è la ricetta per molte commedie contemporanee e non. Ma vale la pena di rimarcare come Dragojević, con i suoi sei film girati negli ultimi vent’anni, alcuni decisamente controversi, sia un fenomeno commerciale nel suo Paese, cosa che attribuisce a questo film un peso politico, grazie alle sue 350’000 entrate tra Serbia e Montenegro.
Girato in località segrete (in vari Paesi della ex Yugoslavia) a causa delle minacce ricevute dal regista,Parada non è certo un capolavoro e l’abbondante utilizzo di luoghi comuni gli alienerà qualche simpatia. Ma rimane certamente un film importante per ciò che narra e soprattutto per il luogo in cui la storia si svolge.

Nella seconda parte il racconto scivola via meglio, con più naturalezza, dando al film un ritmo più gradevole. Interessante risulta il racconto dei caratteri legato agli animali. Radmilo è un veterinario, Limun ha un cane che adora, il croato Roko è molto legato ad un asinello. Nel momento in cui gli ex soldati hanno a che fare con i loro animali dimostrano il loro lato più sensibile, quasi materno, avvicinandosi a Radmilo che, in quanto veterinario, in qualche modo diventa un simbolo, conquistando la loro stima. In conclusione il film può essere giudicato con due soli aggettivi, che racchiudono tutti i pro e i contro del film: semplice e diretto.
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domenica 23 febbraio 2014

12 anni schiavo - Steve McQueen

discesa all'inferno e ritorno, alla fine, dopo 12 anni di schiavitù.
milioni di altri non hanno avuto un destino simile, né mai lo avranno, senza nome.
Salomon è una persona buona e ingenua, che per dodici anni deve sopravvivere, nelle mani di gentaglia da galera, con padroni "buoni", e altri psicopatici.
non c'è un momento di ironia o di pace, nei film di Steve McQueen, chi vede il film non ha momenti in cui il dolore e la sofferenza si dimentica o si affievolisce, in questo senso non è un film per tutti, e però è terribilmente necessario. 
se c'è un film al quale si può associare, non è "Django unchained", film bellissimo, ma ironico, spesso, e dove si gioca, e ci si diverte; "Schindler's list" è il parente più prossimo, entrambi sono film sull'olocausto, solo che quello dei neri è durato molto di più, il padrone Michael Fassbender e il comandante del lager Ralph Finnies, con assoluto e indiscusso potere di vita e di morte, sono due figli di uno stesso padre, che forse sta nella Bibbia che insegna e ordina la sottomissione.
è assolutamente d'attualità il fatto che Salomon si salvi per un pezzo di carta che uno sceriffo sventola al padrone, tutti gli altri sono sans papier e continueranno, con assoluta normalità, a fare gli schiavi, la chiesa benedice e le leggi sembrano immutabili.
Chiwetel Ejiofor (Solomon), Michael Fassbender (Edwin Epps) e Lupita Nyong'o (Patsey) sono più che straordinari, ciascuno di loro, da solo, vale la visione del film, imperdibile, senza se e senza ma - Ismaele 







Il film di Steve McQueen ha il merito di gettare luce non solo su un'incredibile vicenda umana ingiustamente dimenticata, ma anche su un'altra pagina poco edificante della storia degli Stati Uniti, la tratta di uomini liberi. "12 Anni Schiavo" è la storia di un solo uomo, costretto a lottare per riprendersi ciò che gli spetta; è un film sulla speranza e sulla capacità di alcuni uomini di non cedere alla disperazione. Non è il tipico film di denuncia sulla condizione degli schiavi o l'ennesima riflessione autocritica sulla storia americana. Per tornare a casa, Northup deve accettare le regole dello schiavismo, ripensare i propri codici morali, scendere a terribili compromessi. McQueen ci mostra in alcune, toccanti sequenze, la discesa negli inferi di Northup…

Il risultato è eccellente, ma nel contempo si sente la mancanza dello Steve McQueen degli inizi, quando “per fare un film, bastava farlo” e non c’erano i soldi di Brad Pitt che spingevano a scritturarlo nelle vesti del canadese antischiavista, con la barba da mennonita (qualsiasi commento è superfluo…). Nonostante i limiti creativi e l’ansia da prestazione, 12 Years A Slave riesce comunque a tenere insieme i pezzi, raccontando con onestà una pagina oscura e in gran parte ancora inesplorata della storia americana e riuscendo nel contempo a dire qualcosa sul significato della perdita della libertà individuale. Ritroviamo infatti il talento del McQueen delle origini nelle scene iniziali di rapimento e tortura: una delle più potenti rappresentazioni visive del concetto di annichilimento, da cui sembra impossibile potersi riprendere – e il lieto fine del ritorno a casa di Solomon conferma quest’impressione, lasciando allo spettatore l’amaro in bocca e il difficile compito di riflettere su quanto ha appena visto. Per questo soprattutto, e non per altri motivi “necessari”, 12 Years A Slave è un grande film.

