lunedì 27 gennaio 2020

Essere donne - Cecilia Mangini





scrive Cecilia Mangini:

Come accade sempre con i lavori che sono stati un’esperienza forte e una scoperta di valore esistenziale, sono molto legata a Essere donne. L’esperienza è stata la fabbrica, e nella fabbrica la catena di montaggio, la parcellizzazione, i tempi stretti, la verifica della lezione gramsciana sul fordismo. La scoperta è stato l’incontro con le donne ‘agite’ dalla fabbrica, dal lavoro contadino, dalla famiglia, dal rapporto con la loro condizione negata, nel momento iniziale del loro (e mio) confuso interrogarsi sulla necessità del cambiamento.
Negli anni Cinquanta e nei Sessanta la fabbrica è stata il tema caldo, a volte anche rovente, al centro dell’interesse, delle diagnosi e delle profezie della cultura di sinistra. Entrare in fabbrica con la beneamata Arryflex era il mio sogno che più sogno non si può, ma anche il più proibito. […] Finalmente, la svolta si verifica nella primavera del 1964: per le elezioni la Unitelefilm chiede ai registi della sinistra italiana non di ‘suonare il piffero’ della propaganda per il Partito Comunista, ma l’approfondimento di un problema sociale, collettivo. Per il tema del lavoro femminile, mi chiamano a Botteghe Oscure. […]
Dovunque, al Sud e al Nord incontro donne convinte che l’indipendenza economica da conquistare le salverà. Lo credo anch’io, anch’io mi cullo in questa convinzione, semplice, lineare, consolatoria, invece la realtà è complessa, contorta, avara di gratificazioni. Il mio “guardati intorno, ascolta, pensa” si incontra per la prima volta con il “guardati intorno, ascolta, pensa” delle altre.
Scopro che le donne sono inquiete, spesso apertamente insoddisfatte del peso esistenziale che le limita, e sottotraccia oscuramente motivate a capire che cosa non funziona, e come rifiutarsi di pagare le penali introiettate nell’infanzia, tutte a scadenza illimitata. Ancora manca la consapevolezza del sistema penalizzante nella sua interezza, nelle sue cause, nelle sue motivazioni. Le donne sono incon­sciamente in gestazione del loro essere interamente donne.
Questa situazione magmatica mi riguarda, riguarda tutte, riguarda anche chi si rifiuterà di crescere. Certo è per il senno di poi, e dipende da una lettura attuale di Essere donne se oggi penso che istintivamente sono stata spinta a identificarmi in tutte loro, in Puglia entrando nel filmato come raccoglitrice di olive, al Nord come operaia al controllo dei telai.


