martedì 17 maggio 2022

A classic horror story - Roberto De Feo e Paolo Strippoli

film pieno di citazioni, con tante ispirazioni.

un gruppo di persone che non si conoscono fanno un viaggio in camper verso la Calabria, e succedono tante cose, che si sommano le une alle altre.

un rito nascosto (nato da tre fratelli fondatori della 'ndrangheta, Osso, Mastrosso e Carcagnossoha bisogno di umani freschi, e quelli arrivano.

ma non tutto va come dovrebbe, e qui sta la sorpresa del film.

buona (sanguinosa) visione - Ismaele 

 

 

 

...Decisamente ben girato e molto curato esteticamente, A Classic Horror Story non convince dal lato narrativo e metatestuale. Sembra un film in ritardo di almeno un decennio e butta via una serie di idee, spunti e suggestioni estremamente interessanti, facendole confluire in una critica superficiale, didascalica e moralista che gira su se stessa. È un peccato, perché il materiale di partenza era buono, il coraggio non manca e nemmeno, credo, la passione. Forse, quello che serve, è un po’ più di consapevolezza in più che possa andare oltre l’omaggio verso ciò che si ama. Ricordate? «Tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile».

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Il soggetto è molto semplice. Nel Sud Italia, cinque persone condividono un viaggio in camper per raggiungere una destinazione comune. Nel corso della notte, il veicolo esce di strada e si schianta contro un albero. I passeggeri perdono i sensi, per poi svegliarsi malconci in mezzo a un bosco, lontano dalla strada in cui si trovavano e soprattutto incapaci di fuggire da un luogo pieno di pericoli, che sembra attrarli a sé. Il risultato è un’opera che attinge a piene mani dallo slasher e dal folk horror (La casaScream e The Wicker Man sono i riferimenti più evidenti), per poi imprimere al racconto una svolta che sarebbe delittuoso svelare.

A Classic Horror Story a questo punto travalica i confini dell’horror, dando vita a una pungente critica al panorama audiovisivo nostrano, che rifugge dal cinema di genere perché troppo cupo e violento, per poi accettare di buon grado le approfondite cronache di terribili efferatezze e dolorosi drammi personali sul piccolo schermo. Roberto De Feo e Paolo Strippoli mettono quindi in scena la risposta italiana al seminale Quella casa nel bosco di Drew Goddard, dando nuova linfa all’asfittico cinema di genere nostrano e dimostrando al mondo intero che nel Paese di Mario BavaDario Argento e Lucio Fulci è ancora possibile fare horror di qualità e dal respiro internazionale, grazie alla visibilità e alla promozione (ampiamente meritate) che Netflix sta garantendo a questo progetto…

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Molti autori italiani sono spesso colpiti dalla medesima esterofilia febbrile del quale il pubblico è preda e piegano la poetica del nostro Cinema verso angoli a noi alieni, sviluppando opere la cui artificiosità è tale da schiaffeggiare il cervello dello spettatore come un brutto VFX a che ci porta nella famigerata Uncanny Valley.

In A Classic Horror Story De Feo e Strippoli non commettono questo terrificante errore e il film non cerca di trasformare una storia ambientata in Italia in qualcosa che non è, sfruttando il territorio, le suggestioni folcloristiche e i regionalismi senza renderli macchiettistici e sopra le righe.

Il film sfrutta bene tutto quello che ha a propria disposizione e gioca con i suoi interpreti sfruttando meravigliosamente Francesco Russo e Matilda Anna Ingrid Lutz, una perfetta regina dell’urlo nostrana.