…Fortunatamente, il regista inglese lascia qualche frammento di bravura e di autorialità raffinata in questa torta preconfezionata, quasi a lasciare il segno in un’opera forse non propriamente sua (è la nostra unica speranza). La sequenza da brivido della “semi-impiccagione” ricorda i momenti migliori di Hunger: intensità dell’azione, freddezza nel mostrarla e durata infinita. Due scagnozzi (uno dei quali è il redivivo Paul Dano) dello schiavista di turno, tentano d’impiccare Solomon, ma sono fermati a tempo da un terzo individuo che salva “parzialmente” il protagonista. Parzialmente, perché lo lascia comunque appeso all’albero con le sole punte dei piedi a terra, in un equilibrio precario fra la vita e la morte. Perché questa sequenza è così importante a livello cinematografico? A livello estetico e sul piano simbolico trafiggono lo spettatore, lasciandolo con un ricordo struggente. L’inquadratura è fissa e in campo totale. La visione, per il fruitore, è forse leggermente più ampia che su un palcoscenico teatrale. Solomon, circa al centro dell’inquadratura, agonizza fra la vita e la morte soffocato dai suoi stessi rantoli. Egli non si trova in primo piano, ma più in profondità; tracciando una linea immaginaria, possiamo dire che il protagonista si situa à metà fra l’occhio dello spettatore e l’orizzonte. Ora, perché Steve McQueen decide di mostrare la sofferenza in campo lungo e non in primissimo piano? Ciò che gli interessa è ciò che ruota intorno a Solomon e non il suo volto…
Era dai tempi di "Schindler's List" che un film non mi sconvolgeva e mi turbava in tale maniera, ve lo giuro, sono uscito dalla sala, non dico con gli occhi lucidi, ma poco ci mancava e lo dico io che solitamente ho lo stomaco di ferro e reggo qualunque visione, ma questo bellissimo film di Steve McQueen (regista da tenere assolutamente d'occhio perché ha talento da vendere) mi ha veramente devastato.
Vedere questo film è un esperienza davvero scioccante, il dolore e la rabbia che si provano durante la visione, sono indicibili, alcune scene ti restano dentro, ancora ho in testa e nelle mie orecchie le grida di dolore, terrore e disperazione della ragazzina che viene quasi frustata a morte e sono certo che chiunque, quando vedrà il film, avrà quelle grida in testa per un bel pezzo…

12 años de esclavitud no es una cinta complaciente. No está hecha para gustar a todo tipo de público, aunque no creo que nadie vaya a poner en duda su calidad. Escocerá especialmente en Estados Unidos, un país que lleva décadas queriendo olvidarse del tema, a pesar de que aún hay mucha gente que recuerda que, no hace demasiados años, una mujer negra fue encarcelada por negarse a ceder su asiento del autobús a un blanco. Precisamente por ese tipo de actitud, que considera casi un pecado utilizar una palabra que ellos mismos acuñaron (me refiero, claro está, a la tan temida “nigger”), que pretende enterrar un pasado de atrocidades en el olvido, 12 años de esclavitud es una película terriblemente necesaria. Porque siguen —y seguirán— haciendo falta cineastas que nos cuenten aquello que no queremos oír. Bravo, Mr. McQueen.

…Ne esce fuori un film stereotipato e semplicistico, dove tutti i 'buoni' (i neri) sono carne da macello e tutti i 'cattivi' (i bianchi) sono spietati assassini livorosi e assetati di sangue, oltre che mentalmente instabili e perfino sessualmente repressi...

…Todas y cada una de las facetas técnicas que componen “12 Años de Esclavitud” resultan brillantes (como poco). Desde su exquisita escenografía, pasando por su formidable diseño de vestuario, su notable fotografía, o su prodigioso trabajo de maquillaje. Es por ello natural que la película se vaya abriendo hueco entre los reconocimientos cinematográficos más importantes y, por supuesto, entre los compungidos corazones de sus espectadores.
“12 Años de Esclavitud” es un exquisito viaje por las pútridas entrañas del racismo, la crueldad y la opresión. Un homenaje a quien no se somete a su inmerecida desgracia. Un descorazonador retrato de la siempre decadente condición humana. Una cinta dura, explícita, constructiva, necesaria; absolutamente imprescindible.

…Car c’est bel et bien cette esthétisation du malheur qui constitue la principale tare de 12 Years a Slave. Du premier plan mettant en scène les esclaves comme sur un tableau, attendant leurs ordres devant un champ de maïs et sous un ciel hypnotisant de beauté, à cette longue séquence montrant le héros tentant de rester en vie pendu à un arbre et tâtant le sol boueux de la pointe des pieds, le film accumule les belles images de choses atroces, jusqu’à atteindre le nauséabond avec une séance de fouet filmée sans recul et donnée comme un climax narratif. Parmi tous ces choix éthiquement discutable, le plus indigne reste l’utilisation d’une musique soulignant de manière redondante des situations qui devraient rester vierges de tout effet de style.

…La realización de McQueen tiene momentos brillantes, pero también otros de claro bajón expresivo. Para su entrada en Hollywood con este film espectacular ha recurrido al lenguaje clásico del cine producido en California. Sólo en algunos planos, abiertamente barrocos en su composición y duración (¿homenaje a los planos-secuencia?), apunta detalles de continuidad con Hunger o Shame en un deseo de poner firma autoral a un film con el estilo de «los grandes estudios». La elección de Michael Fassbender para interpretar al villano alcohólico, al amo más déspota y voluble de esta historia, resulta también congruente con eso de dejar su impronta por doquier. No cabe duda que buena parte del éxito del film se debe a la convincente interpretación del actor británico Chiwetel Ejiofor, de ascendencia nigeriana, que trasmite con vigor el inicial desconcierto de un hombre de repente reducido a la condición de esclavo y, luego, la interior rebeldía que mantiene encendido un fuego irreductible en sus ojos. Otras joyas del reparto son Benedict Cumberbatch, como el amo Ford, y Lupita Nyong'o que resulta conmovedora en su fragilidad como cabeza de turco de todas las veleidades del inestable Edwin.
Hay que recordar también que la instrucción religiosa en el cristianismo, impartida por sus amos a los esclavos, resulta indignante porque se utilizó para fomentar la resignación y la pasividad en quienes se habían visto privados de la más mínima libertad para disponer de sí mismos. Una práctica aberrante que avergüenza a las Iglesias que toleraron semejante manipulación de la fe cristiana para «bendecir» una esclavitud que está en las antípodas del Evangelio.

