giovedì 19 maggio 2016

Al di là delle montagne - Jia Zhang-Ke

sembra di vedere un film neorealista (e un po' anche alla Ken Loach), ed è un grande complimento.
arriva il capitalismo, l'accumulazione primitiva, gli squali, non sono tempi per gente umile.
Shen Tao (stessa attrice protagonìsta di Io sono Li, di Andrea Segre, e degli altri film di 
Jia Zhang-Ke) deve scegliere un marito, fra Liangzi e Zhang,  avrà un figlio, Dollar, intanto il futuro arriva, troppo in fretta.
c'è chi farà il padrone, e chi il lavoratore mezzo schiavo.
il tempo passa, qualcuno muore, Shen Tao aspetta.
impossibile annoiarsi, e non soffrire, o uno dorme, o è già morto - Ismaele






Se il film di Jia ha un difetto è il suo porgersi indifeso, privo di astuzie e di schermi. Le sue metafore si offrono a mani nude, non vengono a patti con la complessità di un ragionamento sulla Cina contemporanea, non ne hanno il bisogno né l’intenzione…

Mountains May Depart è un film imperfetto ma potente, grandioso e insieme spudoratamente sgangherato e kitsch. Potrebbe crescere con il tempo e salire allo status di capolavoro. Vedremo.

…Se il suo cinema precedente minacciava l'assorbimento dell'individuo nelle metamorfosi capitaliste, Al di là delle montagne realizza la minaccia e la spiega lungo un'asse temporale che contempla presente, passato e futuro. Sospeso tra la certezza di quello che è stato, il film apre sul Capodanno del 1999, e l'ipotesi di quello che potrà essere, il film chiude sull'inverno del 2025, Al di là delle montagne materializza l'ambizione cinese nella figura di Zhang. Indietro restano Lianzi, senza lavoro e in compagnia del suo cancro, Tao, corpo nazione indecisa sulla strada da prendere al debutto e poi votata al consumo, e Dollar, il prezzo pagato alla conversione economica. Dopo aver reso conto di milioni di persone povere e profughe e aver registrato centinaia di città e siti archeologici sommersi, il regista affronta i flussi migratori e disloca per la prima volta i suoi personaggi al di là dei confini cinesi. L'Australia diventa la terra promessa di Zhang e la terra straniera di Dollar, dentro un melodramma superbo su due generazioni che non riusciranno più a comunicare. In fondo al loro silenzio, che ormai parla soltanto la lingua inglese, resiste la tradizione incarnata da Tao, punto fermo del film che prepara ravioli e 'riconosce' la voce cara. Dentro un contesto (sur)reale, dentro città simbolo della cultura classica cinese ridotte a cantieri, Zhangke accomoda tre personaggi in cerca di qualcosa, forse l'amore, forse una famiglia, forse il successo, forse la propria identità, forse una finestra verso il mondo esterno, che ha smesso di essere clandestino e contempla adesso l'occidentalità pop dei Pet Shop Boys…

Mountains May Depart non è un capolavoro. Non è questo il punto. Non lo è mai, ovviamente. Il punto è che questo film è qualcosa di più di un’opera e Jia Zhang-ke è davvero uno dei più grandi registi della terra. E non per la consapevolezza teorica o la sensibilità di uno stile supremo che trasforma la necessità in caso. Non ha bisogno di forzare la mano, di curare la posizione le luci e di “creare” il bello. Quello che gli sta a cuore è incontrare le “persone”, seguire le loro emozioni più vere e sincere, tutti quei sottili cambiamenti che si muovono sul filo dei ricordi, dei rimpianti, delle speranze, lungo la colonna sonora delle canzoni popolari, quelle dei Pet Shop Boys o quelle di Sally Yeh. Per lui la perdita della lingua non è un dato sociologico, è un taglio nella carne, nella sostanza stessa dei legami. Questo film è qualcosa di più. È una confessione a cuore aperto e un abbraccio che stringe al petto, tocca la pancia. È come l’amore. Fa piangere e gioire di bellezza.