De Feo e Strippoli, lavorando con il direttore della fotografia Emanuele Pasquet, costruiscono alcuni quadri visivamente molto suggestivi e in linea con il tipo di poetica horror che vogliono portare sullo schermo, lavorando sia per avere una coerenza narrativa rispetto al concept della storia tanto quanto al genere seminale scelto per la prima parte del film…

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A Classic Horror Story non è una ventata d’aria fresca, ma un vero e proprio tornado che scardina gli ammuffiti portoni di un intero sistema. Significativa in questo senso la scelta di utilizzare due dei brani più rassicuranti e poetici della canzone italiana, La casa di Sergio Endrigo e Il cielo in una stanza di Gino Paoli, in contrasto a sequenze di estrema violenza, in cui si possono facilmente riscontrare le influenze di Sam Raimi e Tobe Hooper. Un avvincente e sanguinolento viaggio nel meglio del cinema dell’orrore che abbiamo visto, che fa aumentare i rimpianti per quello che invece non abbiamo potuto vedere, perché mai realizzato. Un horror che riesce a essere al tempo stesso lacerante esplorazione del mito, pungente critica sociale e caccia al tesoro cinematografico, inequivocabile testimonianza del fatto che con Roberto De Feo e Paolo Strippoli abbiamo trovato due veri autori.

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A Classic Horror Story è un film che nasce come atto d’amore nei confronti del genere , attraverso la voluta riproposizione di topoi e citazioni dai classici  (Non aprite quella portaLa casaHostel, tra gli altri): un citazionismo insistito ma mai banale, che trova la propria ragion d’essere in un carattere meta-cinematografico che sarà fondamentale per lo sviluppo della storia – pensiamo a quando l’aspirante regista Fabrizio dice che “fare cinema in Italia è difficile”, oppure a quando i protagonisti iniziano a dissertare sul cinema horror. Esauriti i convenevoli – la presentazione del gruppo (fra cui spicca la bella e carismatica Matilda Lutz, quella di Revenge), il viaggio, l’incidente causato da un animale morto (sempre foriero di sciagure, pensiamo ai recenti The Invitation e Get Out) –, il film entra di prepotenza nella parte più consistente e di maggiore impatto, quella epicorica, con il progressivo disvelarsi dei macabri rituali pagani. Prima, i tre feticci nel bosco accompagnati da cinque teste di maiale, poi i disegni dentro la casa (una tetra abitazione a forma di tempio pagano), spiegati dal protagonista: si tratta di una vera leggenda calabrese, quella dei tre fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, esseri malvagi coperti da mostruose maschere che praticano sacrifici umani e che sono considerati i fondatori delle Mafie (uno non vede, uno non sente e uno non parla). La bambina con la lingua mozzata e rinchiusa in soffitta segna l’inizio delle atrocità, che esplodono in modo dirompente con la tortura praticata a Mark dai tre lugubri figuri, con maschere lignee come nei disegni: De Feo riprende l’efficacissimo espediente della musica a contrasto, già utilizzato in The Nest, e fa subire al ragazzo le peggiori violenze (i piedi spezzati con le mazze, gli occhi cavati con un diabolico strumento) sulle allegre note de La casa di Sergio Endrigo – ricollegandosi così al prologo, quando una ragazza veniva torturata col sottofondo di Il cielo in una stanza di Gino Paoli.

Una scena che è a sua volta un preludio alla lunga e terrificante sequenza notturna del sacrificio umano, con il feticcio di vimini stile The Wicker Man e i malcapitati che vengono seviziati e privati di occhi e orecchie (anche quando c’è da mostrare il sangue, la regia non si fa scrupoli, con effetti speciali di prima classe), in mezzo a fuochi che crepitano e a una folla con maschere lignee e zoomorfe. A preparare il tutto ci sono le luci rosse abbaglianti, la colonna sonora con gli archi che stridono, le sirene che vibrano nel buio, ma la paura non si esaurisce con la notte, visto che la congrega satanica compare poi di giorno riunita attorno a una tavolata, senza maschere e comandata da Cristina Donadio (la Scianel della serie-tv Gomorra), ma in grado di sprigionare un’aria altrettanto malsana e terrificante. A questo punto, A Classic Horror Story cambia, diventa qualcosa d’altro, ma senza snaturarsi, e i colpi di scena si susseguono ininterrotti: spiegare di più è impossibile, ma basti dire che entriamo in un territorio affine al mondo degli snuff-movie, e il film riprende quel carattere meta-cinematografico che aveva solo momentaneamente accantonato; si entra, cioè, in un cortocircuito  che ricorda Quella casa nel bosco, ma senza sfociare nel fantastico, bensì rimanendo ancorati a un orrore immanente.

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