…McQueen nos lleva con una narrativa perfecta y al servicio de la historia por una violencia que no da respiro al espectador, igual que la desgracia no da respiro a sus protagonistas, una vida imposible de imaginar, un recorrido por la maldad y la brutalidad al que da vergüenza mirar. Una película imprescindible.

…Quizás lo primero que me veo obligado a destacar es que estamos ante una película absolutamente imprescindible, con unas interpretaciones exquisitas, pero que no se disfruta. Se sufre, y así debe ser. Es una historia humana, sin más pretensión que hacernos posar la mirada en un suceso histórico cuyos ecos siguen resonando en la actualidad. Y es a través de los ojos de Solomon Northup y su mirada sobrecogedora que sentimos vergüenza y tomamos conciencia de lo bajo que puede llegar a caer el ser humano cuando la ignorancia, los prejuicios y el odio se abren paso en una sociedad...

Probablemente, uno de los asuntos más interesantes a discutir sobre esta cinta sea cuántos metros se movió el cine de Steve McQueen. ¿Dejó una parte de sus convicciones? ¿Las suavizó? ¿Se acomodó en la industria? Ninguna respuesta es muy simple, pero podemos decir preliminarmente que el director no abandona sus principios. Puede desconcertar que haya recibido total desprecio anteriormente y ahora sea acogido con los brazos abiertos por la Academia, pero eso debe ser leído más como una inédita apertura de estos caprichosos premios hacia un cine desgarrador, que al ablandamiento de un director que ha labrado una mirada feroz. Lo que sí, McQueen no pierde de vista que está tratando con un tema delicado de la historia norteamericana y, además, con hechos que sucedieron realmente. Aún con una narrativa más clásica, no deja de golpear duro y hacer de su filme una experiencia difícil de digerir…

…El ritmo que McQueen imprime pasa del brío inicial a una mayor quietud ─con la entrada en escena de Michael Fassbender, inolvidable fanático que disfruta aquí de su propia película─ que puede trabar el ánimo de algunos espectadores, pero que serán los menos; igual que serán los menos quienes vean en la pulcritud técnica de “12 años de esclavitud” una excesiva tendencia a la conmoción y el abuso. Porque solamente con pararse a pensar lo que se está contemplando se le quitan a uno las ganas de pertenecer a esta especie que se supone reina de la evolución. El hombre es un lobo para el hombre. Lo era en la América de mediados del siglo XIX, lo es en el día a día en todo el globo. Y así lo seguirá siendo.

12 Years, A Slave est en ce sens un film bouleversant. Non parce qu’il met en scène l’horreur de l’esclavage – ce qu’il fait évidemment – mais parce qu’il ne cesse de questionner le fonctionnement même des différents mécanismes d’asservissement, tenant de comprendre, sans faux-semblant, ce terrible processus conduisant un homme à s’annihiler soi-même. Bien plus proche du Surveiller et Punir de Foucault que de Spike Lee ou de Quentin Tarantino, le cinéaste britannique y détaille en effet avec la précision glaçante d’un entomologiste humain ce qui fait, ou non, qu’un homme est libre. Ce qu’il doit accepter de perdre (son corps, son nom, sa dignité) pour garder l’essentiel. Ce qu’il peut faire pour résister alors que les coups et les humiliations pleuvent, le dépouillant peu à peu, mais radicalement, systématiquement, de toute humanité…

…Sans jamais nous prendre au piège, Steve McQueen joue avec nos sensations et nous confronte sans détour mais avec une étonnante pudeur à l’horreur et à l’effroi vécus par Solomon et par ses congénères. Plus encore il parvient à tendre à une cruelle analogie entre la réalité mise en scène et l’esclavagisme moderne : quelle belle prospérité que de s’enrichir sur le travail et la survivance d’autrui – et quelle luminosité que celle de l’endoctrinement religieux.
Fin artisan et habile chef d’orchestre, fort de se réinventer, Steve McQueen est un virtuose de la mise en scène tant il soigne chaque détail. La photographie du film est tout à la fois sensible et impressionniste alors que le montage est père de contrastes saisissants. Il exacerbe ainsi à dessein notre ressenti en jonglant entre les hypothèses visuelles et sonores. Magistral.
Plus encore, et comme dans HUNGER et SHAME, il dirige avec brio des comédiens au meilleur de leur art. Alors que le moindre rôle est interprété avec une force et une véracité déstabilisantes, Chiwetel Ejiofor, Lupita Nyong’o et Michael Fassbender y sont prodigieux.
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venerdì 21 febbraio 2014

Il buono il matto il cattivo - Kim Ji-woon

un film che soddisfa più gli occhi che la mente, che tanto stile, sembra a volte che Kim Ji-woon faccia gli esercizi.
dopo qualche giorno ti ricordi più le scene, gli attori, lo spettacolo, bello e grande, ma non troppo di più.
e comunque quello che c'è basta per vederlo con soddisfazione - Ismaele




…Smaltito l'entusiasmo iniziale ci si rende conto che non tutto funziona a meraviglia, a partire da un'inconsulta rivelazione finale sul passato di Tae-gu, e che, rispetto alle precedenti opere di Kim Jee-won, il film sconta la sua natura eminentemente ludica e la volontà di ribadire la supremazia dello stile. E di stile Kim ne ha senz'altro da vendere, tanto da portarlo ai primi posti in un'ideale classifica dei registi coreani contemporanei, ma è uno stile che porta all'assoluta perfezione l'esistente senza innovare, appagato dalle proprie inarrivabili vertigini estetiche ma immune sia alle folgorazioni di Park Chan-wook che alla densità di Bong Joon-hoo...

