martedì 22 maggio 2018

Kader (Destino) - Zeki Demirkubuz

Bekir, un tipo senza qualità, sposato, con una figlia piccola, passa il tempo fra un lavoretto e il bar, con degli amici brutta gente.
capita che sia stregato da Ugur, e poi non capisce più niente, la vuole, ma lei non è disponibile, e inizia uno stalking, che la metà basterebbe per una dura condanna in tribunale.
amore, se è amore, ma forse è solo voglia di possesso, amore maledetto e impossibile, Bekir è proprio da ricoverare.
il tutto accade in una Turchia fredda, invernale, senza speranze, neanche un pezzettino.
un film dove non c'è niente da ridere, interessante - Ismaele







Prequel di Masumiyet, un film sulla solitudine dei due protagonisti Bekir e Ugur. I sentimenti piacevoli sono sepolti da tempo: per Ugur un legame ritenuto “indissolubile” per uno di quei criminali autentici, che ha una facilità nel dare la morte ad altri al pari di altre azioni “ordinarie”, mentre per Bekir un'anaffettività che ha radici lontane, sconosciute. Per entrambi un equilibrio irrealizzabile a priori, sono servi del “loro” destino, una riformulazione del concetto, in verità, un inferno non solo a cui arrendersi, ma da alimentare con sofferenza, frustrazione, pane quotidiano della Turchia che Demirkubuz descrive, un paese senza pace.
E' proprio Bekir a definirlo “kader”, destino, questo legame con la distruzione che si dipana come filo conduttore del contatto tra i personaggi. Una strana accezione che sintetizza l'onnipotenza e la vulnerabilità all'unisono: l'uomo ma sarebbe più appropriato "il maschio" diviso tra una profonda incapacità comunicativa e un'oppressione di affermarsi, che è più “facile” attraverso la distruzione, l'ossessione, guidate a loro volta dalla concezione che una donna deve essere posseduta. C'è un macigno che grava su queste esistenze e ne determina le coordinate, e alla rivendicazione della libertà di Ugur la risposta sarà sempre “sei una puttana”, sullo stesso piano di “sei l'amore della mia vita”. L'amore è stato sostituito già da tempo, nell'universo soffocante delle metropoli dei film di Demirkubuz (qui Istanbul, in Masumiyet Ankara) e quando Bekir mangia l'asfalto con la sua auto per raggiungere ovunque Ugur, ci viene restituito il vero corso di questa parabola discendente, in un tempo che non importa affrontare, perché in questa narrazione è sostituito dai cambiamenti del personaggio protagonista: la barba cresce, poi viene tagliata, le cicatrici non visibili, il racconto di un amico ad altri ragazzi, la parlata più sciolta e volgare…

 Bekir (Ufuk Bayraktar) is an apparently ordinary bloke in his early twenties, working in a city-centre carpet emporium. One day a flirtatious, slightly younger woman wanders in – she's Ugur (Vildan Atasever), and Bekir rapidly falls head-over-heels in love with her. Indeed, he struggles to contain the extent of his passion – with disastrous, violent, and wildly melodramatic consequences for both…
   Destiny is constructed as a series of brief-ish, discrete episodes, set around several different locations around Turkey, and which propel us forward through the chronology of Bekir and Ugur's on-off relationship at a disorienting speed. There's never any attempt to identify exactly when the various events are taking place, but the changes to the main characters' appearances indicate that considerable periods of time are elapsing between the segments. By the end, the hapless protagonists have both suffered at the hands of their unfortunate fate – or is it merely the flaws in their characters that have brought them so much misery?
   Ambitious stuff, but unfortunately neither multi-hyphenate Demirkubuz (who produces, directs, writes, edits and also pops up in a minor supporting role) nor his two main actors are quite up to the task of carrying it off. There's certainly no shortage of incident (much of it bloodily violent), and the picture is given a certain meaty, doom-laden intensity by the extremity of the inarticulate Bekir's dire (and largely self-inflicted travails). But in the end Destiny – a suitably portentous title, by the way – feels like a rather flimsily-constructed idea for a narrative, a gimmicky structure which buckles under the burden of Demirkubuz's fondness for weighty philosophical and psychological themes.

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