un articolo di Roberta Errico

Se le donne di oggi hanno la possibilità di respingere le imposizioni della società lo devono a tutte quelle donne del passato che hanno rifiutato di essere identificate esclusivamente per le loro qualità femminili. Nella più o meno recente storia italiana troviamo tante di queste protagoniste, ma una vera e propria pioniera nel nostro mondo culturale e politico è stata senz’altro Cecilia Mangini, la prima documentarista del cinema italiano.
Mangini nasce in Puglia nel 1927, ma cresce e studia a Firenze, dove si trasferisce con i genitori a cinque anni. Racconta di aver ancora impresso nella memoria il ricordo della società fascista: il primo approccio con la politica infatti per lei fu il giuramento di fedeltà al regime, il rituale che usava all’epoca, compiuto all’età di sei anni in occasione dell’inizio della prima elementare.
Ciò che fin da bambina, però, la liberò dal pensiero unico del regime fu il cinema neorealista. Il cinema infatti entrò presto e in modo salvifico nella sua vita. “Sono stati quei film di De Sica e di Rossellini a farci capire che cosa non funzionava nel fascismo”, ricorda in una recente intervista a La Repubblica. “Questa capacità di raccontare quello che avevamo passato noi [bambini] attraverso altre persone senza sensi di colpa, ma con la necessità di capire”.
Nel 1952, poco più che ventenne, la giovane Mangini con i soldi che la famiglia le regala per Natale acquista una macchina fotografica Zeiss, modello Super Ikonta, e capito ben presto che non avrebbe utilizzato quel prezioso strumento per fotografare le ricorrenze di famiglia, parte alla volta di Lipari e Panarea, insieme al compagno di vita, il regista e sceneggiatore Lino del Fra. Lì documenta il dramma delle condizioni dei minatori delle cave di pomice e delle loro mogli e in quel momento, come rivelò in seguito, acquisisce la consapevolezza di poter essere una fotografa di professione. Tramite la fotografia, Mangini coniuga il suo prorompente desiderio di indipendenza con la passione politica, una strada che la porta a Roma, dove si trasferisce e inizia a lavorare alla Federazione italiana dei circoli del cinema. Tra la fotografia e la regia il passaggio per lei fu naturale, anche se non lo era affatto per la bigotta società italiana: “Che le donne facessero cinema, praticamente, almeno in Italia, era impossibile”.
La vera svolta avvenne quando il produttore cinematografico Fulvio Lucisano, convinto del suo talento, le propose di girare un documentario. Così lei gli presentò il soggetto di Ignoti alla città, ispirato dal romanzo Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale “vessillo della libertà non democristiana”. Mangini contattò Pasolini per proporgli di scrivere il testo del documentario, cercandolo semplicemente sull’elenco telefonico e lui, con sua grande gioia, accettò, dando inizio al loro sodalizio artistico e a una grande amicizia. Insieme lavorano, infatti, ad altri due documentari: Stendalì – Suonano ancora nel 1960, e La canta delle marane nel 1962, opere incentrate sulla vita delle persone che vivevano ai margini della società consumistica degli anni Sessanta. Mentre il resto della società italiana – intellettuali compresi – si lasciava inebriare dal capitalismo, Cecilia Mangini e Pier Paolo Pasolini hanno raccontato le vite degli ultimi, tra cui le donne: figure invisibili che si ritrovano schiacciate tra vecchi retaggi di una società patriarcale e nuovi meccanismi culturali imposti dal boom economico. “La situazione delle donne era spaventosa anche se non ce ne rendevamo conto”, racconta Mangini, “le donne erano sottomesse […] destinate alla castità anche nel matrimonio”.