Ma l'assenza di originalità della sceneggiatura viene sostituita dalla forza dirompente delle immagini, seducente abbastanza da rendere godibile e piacevole il film intero. La fotografia di Lee Mo-kae dipinge le location interne con toni accesi, dal blu cobalto al giallo chartreuse, alternandoli al magenta. Il risultato è un'eccentrica rappresentazione delle ambientazioni western, di solito legate al grigio nebuloso di polvere e sabbia, un tocco stravagante che rende ancora più curiosa l'operazione. A dare i brividi sono anche le vertiginose inquadrature dall'alto (i titoli di testa ne sono un esempio brillante) e gli spostamenti rapidi di angolazione, un modo irrequieto di raccontare e dare forma alla storia, retta su un equilibrio interessante di dramma e ironia che tempera la gravità delle azioni più crudeli con inserti comici irresistibili.

Resta un correre incessante, per arrivare all’apoteosi nella parte finale, con lungo inseguimento nel deserto dove il “mondo” armato è alle calcagna del sidecar del “matto”, per un effetto grottesco che si perde senza la sospensione di incredulità nel vederlo scampare a mille proiettili e decine di cavalli e jeep (che, oltretutto, in un’inquadratura ravvicinata gli sono addosso e in quella successiva a campo lungo sono distanziati). Un gioco che stanca, ma un bel gioco, ad opera di un regista di genere con stilemi autoriali, non viceversa.

un film ad altissimo budget e vertiginosa densità spettacolare che mostra al mondo intero l’emancipazione linguistica del cinema nazionale. Un film capace di testimoniare l’assoluta maturità non solo del suo autore, ma dell’intera cinematografia coreana. Non è fortuito allora che Kim Jee-woon si rifaccia al filone dei cosiddetti spaghetti-western, risposta indipendente e insubordinata a un genere in via di esaurimento. E non è un caso che il suo “Kimchi Western” rinunci deliberatamente all’uso massiccio di effetti digitali e rielaborazioni in computer graphics per gettarsi nella mischia con sguardo atletico, totalmente coinvolto nell’azione, tutt’altro che disincarnato o astratto. A dominare sono le traiettorie fisiche dei movimenti, le performance ginniche di Song Kang-ho, le altezzose rodomontate di Lee Byung-hun e le cavalcate a rotta di collo di Jung Woo-sung. Persino il finale, col suo strisciante disinteresse per l’oro nero e l’instancabile rinnovarsi della fuga, ci parla di un cinema orgogliosamente lontano dalle lusinghe d’importazione e irriducibilmente proteso a continuare la corsa oltre la frontiera. Nei territori di un cinema finalmente libero e spavaldamente fuorilegge.

mercoledì 19 febbraio 2014

L'insolito ignoto - Vita acrobatica di Tiberio Murgia - Sergio Naitza

un documentario per ricordare Tiberio Murgia, Ferribotte nel film "I soliti ignoti” di Mario Monicelli.
è il ritratto-intervista di un uomo vissuto in seconda linea, non un attore, ma un caratterista, cone si definisce, uno che ha avuto tanto e sciupato tutto, morto in povertà in una casa di riposo.
e però è di una simpatia bellissima, come le immagini della fine dell’intervista, del suo sorriso.
difficile da trovare, ma non trascuratelo, non è un film perfetto ma vi darà delle belle soddisfazioni - Ismaele


Oristanese di nascita ma siciliano per adozione cinematografica, Tiberio Murgia è stato maschera della commedia italiana per quasi cinquant'anni, grazie alla geniale intuizione del grande Mario Monicelli che lo scritturò nel 1957 per il ruolo di Ferribotte nel film "I soliti ignoti". Intorno al personaggio di Tiberio-Ferribotte, Monicelli costruì un irresistibile "falso d'autore". Con i suoi 155 film, Tiberio rappresenta un pezzo di storia del cinema italiano: l'inconfondibile presenza altera e imperturbabile che ha codificato lo stereotipo del meridionale irascibile e focoso. Scomparso nell'agosto 2010, all'età di 81 anni, Tiberio Murgia ha attraversato generi e sottogeneri del cinema, indossando sempre la maschera del siculo geloso e sciupafemmine, diventando una presenza fissa della commedia italiana. La storia artistica di Tiberio Murgia si fonde e si confonde con la sua vicenda umana, quella di sardo che si riscatta dopo un'infanzia e una giovinezza di fame e stenti: quarto di nove figli, padre contadino, a scuola fino a otto anni poi subito a lavorare per necessità familiare; quindi l'emigrazione a Roma, fedifrago ed irrimediabile adultero, manovale col piccone e una vita da lavapiatti davanti. Fino all'incontro del destino con Mario Monicelli.

…La dimensione temporale del documentario di Sergio Naitza è quella del presente, e più precisamente, dei giorni dell’intervista di Murgia girata a pochi mesi dalla sua scomparsa nel 2010: un racconto che fiorisce in parole visive come un germoglio sopravvissuto alla cultura obliante del mondo contemporaneo. A dispetto di un presente che dimentica, che perde ogni giorno ancoraggio con la propria storia, vi è un passato in bianco e nero che non scolora, e riprende vita attraverso ricordi, vicende di errori e malinconie, sguardi intirizziti e nostalgici rivolti da una parte ai tragicomici aneddoti di una vita consacrata all’amore per le donne, dall’altra all’epoca di transizione del cinema italiano che sfilava sul meraviglioso sfondo della Hollywood romana e del boom economico, finendo per sfilacciarsi nello spaesamento e nei vuoti contenutistici dei decenni a venire. L’insolito ignoto prende le sembianze macchiettistiche di Tiberio Murgia, per raccogliere attraverso le dita artritiche del suo protagonista, manciate di scorie mnemoniche, reminescenze spurie e sotterranee, enfatizzando il ruolo salvifico della memoria in un mondo, come quello cinematografico, che a fari spenti e sipario calato, oscura anche la visibilità dei suoi commedianti e comprimari.
da qui

martedì 18 febbraio 2014

Fövenyóra (La clessidra) - Szabolcs Tolnai

un altro film con la clessidra nel titolo (qui  l'altro, a partire dalla letteratura di Bruno Schulz).
"Fövenyóra" è un bellissimo film in bianco e nero, tratto dall'opera di Danilo Kis, uno scrittore jugoslavo, uno scrittore davvero grandissimo.
oggetto del film è la storia di Eduard e Andreas (padre e figlio) nel tempo, pedine del gioco della Storia.
da vedere anche più di una volta, se conosci i libri di Kis (se no è una lacuna da colmare).
difficile da trovare, ma ne vale assolutamente la pena - Ismaele




