domenica 19 agosto 2018

A Girl Walks Home Alone At Night - Ana Lily Amirpour

opera prima notevole di una regista Usa, pur con ascendenze persiane.
il film è pieno di citazioni, di suggestioni, in un bel bianco e nero, e però ha anche un'anima.
la storia è ambientata in un postaccio, non a caso si chiama Bad City, il posto perfetto per non viverci.
la storia è semplice e moderna e antica insieme, una giovane vampira si vendica di chi si comporta male, è il grado zero di un supereroe.
gran film (e grande gatto, di nome Masuka).
buona visione - Ismaele





La Amirpour, tecnicamente preparatissima e con una propensione per l’insolito, ci consegna immagini di forte fascino onirico, metacinematografiche, in cui si mescolano il noir più cupo dei B-movies, i giovani ribelli degli anni ’50 (con Arash Marandi novello James Dean), squarci di nouvelle vague (le magliette a righe alla Jean Seberg) e i personaggi silenti e complici di Stranger Than Paradise. Difficile ignorare queste influenze, ma nonostante l’ingombro citazionistico A Girl Walks Home Alone at Night è un’opera originale, fatta di déjà vu evocativi, costruzione polisemica dell’inquadratura, primi piani cristallini, un senso vertiginoso degli spazi. Cinema “finto povero”, in realtà iperprodotto (Elijah Wood è alle spalle del progetto, girato interamente in USA), e rivelazione di una regista promettente, dotata di un’autentica voce personale.
«Non vivo nel rimpianto del passato. Il passato non esiste per me. Consumo tutta la mia nostalgia per il presente e per il futuro», scrive la Amirpour su Twitter, consegnandoci quella che potrebbe essere la chiave per accedere al suo cinema: un cinema che porta evidenti su di sé le tracce di ciò che è stato, in forma di immagini-simbolo, archetipi fissati nell’inconscio che riemergono talora incrociati, talora giustapposti; un affioramento dell’immaginario che però diventa un oggetto del tutto contemporaneo. A Girl Walks Home Alone at Night è cinema proiettato in avanti e non all’indietro: incorpora e supera le sue origini in un divenire. La Armirpur non è una vittima del passato, ma una regista del futuro osservato con cuore malinconico: la sua attitudine metafisica, tra Borges e De Chirico, informa ogni immagine e la solleva da sterili ripiegamenti nostalgici.

Girato in un bianco e nero anamorfico a Taft (California), trasfigurata in un luogo deserto e polveroso, tenuto in vita dai pozzi petroliferi e con i cadaveri ammassati ai bordi delle strade, l'horror-western vampiresco della Amirpour gioca con i cliché della "città maledetta", dove si aggirano anime dannate dal cuore nero. Come Hossein "The Junkie", padre tossico di Arash, Atti la prostituta (Mozhan Marno) e Saeed "The Pimp" (Dominic Rains), spacciatore feroce e iper-tatuato. Ma non mancano momenti sdrammatizzanti, come la scena in cui la vampira hipster balla da sola nella sua cameretta, prima di truccarsi, infilarsi il velo e andare a caccia.
"È come se Sergio Leone, David Lynch, fondassero una band iraniana di bambini che suonano rock e Nosferatu fosse chiamato a fargli da babysitter", sottolinea la regista nelle sue note. E l'obiettivo è centrato, grazie soprattutto alla potenza visiva ipnotica delle immagini, alla buona resa dei protagonisti e a una colonna sonora sorprendente, che mescola techno, rock iraniano e atmosfere morriconiane (Federale, Radio Tehran, Bei Ru, Farah, White Lies, Kiosk, Free Electric Band, Dariush)…

Ogni gesto è coreografato in maniera quasi esasperata, ogni frame vuol lasciare di stucco con ralenty a profusione; le scene più significative, come quelle che scandiscono gli incontri del ragazzo e della ragazza, sono splendidamente realizzate ma non si può mantenere lo stesso ritmo per tutto il minutaggio: pena un controeffetto soporifero e un senso avvertibile di ostentato auto-compiacimento. Viceversa, il film funziona bene quando si prende meno sul serio, quando cioè non si arena sulla costruzione a tutti i costi di scene cool ma si prende in giro con umorismo nero. Va dato credito al film che ad arricchire una storia di per sè pretestuosa (la vendicatrice femminista in Iran) c’è una serie di dettagli piuttosto interessanti, come quello del gatto presente nelle scene principali, che, come il film ha una visione monocromatica (bianco/nero buono/cattivo) e come la protagonista una natura di predatore; non è forse una caso che il gatto sia spesso oggetto di fulminei primi piani e che venga posizionato addirittura al centro dell’inquadratura nella scena conclusiva del film.
In conclusione, questa nuova regista ha certamente talento e un senso estetico finissimo anche se troppo derivativo: speriamo che superi presto l’onanismo citazionista per creare qualcosa di veramente personale e originale.

Nello sguardo di Amirpour, gli interni delle abitazioni coincidono con la frontalità di una parete: sui cui si adagia Hossein Il Tossico; in cui sono affissi i poster dei miti che La Ragazza ammira; contro cui si staglia la silhouette di Atti La Puttanatriste, che balla per compiacere l’altro, succube innanzitutto di se stessa.
Inoltre, tagli di luce che illuminano parte di un volto come a volerne preservare almeno una traccia, prima che la figura reimmerga nel proprio oblio esistenziale. Nell’elegante composizione fotografica di Lyle Vincent troviamo la medesima frontalità anche nella lavorazione degli esterni, restituiti con inquadrature che limitano la profondità di campo. Ampio è l’uso del grandangolo, ma a prevalere è la figura isolata sullo sfondo scuro, sfuocato, a sottolineare la disconnessione, la distanza dalla fonte, l’indeterminatezza scenica.
Con lo stesso principio: le luci dei lampioni in strada hanno contorni imprecisati. Punti luce vacillanti, smagliati, rovesciati in uno spazio che prescrive una sospensione, impone un ellissi. I punti luce diventano fantasmi astratti in mezzo ad altri fantasmi: i personaggi della storia. Come il travestito Rockabilly, figura ricorrente, nonché protagonista della scena più ispirata, surreale e politica del film.
Raccontando una storia semplice, solitaria e struggente, A girl walks home alone at night custodisce un messaggio silenzioso ma assordante, e usa i generi piegandoli a detonatori di significato e di simboli.
Infine un gatto, Masuka. (Vi verrà voglia di andare a cercare le generalità di Masuka su internet, una volta visto il film.) Il Gatto, personaggio al pari degli umani, passerà di mano in mano, di casa in casa. Sentinella della visione, afflato spirituale a cui tutti a Bad City, senza saperlo, aspirano. Potrebbe indicare una nuova via da percorrere; potrebbe essere l’ultimo testimone di una città fantasma che ha perso la dignità, la felicità e il ricordo, ma li ritrova tutti con il Cinema.

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