Nel 1965 la regista aderisce a un progetto promosso dal Partito Comunista Italiano che prevedeva la realizzazione di documentari che raccontassero la vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Mangini da qui realizza un reportage innovativo per l’epoca dal titolo chiaro: Essere donne. Il documentario risulta essere tra le prime indagini cinematografiche sulla condizione femminile in Italia, analizzata nei suoi diversi aspetti: economici, sociali, psicologici e culturali. Una testimone oculare dell’epoca, la giornalista Bruna Bellonzi, presente a una proiezione privata del documentario, scrisse su Noi Donne, il 22 maggio 1965, che il film mostrava “Il mondo della donna, le sue brucianti contraddizioni, il suo impossibile equilibrio fra un modo di essere vecchio di secoli e aspirazioni nuove”.
Cecilia Mangini voleva denunciare le contraddizioni e la violenza della sconcertante realtà lavorativa e familiare delle donne italiane, che non aveva niente a che vedere con l’immagine edulcorata proposta dall’industria culturale degli anni Sessanta. In questo modo creò un filone nel giornalismo d’inchiesta che ancora oggi fa scuola. Il linguaggio della sua narrazione documentaristica è sorprendentemente moderno, veloce, accattivante, contrapposto alle immagini patinate dei rotocalchi e delle riviste di moda. Il ritmo diventa frenetico, fino a risultare disturbante, quando Mangini mostra la vita reale delle donne italiane, scandita dal lavoro in fabbrica e da quello domestico.
Il documentario però subì un grave boicottaggio da parte delle autorità, nonostante la critica italiana e straniera lo avesse considerato un capolavoro. All’epoca della sua uscita, prima di ogni film proiettato al cinema doveva essere trasmesso per legge un documentario. Il mediometraggio però venne bocciato dai produttori e dai registi che facevano parte della Commissione ministeriale che decideva quali opere potessero accompagnare la programmazione dei film nelle sale, impedendogli di essere distribuito sul territorio. La Commissione camuffò la censura denunciando presunte carenze tecnico-artistiche, quando secondo più commentatori il reale motivo fu l’insopportabile sincerità del documentario. La regista fiorentina fu vittima della mancanza di rispetto della società maschilista italiana, che non tollerava la denuncia dei suoi consolidati usi e costumi, eppure ciononostante è riuscita a donare alle sue contemporanee e alle donne delle generazioni successive un’opera di inestimabile valore in cui potersi rispecchiare.
Mangini è stata tra le prime a descrivere “la realtà complessa, contorta, avara di gratificazioni” delle donne, come la definì in un’intervista del 2015. Le donne hanno sempre sopportato il peso della contraddizione tra le loro aspirazioni e le loro vite, uniformate nella maggior parte dei casi dal modello comportamentale imposto dalla società, fatto di condizionamenti culturali travestiti da valori condivisi e solo per questo ritenuti giusti o accettabili. Con le sue opere, ha contribuito a dare voce ai dimenticati, ha mostrato le contraddizioni dell’essere donna, ha rivelato la desolazione che si nascondeva dietro il boom economico e ha documentato l’avvento della civiltà industriale e dei consumi. È tra le donne italiane che hanno contribuito a comporre un nuovo tipo di consapevolezza e di sensibilità, che oggi accompagna le nuove generazioni.
“Le donne sono inconsciamente in gestazione del loro essere interamente donne,” ha recentemente dichiarato, “Questa situazione magmatica mi riguarda, riguarda tutte, riguarda anche chi si rifiuterà di crescere”, a dimostrazione della sua inarrestabile ricerca umana e artistica. Per questo va riscoperta, per arricchire la riflessione culturale e politica non solo sulla condizione della donna, ma sull’intera società.