Andreas Sam è un giovane scrittore alla ricerca delle proprie radici e della memoria del padre scomparso nel vortice della seconda guerra mondiale. Mentre cerca di ricostruire il suo labirintico passato, invece di trovare risposte si scontra con la mai sopita vulnerabilità, l'ineluttabile condizione d'apolide, la costante nostalgia e il desiderio d'appartenenza.
Tragico ritratto di un cittadino dell'Europa centro-orientale, vissuto tra religioni e culture diverse e spesso costretto in condizione di minoranza, in un secolo di delirante furore nazionalistico e di paranoide cecità ideologica…

Wonderful poetic journey trough the writings of definitely most important Yugoslav writer of the 20th century, Danilo Kish. Its impossible to write the synopsis of "The Sands". Its not narrative film. But, brilliant photography of young Hungarian cinematographer Gergely Pohárnok finally sets the high rate to Serbian film. There aren't leading roles in this film, but somehow Nebojsa Dugalic is leading the plot. And he is good. Have to mention great performance of Lars Rudolph who appears in two scenes and completely "eats the screen". You won't have fun watching this film, and it will strike you after watching it. And it raises a long line of questions. Remember the name of Szabolcs Tolnai!

…The central figure is the tortured father Eduard (Slobadan Custic), a former chief railway inspector, who died in Auschwitz. The railways stand as a potent symbol for so much - escape, removal to captivity, a once ordered aspect of civilisation as charted by Eduard, now a scene of chaos and unpredictability. Another strand of narrative has the writer Andreas (Nebojsa Dugalic) retracing his dislocated childhood, his younger self beautifully played by Vojnic Hajduk.
Undeniably difficult, it's a film which really needs a certain basic knowledge of Kis's life to avoid bafflement, and at times veers towards pretentiousness, but it is extremely beautiful, haunting, troubling, an impressive attempt to capture the part Proustian, part Borgesian feel of things lost.
da qui

lunedì 17 febbraio 2014

A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis) - fratelli Coen

come si fa a non andare a vedere un film dei fratelli Coen?
la storia è una piccola storia, che non decolla.
è un ricordo dei tempi del folk a Greenwich Village, ai tempi di Bob Dylan.
i personaggi più belli sono quelli di Ulisse, il gatto, e di Carey Mulligan, bravissima.
Llewyn Davis è uno un po' sfigato, un antieroe sui generis, troppo mediocre per diventare un eroe, e in un film dove c'è Ulisse, caro Llewyn, resti un protagonista di secondo piano.
detto questo, il film è da vedere, è che i fratelli Coen ci hanno abituato al meglio, e un film solo sufficiente è un po' poco.
per molti è un gran film, vedete voi - Ismaele



Su un palco in penombra, senza appigli che non siano una sedia e una chitarra, e ad un certo punto più nemmeno quest'ultima, Llewyn canta la sua struggente ballata per il produttore. È un momento di emozione pura, al termine del quale, il potente interlocutore guarda il protagonista e sentenzia: non si fanno soldi con quella roba. E in questa chiusa comica e micidiale, i Coen dicono tutto, dell'arte e dell'industria, forse anche del loro stesso film, con la consueta ironia e il consueto cinismo…

…Eppure manca qualcosa, qualcosa in grado di trasformare la simpatia/empatia per questo loser, questo Llewyn Davis, e trascinarci davvero “inside”, dentro la sua vita, dentro la sua mente, dentro il suo cuore. Se la passione per la musica folk dei Coen emerge cristallina, così non è per il protagonista. Perché fa musica? È quasi come se la odiasse…
…Però, c'è sempre un però. Una volta arrivati a destinazione, l’impressione è anche questa volta di non essere andati da nessuna parte, di aver girato a vuoto. Un bel girare a vuoto, ma pur sempre un girare a vuoto. Questo è il cinema dei Coen, un tipo di cinema che mi fa lo stesso effetto del folk, genere che occasionalmente ascolto anche e non mi dispiace, ma che di rado mi prende fino in fondo. L’ultima volta mi è capitato con la musica di Rodriguez scoperta grazie a Sugar Man, quasi un gemello in versione documentaristica di A proposito di Davis. Come una canzone folk, i loro film non invecchiano mai ma allo stesso tempo non dicono niente di nuovo. Così è il loro cinema, prendere o lasciare. E io per questa volta prendo, anche perché questa è una pellicola molto gattosa felina. E come fai a non volere bene a un gatto, o a una Carey Mulligan, o a un povero cantante folk sfigato?