…con Al di là delle montagne Jia Zhangke ha scritto forse anche il suo film più complesso, in cui le ellissi temporali e narrative sono tenute insieme non solo dal riapparire di feticci, anche culinari (i ravioli che vengono preparati e mangiati in tutti e tre gli episodi), non solo da un discorso estetico di rara raffinatezza e profondità (si passa dal formato 1:33 del primo episodio all’1:85 del secondo, al cinemascope con obiettivi anamorfici del terzo), ma anche da una colonna sonora che sembra giocata su una sorta di eterno ritorno nietzschiano, a partire da Go West dei Pet Shop Boy, cantata, ballata e ri-declinata in varie forme e sensi.
Se abbiamo la forte impressione che Jia Zhangke sia riuscito a trovare la formula per tornare ai livelli di Still Life, va detto comunque che l’innesco di Il tocco del peccato è stato decisivo. È, infatti, solo grazie al suo film del 2013 che oggi, con Al di là delle montagne, possiamo assistere a una forma di cinema che scavalca a piè pari il legame con un certo tipo di autorialità, a tratti dimessa a tratti introversa, che aveva connotato il cinema di Jia del passato. Ora siamo di fronte a un cineasta che sa osare spudoratamente, che sperimenta con l’immagine come solo pochissimi al mondo sono in grado di fare, che si attesta definitivamente nell’alveo dei più grandi.

…Le montagne possono partire, dice il titolo originale. Richiama, contraddicendolo, un proverbio cinese secondo il quale gli amici sono stabili come montagne. Così dovrebbe essere, e non è, tra il padre di Dollar e l'amico più umile, sinceramente innamorato di Tao, in quel primo episodio che ha statuto autonomo tanto da esser corredato da propri titoli di coda. Al di là del proverbio, il titolo del film si riferisce alla Cina stessa: è lei, il suo popolo, la montagna destinata a spostarsi contronatura, in un movimento che simbolicamente rivoluziona le regole della fisica - non poi diversamente da quanto l'uomo riesce a fare, ad esempio quando costruisce una diga colossale a invadere d'acqua una vallata popolata da un milione di persone ("Still life" e "Dong", documentario sulla costruzione della diga del Fiume Giallo).
Quello di Jia Zhang-Ke è cinema dello sradicamento. Prima ancora di essere cinema semi-documentaristico, "del reale", cinema contemplativo che procede con ritmi dilatati e long takes; o cinema-documento sulla Cina contemporanea e sulle sue metamorfosi.
Il cinema di Jia ha il dono della semplicità e della trasparenza, nel porsi come critica dei vizi di fondo del modello capitalista e della corruzione (non solo materiale) che vi si insedia. Il progresso ha un costo terribile in termini di perdita, rinnegamento della memoria, delle radici. "Mountains may depart", proprio come il titolo (originale) suggerisce, si sposta dalle radici con due movimenti a strappo, violenti e inesorabili come lo scorrere del tempo. Il passato si allontana e si sgretola; le memorie sono oggetto di rimozione. La perdita delle radici si accompagna alla rinuncia, inconsapevole, ai valori e alle emozioni, all'autenticità delle cose e al loro significato. Alla vita stessa. Il film si apre e si chiude (didascalicamente, ancora) sulle note di "Go west" dei Pet Shop Boys, che rimane per Tao memoria di giovinezza. Unica illusione di felicità? 
C'è un pessimismo di fondo, nel cinema di Jia, verso il progresso in quanto tale. Un pessimismo che trascende la Cina e la contemporaneità, ed è in grado di tradursi immediatamente in metafora per l'intera civiltà globalizzata: in chiave di lettura del progresso umano in senso lato. Stiamo parlando di un autore orientale: il progresso e lo sviluppo non posseggono i connotati teleologici delle "magnifiche sorti e progressive" che hanno in Occidente. Nel cinema di Jia è evidente come il progresso sia ontologicamente una tara della modernità - e come tale sia vissuto sulla propria pelle dal popolo cinese. Su di una tradizione millenaria, il progresso non attecchisce che distorcendola, snaturandola. 
E' la peculiare declinazione nel contesto cinese della proverbiale "mutazione antropologica" della modernità, che ha sconvolto le nostre società dalla seconda metà del XX secolo. Oggi, in Cina, può apparire neorealismo in ritardo di settant'anni: invece funziona come monito e come riflessione su ciò che anche noi (i nostri nonni e genitori) abbiamo attraversato. E non ricordiamo, oggi, o non abbiamo mai saputo, per quali vie e percorsi, anche noi per quali sradicamenti, siamo giunti nel XXI secolo.




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