venerdì 24 luglio 2020

Good time – fratelli Safdie

un film a cento all'ora, protagonisti due fratelli sfigati, Nick di più.
l'avventura di una giornata di Connie (Robert Pattinson) e Nick, alla ricerca del colpo per risolvere qualche problema, per breve tempo.
in una New York centro del mondo il capitalismo governa tutto, le menti sopra ogni cosa, dopo c'è solo la carità.
Connie tenta il tutto per tutto, forse in qualche film ha visto che può funzionare, ma non ai poveracci e ai disperati.
i due fratelli registi (uno è Nick) hanno visti in sacco di cinema, si vede, di quello giusto.
buona visione - Ismaele


ps: c'è un film, Nick e Gino, del 1988, di Robert M. Young, nel quale ci sono due fratelli, Gino (Ray Liotta) e Nick (Tom Hulce).
anche qui Nick è il fratello che ha difficoltà, e l'altro fratello se ne fa carico (bel film anche questo)






…. Su tutto quell’aria di desolazione che sta sempre addosso alle vite bruciate in partenza. Pattinson e fratellino sono solo l’ultima incarnazione di un tipo eterno del cinema e non solo, il loser in cerca di riscatto e puntualmente sconfitto. Anche se questo, più che un cinema del e sul reale, su un qualche disagio giovanil-urbano, è cinema di pura forma. Forma che prevale sul resto e anzi lo determina, lo configura. Molti gli applausi dei jeune critiques a Cannes (e la solita glaciale indifferenza dai critici paludati) che probailmente hanno trovato un modello di riferimento e identificazione nei due fratelli newyorkesi così giovani e già così di successo. #SafdieBrothersfatecisognare Quanto a me, ritengo Good Time la vera rivelazione del concorso di Cannes 2017 , più dell’acclamato svedese vincitore di Palma The Square, che più passa il tempo e più mi sembra overrated (esce tra poco nei cinema e potrete farvi un’opinione). Strapiaciuto ai sempre imprescindibili – e ultrasnob – Cahiers du Cinéma, che hanno salutato Good Time come la cosa migliore del grande festival…

...è Benny Safdie, che interpreta Nick, colui a cui viene affidata la sequenza finale che accompagna i titoli di coda del film; lo psichiatra Peter, lo conduce a una seduta di gruppo rassicurandolo che si tratta del posto giusto per lui, come la prigione è il posto dove deve stare suo fratello, dove entrambi staranno bene e avranno il loro "good time". Perché questo era il disperato traguardo a cui Connie mirava, come ogni reietto della New York invisibile, e nonostante il suo deficit Nick è consapevole del fatto che non sarà mai nel posto giusto, che per quelli come lui e suo fratello non ci sarà mai; e mentre la terapista mette alla prova il gruppo con il gioco del "chi l'ha fatto attraversi la stanza", Nick vede passargli davanti ogni suo rimpianto sulle note struggenti di "The Pure and the Damned" di Oneohtrix Point Never, il puro e il dannato: Nick e Connie. Dopo una carica di adrenalina, averti abbagliato e intossicato, con il cuore ancora in gola, i Safdie ti danno un pugno allo stomaco, ed è impossibile restarne indifferente. Good Time è destinato a diventare in brevissimo tempo un cult del suo genere.

Dal suo canto Nick è testimone d’accusa, solo attraverso la sua icona ferma e dolente, ingenuamente spaesata tra gli ultimi, dell’invasione intellettual-borghese – intrisa di ordinario cinismo – dell’ermeneutica delle metafore di routine tentate dalla terapia psicanalitica (“Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco” o “Batti il ferro finché è caldo”): la psicanalisi, in sostanza, è asettico controllo medico, e, di fatto, complice a sua volta della violenza istituzionale esercitata dall'ordine costituito e dal carcere, perché incapace, nella sua consueta inerzia intellettuale, di aprirsi a un qualche cambiamento dello status quo degli infelici. Del resto anche Ray resta stritolato dalla oggettiva malvagità del sistema, e dalla sua stessa stupidità che gli si ritorce contro. Ecco le vittime: da un lato lo scarto sociale rappresentato dai piccoli delinquenti, i malati mentali, e, in carcere, i medesimi, abbrutiti compagni di pena; ma, dall'altro, anche i poveri di colore, i sofferenti, le loro famiglie, e tutta la gente che vive intorno, anonima e muta (non esclusa la madre di Corey, che invano tenta di resistere all'invasione di quello che reputa il male – una rapace povertà – con il suo perbenismo da tipica rappresentante del ceto medio). E i boia (inconsapevoli?): l’impiegata di banca – è una nera – che dà l’allarme, l’ineffabile terapeuta, i comuni rappresentanti dell’ordine e della giustizia. Tutti nello stesso inferno della società di un stanco ordinamento capitalistico che sa produrre solo alienazione senza limiti. Anche nel sogno del “Good Time”. 

Nessun commento:

Posta un commento