Molto dolce Carey Mulligan, anche se in una parte ristretta ed antipatica - il pezzo in panchina sulla paternità del figlio è un altro dei rarissimi siparietti riusciti -, ma ci aspettavamo di più, oh se ce l'aspettavamo!!.. il folk impasta tutta la pellicola ma Hang me, oh hang me la canzone del bello essere impiccati, assieme a Please Mr. Kennedy sembrano le uniche con l'autentica marcia in più, quindi rimboccarsi le maniche, cari Coen, ed in bocca la lupo per un film in po' più serious.
da qui

domenica 9 febbraio 2014

Iniziano le vacanze

per motivi misteriosi da oggi sono in vacanza.

ci risentiamo, forse.
ciao a tutti.

venerdì 7 febbraio 2014

Green zone – Paul Greengrass

un'americanata dell'inglese Paul Greengrass, si racconta una storia ormai nota, delle menzogne e delle guerre, qui l'Iraq e le armi di distruzione di massa.
il film è coinvolgente, ci sono i buoni e i cattivi, dentro lo schieramento dei buoni, e i nemici non sono così cattivi.
ma la storia la scrivono i peggiori, dopo c'è il racconto della sconfitta (in questo caso del buon senso e della verità).
regolamenti di conti ad alta tensione raccontati come Paul Greengrass sa fare.
se "Green zone" vi capita non trascuratelo, se non capita cercatelo - Ismaele



Fin dalla prima sensazionale sequenza che dal micro (una riunione di loschi iracheni) subito proietta la storia nel macro (il susseguente bombardamento che di colpo illumina la notte) Green zone è cinema in mobilità mai domo, girato con il consueto stile caoticamente controllato di Greengrass. Come gli altri che prima di lui hanno portato sul grande schermo il conflitto iracheno, Greengrass vuole scendere nelle strade ed entrare nei vicoli peni di calcinacci ma diversamente da altri più che al video sceglie di appoggiarsi all'audio (una colonna sonora costante che si mischia a rumori di fondo scelti, mixati e organizzati con una precisione meticolosa per rendere la tagliente tensione della guerriglia di strada) trovando così il vero specifico filmico della nuova guerra.
Aggiornando le più classiche dinamiche del cinema d'azione americano, l'interesse del film passa in fretta dal contesto geopolitico alle frasi con le quali i personaggi si minacciano, ai colpi sparati, alla tensione degli inseguimenti (fantastico quello a tre!) e alle motivazioni che animano i comprimari, solitari quanto i protagonisti, nella loro lotta privata, sganciando così l'opera dalla contingenza attuale per proiettarla nell'Olimpo del grande cinema.

…The action in "Green Zone" is followed by Greengrass in the QueasyCam style I've found distracting in the past: lots of quick cuts between hand-held shots. It didn't bother me here. That may be because I became so involved in the story. Perhaps also because unlike the "Bourne" films, this one contains no action sequences that are logically impossible. When we see a car chase that couldn't take place in the real world, we naturally think about the visual effects. When they could take place and it's a good movie, we're thinking about the story.
"Green Zone" will no doubt be under fire from those who are still defending the fabricated intelligence we used as an excuse to invade Iraq. Yes, the film is fiction, employs farfetched coincidences and improbably places one man at the center of all the action. It is a thriller, not a documentary. It's my belief that the nature of the neocon evildoing has by now become pretty clear. Others will disagree. The bottom line is: This is one hell of a thriller.

Alla ricognizione da simil-inchiesta sulle cause scatenanti della guerra si intreccia il thriller d'azione sui loschi segreti che hanno portato gli americani in Iraq. La sceneggiatura di Brian Helgeland, basata sul romanzo di Rajiv Chandrasekaran, ruota intorno a un mistero che mistero non è più da tanti anni: le armi di distruzione di massa erano solo un pretesto per potere invadere l'Iraq. Con questo debole presupposto diventa difficile mantenere la tensione alta per la durata della visione, soprattutto se questo è il perno della narrazione.
La pellicola si può facilmente inserire nel nuovo filone di film sull'Iraq, e si interessa principalmente a spiegare la menzogna che ha portato l'esercito a stelle e strisce in guerra.
E' interessante il modo in cui Greengrass descrive i burattinai del Sistema, del cinismo con cui manipolano fatti e persone; l'incursione in tali meccanismi può dirsi riuscita, sebbene il finale, nel quale la verità scottante viene a galla, è mostrato come sin troppo trionfalistico…

…Greengrass è riuscito a dargli un peso visivo significativo. La sua capacità di entrare nel cuore dell’azione è mirabile, così come la sua abilità nel comunicare temi “scottanti”, in un certo senso verità conosciute o solo temute e portarle sullo schermo mascherandole dietro una finzione che è capace di far riflettere come un documentario. Notevoli in questo film sono alcuni episodi che, seppur in parte drammaturgicamente scontati (come il “colpo di scena” finale), sono un buono stimolo alla riflessione, all’interrogarsi sul senso di molte scelte politiche internazionali dell’occidente “civilizzato” e “democratico”, sulla mobilitazione di una coscienza che non può rimanere sorda al richiamo della verità come invece accade nelle oasi fatte di cocktail e bagni in piscina nel bel mezzo di una guerra in cui la povera gente fa la fame e non ha un goccio di acqua potabile...

Miller, lui, n’oublie pas que la vérité est primordiale face à une maison blanche qui ne comprend rien à la situation politique locale. On retrouve bien cette idée entre le plan d’ouverture montrant Bagdad de nuit subissant des bombardements, et l’un des derniers plans montrant cette fois ci Bagdad en feu alors que le conflit est « terminé ». « Ce n’est pas à vous de décider de ce qui se passe ici » dit un Irakien, et Miller va le comprendre. Faire la guerre est une chose, mais il faut savoir pourquoi l’on se bat, pourquoi l’on risque sa vie et pourquoi on va devoir en supprimer une. La force du film (et de la filmo) de Greengrass est de, sans prendre un ton moralisateur, nous confronter face à cela (tout en restant un excellent divertissement)…
da qui

lunedì 3 febbraio 2014

Qui e là (Aquí y allá) - Antonio Méndez Esparza

quasi un documentario, attori non professionisti, una storia davvero neorealista, premiato anche a Cannes nel 2012.
Pedro torna a casa, dopo anni da emigrato a New York per mantenere la famiglia, che sta in un paesetto messicano che più sud del mondo non si può.
non ci sono risorse economiche, la vita è al di sotto della sussistenza, dignitosa, ma come dappertutto i poveri soffrono a casa propria, immaginiamoci quando si allontanano.
bellissimo il rapporto di Pedro con le moglie e le figlie, che viene ricostruito dopo anni.
nasce anche una bambina, e si paga anche per nascere, Pedro resiste, ma deve ripartire.
ti affezioni a tutti i protagonisti, Pedro, Teresa, e le loro figlie per primi.
tutti sono rassegnati, non c'è neanche un moto di ribellione, la vita è così e sarà così.
un film che fa male, e però è bellissimo, cercatelo se arriva in zona - Ismaele 






