giovedì 23 maggio 2019

L’uomo che comprò la luna, un film pericoloso - Omar Onnis




L’uomo che comprò la luna, il film di Paolo Zucca che si sta guadagnando l’attenzione del pubblico anche in Italia, è un film pericoloso.
Proprio per questo va visto.
Naturalmente la sua pericolosità dipende dalla prospettiva sotto cui lo si guarda.
Comincerei da qui: i diversi livelli di lettura.
La confezione dell’opera, il suo involucro potremmo dire, è il genere “commedia all’italiana”, con risonanze felliniane. Il tema centrale sembrerebbero gli stereotipi relativi alla Sardegna.
Ed è vero. C’è anche questo. È uno dei livelli di lettura possibili e, a naso, è anche quello che il pubblico italiano fatica meno a percepire, ed anzi apprezza.
Una commedia leggera, agrodolce, visionaria, a contenuto “etnico”.
Il pubblico apprezza l’intreccio surreale, le dinamiche tra i personaggi, la comicità tipica delle commedie degli equivoci.
E va benissimo. Ma non c’è solo questo.
Un aspetto che mi incuriosisce molto è se e quanto sia diversa la ricezione da parte del pubblico sardo rispetto a quella del pubblico italiano.
Sul “se”, non ho dubbi. La ricezione è diversa.
Probabilmente per il pubblico italiano in fondo si tratta di una commedia che rilancia i più familiari cliché sui sardi, a cui è abituato da tempo.
In questo senso, il rischio era di rievocare e rinnovare la tendenza a compiacere lo sguardo dell’osservatore esterno, tipica del nostro rapporto subalterno con l’Italia e con gli italiani.
Pericolo in buona parte disinnescato dalla ben architettata problematizzazione proprio di questa dinamica relazionale.
È uno dei motori narrativi del film.
La stessa assurdità di un “esame di sarditudine”, presieduto e valutato da “esperti” italiani, dovrebbe suscitare non solo l’ilarità ma anche qualche dubbio su una relazione tutt’altro che pacificata ed esente da equivoci di vario genere.
Per il pubblico sardo, invece, gli aspetti principali sono altri due.
Intanto è fondamentale che a fare dell’ironia e dell’umorismo sulle nostre fissazioni identitarie sia uno sguardo sardo.
Com’è giusto che sia, il nostro grado di accettazione dell’ironia o dell’umorismo sul nostro conto cambia drasticamente se essi provengono dall’esterno o se sono auto-riferiti.
Tanto meglio, poi, se ad essere messa alla berlina è proprio la pretesa dei non sardi di sapere perfettamente cosa sia “vero sardo” e cosa no.
La leggerezza e la capacità narrativa di Paolo Zucca (e ovviamente delle due autrici del soggetto e della sceneggiatura, Geppi Cucciari e Barbara Alberti) consentono di giocare sul tema della “sardità” senza che questo risulti mai offensivo, o volgare, o paternalistico (approccio figlio di una visione “razziale”, in fondo).
Regia e scrittura esaltate poi dalla recitazione efficace e “in parte” dei due protagonisti sardi principali, Jacopo Cullin e Benito Urgu.
I quali per altro mettono in scena una dialettica particolarmente intelligente tra le due anime della nostra diaspora.
Da un lato, la vergogna di sé e la rimozione della propria appartenenza (il Kevin Pirelli/Gavino Zocheddu di Jacopo Cullin).
Dall’altro l’auto-rappresentazione identitaria stereotipata e ferma nel tempo, fino a diventare cliché folkloristico (il Badore di Benito Urgu).
Nel film viene efficacemente disinnescato – proprio perché enfatizzato parodisticamente – l’auto-razzismo tipico del ceto medio istruito e intellettuale isolano, ma interiorizzato, tramite un duraturo e profondo processo egemonico, dalla maggior parte dei sardi.
Possiamo ridere di noi stessi e del nostro stesso mito identitario, insomma.
Ed è un riso liberatorio, perché fa giustizia tanto del nostro complesso di inferiorità (paralizzante e patogeno), quanto delle possibili pulsioni auto-esaltatorie (che non si sa mai dove finiscono).
Già in questo c’è un pericolo, attenzione. Ma non è tutto.
In realtà questo film ha anche una sua carica politica notevole.
Ben mimetizzata e tenuta a freno il tanto che basta a non farlo diventare uno stucchevole film “a tema”, o un manifesto ideologico.
Sia chiaro, non lo è e non ci si avvicina nemmeno.
Però è innegabile – e sfido a sostenere il contrario – che un altro dei nuclei tematici dell’opera sia una fortissima vena di riscatto storico.
Di cui la ribellione agli stereotipi degradanti, cui per tanto tempo la maggior parte dei sardi ha aderito acriticamente, è solo una premessa.
La potenza narrativa del film – altrimenti classificabile, appunto, come commedia surreale con venature etniche – risiede precisamente in questo livello di lettura più profondo.
Il cui segno più evidente è la trovata delle anime dei nostri personaggi storici (“che hanno lottato per a giustizia”) ospitate sulla Luna.
Luna, che, dunque, a buon diritto, anche per questa ragione può essere legittimamente posseduta da un sardo, a dispetto delle pretese statunitensi (con una significativa sequenza finale).
La stessa messa in scena del conflitto tra Sardegna e USA (con la mediazione degli apparati di sicurezza italiani) è una potente allegoria politica, nemmeno tanto mascherata.
La Sardegna – come pochissimi sanno fuori dall’isola – è uno dei principali teatri di addestramento e sperimentazione bellica della NATO, in Europa.
Cosa possa significare una rivendicazione di libertà dalla prepotenza *che viene dal mare* (come didascalicamente rappresentato nel film), per di più in nome della nostra stessa storia e dei personaggi rilevanti che l’hanno animata, non è una presa di posizione banale e contribuisce alla sensazione che questo film sia pericoloso.
Gli stessi personaggi sardi scelti sono estremamente indicativi della cifra politica che alimenta questo livello di lettura meno visibile.
Da Ampsicora, ad Eleonora d’Arborea, da Sigismondo Arquer a Giovanni Maria Angioy. E ancora, Paschedda Zau, Grazia Deledda, Emilio Lussu, Nino Gramsci, forse (mi è stato suggerito ma non sono riuscito a verificare) Michele Schirru.
Tutti lì, squadernati e presentati come nodi di una lunga trama che attraversa i secoli, di cui però non siamo consapevoli.
Per questi motivi si tratta di un film pericoloso.
È pericoloso per chi si aspetta di perpetuare la nostra condizione di subalternità contando sulla nostra passività o addirittura sulla nostra adesione.
È pericoloso per chi ancora vorrebbe usare la negazione di noi stessi e della nostra storia come strumento di controllo e di dominio.
È pericoloso per chi usa e vorrebbe continuare a usare la Sardegna per scopi e in nome di interessi esterni, privati, ostili a chi ci abita, eticamente discutibili, politicamente imbarazzanti.
È pericoloso anche per l’establishment politico e culturale isolano, sempre così pronto a farsi docile intermediario degli assetti di dominio grazie ai quali può prosperare, sia pure a discapito della maggioranza dei sardi.
È pericoloso anche perché è un film che ci insegna a non essere vittima noi stessi dei nostri complessi di inferiorità, facili a trasformarsi nella reazione megalomane che ne è il reciproco inverso.
Tutto questo, servito con la semplicità dello sguardo fanciullesco, che discerne il giusto dall’ingiusto senza troppi filtri e senza troppe sovrastrutture.
Proprio perché così pericoloso, è un film che bisogna vedere e di cui è necessario parlare.

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