“Essere donne” di Cecilia Mangini. Storia di un boicottaggio - Zoé Rogez

Il documentario Essere donne (1965), girato da Cecilia Mangini è stato all'epoca ingiustamente boicottato dagli stessi produttori e registi che facevano parte della Commissione ministeriale che decideva delle sorti dei medio e cortometraggi che accompagnavano la programmazione dei film nelle sale. Non ottenere l'appoggio degli esercenti e neppure il premio di qualità, significava negare  una vita sullo schermo al proprio film. Era un modo subdolo per censurare indirettamente quei documentari che affrontavano argomenti scomodi che il governo non desiderava far arrivare al pubblico. La documentazione conservata nell'Archivio di Cecilia Mangini e Lino Del Fra aiuta a capire le ragioni della sua 'bocciatura'.
Il nuovo restauro della Cineteca di Bologna, riporta finalmente in sala quest'opera alla quale il tempo non ha tolto la sua forza espressiva, il suo significato. L’obiettivo di Cecilia Mangini di documentare la realtà sconcertante della condizione lavorativa e familiare della donna a confronto con l’immagine femminile edulcorata proposta dall’industria culturale degli anni Sessanta, è una modalità d'inchiesta, ancora oggi valida.
Con il sostegno di Luciano Lusvardi, responsabile della sezione Stampa e Propaganda del PCI, Cecilia Mangini, prima documentarista femminile italiana, gira il paese, dai campi di uliveti pugliesi alle fabbriche milanesi, per incontrare le donne. La giornalista Bruna Bellonzi, presente alla proiezione privata del documentario, scrive su Noi Donne, il 22 maggio 1965 che il film mostra “il mondo della donna, le sue brucianti contraddizioni, il suo impossibile equilibrio fra un modo di essere vecchio di secoli e aspirazioni nuove”.
All’estero, Essere donne ottiene un grande successo. I maestri del documentario Joris Ivens, John Grierson e il polacco Jerzy Toeplitz, dedicano al film di Cecilia Mangini il premio speciale della giuria al Festival di Lipsia del 1965. Nello stesso anno, Essere donne verrà selezionato dal Festival Internazionale del cortometraggio e del documentario di Cracovia. Descritto come un'”inchiesta sincera e onesta” per la verità contenuta nelle immagini e per la “sobrietà della testimonianza”, la stampa italiana non tarda a esprimere l'indignazione di fronte all’esclusione di Essere donne dalla programmazione obbligatoria.
Felice Chilanti – che scrive il commento off del film con la collaborazione di Giuliana dal Pozzo – dichiara con fermezza la sua contrarietà in un telegramma a Cecilia Mangini che recita: “Ti esprimo mia solidale indignazione contro nuova offesa e violazione diritto dignità della cultura”. Paese Sera il 31 maggio 1965, pubblica un articolo dello stesso Chilanti dal titolo Essere donne o essere vampiri?, dove il documentario viene definito “nobile, fatto bene, ricco di valori poetici e morali”.
Perché un film così apprezzato sia all’estero che dalla critica nazionale non viene proiettato nelle sale italiane? La Bellonzi fa luce sul processo di selezione alla programmazione obbligatoria: “Dapprima li vede una commissione di censura che nega o meno il visto a seconda che vi riscontri o no elementi offensivi della moralità. Poi il documentario passa ad una seconda commissione, quella per la programmazione obbligatoria che deve accertare se l’opera presentata dispone dei requisiti minimi, artistici e tecnici (ossia se è bello, ben fotografato, ben commentato, ben musicato) per essere abbinato ad un film e venir così proiettato nei cinema normali”. In un anno, circa 200 documentari hanno la possibilità di concorrere al premio di qualità, ma non tutti lo ottengono. L’esclusione rappresenta un doppio danno; gli esercenti non li noleggiano e dunque non c'è alcun rientro economico per chi li ha realizzati e perdono l'occasione di concorrere al premio.
La Commissione ministeriale in questione – i cui membri sono stati scelti dal Ministero del Lavoro - era composta dal produttore Ermanno Donati, dal regista Piero Regnoli - tra l’altro ex-critico cinematografico di l’Osservatore Romano - dal musicista Franco Ferrara, dall’operatore Sandro d’Eva e infine dal critico Mario Gallo. La giuria ha espresso, a maggioranza, un giudizio negativo nei confronti di Essere donne, tanto che sempre la Bellonzi accusa la Commissione di aver interpretato questo documentario come un “sottoprodotto di infima qualità”; ponendo l'accento sulle vere ragioni della censura; “non è piaciuta la sua sincerità che è denuncia” e afferma inoltre che il giudizio non si è limitato agli aspetti tecnico-artistici, ma si è esteso al tema stesso, oggetto del documentario.
Essere Donne riceve il sostegno di Sandro d’Eva e del critico socialista Mario Gallo, ma la loro opinione non avrà voce in capitolo; la maggioranza pone un veto di carattere ideologico. I principali oppositori all’inserimento del film della Mangini nella programmazione, sarebbero stati il regista Piero Regnoli e il produttore Ermanno Donati, accomunati da una lunga collaborazione nella realizzazione di film cavallereschi e di film erotici d'ambientazione horror. Nell'articolo sopra citato, Felice Chilanti esprime il suo stupore di fronte alla loro presenza nella giuria: “Siamo convinti che produttori, registi e sceneggiatori di film sui vampiri non debbano, assolutamente, rappresentare lo Stato nel momento di decidere se un film come Essere donne meriti o non meriti di venire ammesso alla programmazione”.
Di fronte all'unanime dissenso, il Ministero dello Spettacolo diffonde un comunicato per smentire che nell’esclusione del film, siano intervenuti motivi di censura politico-ideologica, giustificando così la scelta della giuria: “Il comitato, il quale ha il compito di scegliere i cortometraggi da ammettere alla programmazione obbligatoria, è composto di rappresentanti delle diverse categorie della spettacolo, designati dalle rispettive associazioni”.
In relazione al comunicato, il periodico L’Unità scrive che è “evidente che qualsiasi comitato ministeriale, comunque composto, può essere soggetto per sua natura a condizionamenti e pressioni politico-ideologiche, ed agire di conseguenza” e denuncia la malafede del Ministero dello Spettacolo, notando che “tra i commissari hanno avuto peso determinante considerazioni di natura puramente politica”.
Cecilia Mangini non verrà ricompensata con la gioia di vedere il film sugli schermi italiani. Rimarrà “un pensiero lontano, irraggiungibile” - espressione usata dalla stessa regista nella sceneggiatura per definire il senso di frustrazione delle donne intervistate che sognano una vita diversa, fatta, invece, solo di “fatica e sacrificio e ancora sacrificio”.



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