…È senz'altro piacevole e gratificante vedere che esistono ancora film come Qui e là, un lavoro prettamente politico, ma in cui l'assunto non è gridato quanto piuttosto incarnato nei volti e nelle rughe dei personaggi, nella loro delusione, nella loro amarezza e nell'amore per una terra che non li vuole e non li può accogliere.

Para intentar lograr una objetiva en los hechos, el director se limita a colocar la cámara y dejar que la acción fluya, en lugar de enfatizar con primeros planos o movimientos de cámara. Además, hay prácticamente una carencia de música en todo el metraje lo que otorga a todo el trabajo un alo casi de documento real…

Cette mise en scène justement, d'un minimalisme qui égale sa rapidité pour aller à l'essentiel, donne un résultat proche de ses personnages et instaure une distance humaine avec le spectateur. Il ne se passe pas grand chose à l'écran, mais l'ensemble sonne résolument juste et réaliste…

…Case di pietra, polverose, con i piani lasciati a metà e un buio assoluto, che ricordano i paesini di montagna dei nostri appennini o del sud, svuotati dall’emigrazione che ha portato via gli uomini e lasciato solo le donne, gli anziani e i ragazzi, che non vedono l’ora di finire la scuola per poter partire anche loro. La destinazione è quel “lì” del titolo, sono gli Stati Uniti di cui tutti parlano, ma che con la sua assenza pesa sulle spalle del protagonista in maniera insostenibile. Un altrove al di là dalle montagne che li fa sperare ci sia qualcosa di diverso da sognare per il loro futuro.
Attraverso piccoli riferimenti ci viene rappresentato un governo incapace di garantire uno stato sociale dignitoso, che possa evitare di doversi trovare dei donatori di sangue in ospedale pena il passaggio in fondo alla lista d’attesa. Ci racconta di un'America latina che dietro ai numeri di una crescita economica sostanziosa nasconde una disuguaglianza terribile, nascosta magari in qualche paesino di montagna che nessuno conosce.
Qui e là è un film in cui i suoi abitanti, facce che trasudano verità, non alzano mai la voce. Le loro vite sembrano seguire un flusso inevitabile; anche quando prendono decisioni coraggiose sono le condizioni esterne a guidare in realtà i loro destini.  Un viaggio angosciante sulle piccole enormi sfide quotidiane di un uomo semplice

Antonio Méndez Esparza transita cerca de la frontera del documental con largos planos secuencia y casi episódicos para contar de una manera intimista cómo se adapta al nuevo entorno el protagonista. De manera sosegada y con planos fijos, la realidad fluye de forma natural delante de la cámara sacando los miedos, dudas y esperanzas de unos personajes herméticos con sutileza.
Los ojos de un espectador espabilado encontrarán una riqueza temática llena de aristas porque nos habla de la inmigración, pero también de la familia, el destino, sueños rotos y la dignidad. Nos muestra el sentimiento de estar en casa rodeado de extraños y de cómo recuperar el tiempo perdido. La película logra convertir una historia local en universal para quien se atreva a entrar en ella.
En los tiempos que corren donde los flujos migratorios están cambiando, por lo menos en España, el filme enseña qué significa emigrar dejando atrás una vida que luego es tan difícil recuperar. Es de agradecer una mirada fresca, alejada de cualquier topicazo y manierismo a un drama que hemos visto por encima del hombro, y que ahora nos afecta en primera persona.

Here and There is written and directed by Antonio Mendez Esparza who deserves credit for reminding us how much suffering and pain is endured by good people like Pedro and Teresa. The wear and tear of poverty has taken the air out of their hopes, physical vigor, and mental rigor.
This meditative film has shown us that we can look into the face of poor people and see them as brothers and sisters. The dark night will end when we eradicate poverty that keeps affecting more and more people so that in the end they are invisible to us. As we find ourselves Let's hope and pray that we will have more opportunities to see our brothers and sisters in the light of day. As we have seen and empathized with Pedro and Teresa.

Eppure Antonio Esparza ha realizzato un qualcosa di estremamente interessante, con un linguaggio diretto, che lascia tanti spunti di riflessione. Certo non sarà mai il film da vedere in compagnia mangiando biscotti e bevendo bibite gassate, non è il film del sabato sera al multisala. Ma per chi ha curiosità di entrare in una tipica casa messicana, questa pellicola lo accompagna per mano, passando tra le vie, vicino alle persone, presentando le abitudini degli abitanti di Copanatoyac. E così come Pedro, Teresa e tutti gli altri hanno avuto la mancanza dei giorni di ripresa a film terminato, anche noi spettatori abbiamo un senso di mancanza quando scorrono le ultime note della canzone, curiosi di sapere le loro sorti.
Da vedere, sicuramente, anche se forse per una volta soltanto.

…Ce partipris explique sans doute l'incroyable justesse du film, sa façon de fairenaître l'émotion à partir des situations les plus triviales. L'amour profond qui lie cet homme à cette femme, les ruses du père pour reconquérir le regard que portent sur lui ses filles, adolescentes pudiques et facétieuses qui lui font gentiment payerla souffrance de son éloignement, tout cela est rendu avec une délicatesse et une simplicité presque miraculeuses. L'endettement de Pedro pour faire exister son groupe de musiciens, le drame qui se noue autour de la nouvelle grossesse de sa femme, l'obligation de régler un traitement onéreux de ses propres deniers, vont rapidement avoir raison du bonheur des retrouvailles.
A cette trame mélodramatique, Esparza a l'élégance de ne rajouter aucun pathos. L'art de l'ellipse et le sens du détail, un simple geste et les paroles d'une chanson lui suffisent à créer l'émotion, avec une dignité qui est à la hauteur de celle dont les pauvres gens accueillent le sort qui les accable.
da qui

per ricordare Philip Seymour Hoffman: Synecdoche, New York - Charlie Kaufman

dopo averne letto qui ho trovato e visto questo film.
non si può raccontare, non ci sta in poche righe, bisogna vederlo.
purtroppo non al cinema, dopo quattro anni nessuno ha comprato i diritti; intanto c'è un grandissimo Philip Seymour Hoffman, indimenticabile, in un film che non distingui dalla vita (mi viene in mente "Inland empire", di Lynch, ma quello era un film finto, autoreferenziale e inutile),
(mi viene in mente anche "La vita, istruzioni per l'uso", di Georges Perec, un romanzo-mondo, come il film di Kaufman).
"Synecdoche, New York" è un film vero, è sincero, profondo, da rivedere, di sicuro.
un film mica facile, ma è Cinema, non fatevelo sfuggire - Ismaele




Synecdoche New York è un film che non andrebbe nemmeno paragonato al 99% del resto della produzione cinematografica. Tutti gli altri film, probabilmente, non dovrebbero nemmeno poter mangiare allo stesso tavolo.
Un film che parla della vita e della sua transitorietà, della morte, del nostro piccolo ruolo in questo corto spettacolo che è la nostra esistenza, della ricerca di un senso o semplicemente della felicità, del tentativo di capire noi stessi e la nostra identità, del vedere tutte le vite umane come una sola, e unica, dell'attesa, spesso vana, che ci capiti qualcosa di bello per poter cancellare o rendere quantomeno migliore la nostra misera condizione…

Caden, un regista teatrale in crisi con la moglie Adele, che lo lascia e parte per Berlino con una donna amante e la figlia ancora piccola poco dopo la prima di una rappresentazione. Sbandamento, sconforto, depressione. Un'amante che ora può frequentare senza patemi, Hazel, un amore che non riesce a consumare, la depressione lo rende impotente. La psichiatra che lo ha in cura non si capisce se lo cura, se vuole vendergli libri o portarlo a letto.
In un enorme capannone a New York imbastisce uno spettacolo che altro non è che la rappresentazione della sua vita. Sarà la sua auto-analisi, uno spettacolo di durata infinita. Gli attori cambiano, muoiono e se ne cercano di nuovi, la vita prosegue e quella teatrale segue quella reale sempre più da vicino nel tempo, fin quasi a sovrapporsi.,,

Charlie Kaufman, dopo una carriera ricca di riconoscimenti quale sceneggiatore (suoi sono, a puro titolo di esempio, gli script di Essere John Malkovich, Confessioni di una mente pericolosa, Se mi lasci ti cancello) giunge finalmente alla regia e si scopre libero di liberare tutta la sua creatività. A partire proprio da una figura retorica che, dichiarata nel titolo, gli permette un numero pressoché infinito di acrobazie narrative. Ne nasce un film estremamente complesso ma proprio per questo altrettanto estremamente personale e coerente.
Nella vita di Caden si riassumono le ossessioni quasi pirandelliane dell'autore il quale vorrebbe poter controllare e dirigere la propria vita così come fa con i personaggi e con gli attori chiamati a dare loro volto, voce e sentimenti. Quando poi, come in questo caso, gli attori si trovano a riprodurre la vita, sempre più ossessivamente intricata, di chi li dirige le differenze le distanze finiscono con l'annullarsi in un gioco di raddoppiamenti che si fa sempre più intellettualmente stimolante quanto più si complica. Fino a quando la morte comincerà a far sentire realmente la propria presenza prendendo in mano la 'regia'.

 Synecdoche, New York si lascia morire proprio come l’impossibile creazione di Caden, proprio come Caden stesso. Al suo debutto alla regia, Kaufman tenta un progetto grandioso e suicidale, colmo di idee fantastiche, momenti di incredibile bellezza dolorosa, paradossi esilaranti e masochistica inconcludenza. La spinta drammatica s’avvolge su se stessa e degrada, la risoluzione è infinitamente rimandata con energie sempre più flebili e la morte è l’unica risposta pensabile contro ogni forza drammaturgica. Un capolavoro tragicamente e grandiosamente mancato. Oppure l’unico, brutalmente vero, capolavoro possibile…
… due ore di film sull'alienazione mentale di un protagonista del genere sono insopportabili per chiunque non si trovi in questo stato d'animo estremo (che peraltro, nel caso, invece di stare di fronte a uno schermo dovrebbe farsi curare). Se l'idea era quella di spingere verso l'eccesso e di rappresentare i decenni che passano per i personaggi, l'obiettivo potrebbe dirsi raggiunto. Ma, più che altro, l'impressione è che la vicenda sia completamente slegata (forse anche a causa di diversi tagli al montaggio) e che comunque alcuni dialoghi forzati rendano la metafora decisamente meno potente di quanto fosse nelle intenzioni.
In tutto questo, si spreca uno dei migliori cast (in pellicole indipendenti o meno) che si siano visti negli ultimi anni…