domenica 22 maggio 2016

La caccia – Arthur Penn

si fa bene a cercare i "vecchi" film.
spesso si trovano dei gioiellini che neanche uno s'immagina, La caccia, del 1966, è uno di questi.
Arthur Penn è un maestro, qui si toccano i temi eterni del cinema (e non solo), la giustizia, il potere, la dignità, i soldi, l'amore, l'ipocrisia, il coraggio, tra le altre cose.
le scene sono spesso accompagnare da un coro greco, la massa, il buon senso, la vendetta.
non si pensi a un film a tesi, freddo, è cinema vivo che non può non coinvolgere, in un crescendo senza pause.
Marlon Brando, Jane Fonda, Robert Redford, Rober Duvall e Angie Dickinson sono i protagonisti.
recuperatelo, se potete, non ve ne pentirete - Ismaele






…Penn si affida ad una regia essenziale e che sfiora il "minimalismo". La macchina da presa si muove pochissimo e solo nel finale viene lanciata in scene "action" fino a quel momento assenti. Arthur Penn muove dal suo passato teatrale e costruisce un film di "messa in scena", fatto di primi piani e piani fissi, lasciando alle prove attoriali il compito di veicolare il suo messaggio tematico e cinematografico. Ed ecco che la fuga di Bubber ci viene mostrata di rado, con fugaci sequenze: la sua è la metafora di un paese che nel pieno dei propri errori (il Vietnam era già cosa americana) tentava di fuggire da se stesso, per tornare infine a casa. E non poteva esserci che sconfitta.
"La caccia" è un lungometraggio di denuncia e critica, lo sguardo politico e rassegnato di un regista che attraverso il cinema e la ridefinizione dei generi cinematografici, ha portato avanti un racconto di perenne critica sociale e politica verso il suo paese. Arthur Penn è stato uno dei più importanti e influenti autori del cinema americano nel biennio '60 e '70. Ha raccontato storia, sogni e fallimenti di una nazione. "La caccia" è un film profondamente personale con cui Penn ha utilizzato il mezzo cinematografico per raccontare la realtà.
Un gioiello da riscoprire.

Un vero e proprio capolavoro. Penn smaterializza il sogno americano buttando in faccia allo spettatore lo sgretolarsi delle convenzioni del tempo: la famiglia allo sbando, la giustizia ormai intesa come un qualcosa di personale, lo sprezzo della legge e soprattutto il becero razzismo che pervadeva (e pervade...) la società americana. Inoltre Penn ci mette di fronte alla dignità dei poveri contro l'esibizionsimo finto dei ricchi. Un film che non ha una vera trama, per cui la fuga di Redford altro non è che l'espediente con cui Penn scandaglia le magagne morali e ideali di una società di affaristi, falsi e moralmente ambigui. Splendida la scena in cui Brando mezzo sfondato di pugni guarda i cittadini del paese che sono tutti lì a guardare e giudicare senza muovere mezzo dito. Penn punta il dito anche contro la manipolazione delle notizie, con i personaggi che diffondono voci non vere al solo scopo di appagare la loro voglia di protagonismo. Il tutto reso con una regia "invisibile" che Penn si porta dietro dalla sua formazione teatrale: la macchina da presa si muove pochissimo (eccezion fatta per il finale) e predilige piani fissi. Secchissimo anche il montaggio, talmente ardito da "tagliare" il ritmo e la scena quasi da risultare fastidioso. Un espediente che ritroveremo anche nel successivo "Gangster story". 
Un Penn meravigliosamente politico, duro e straordinario nel veicolare le prove attoriali (su tutti Brando e Jane Fonda) verso l'esplicazione del suo messaggio.



Fa letteralmente rabbrividire, ed è ingiusto considerarlo alla stregua dei tanti film deludenti che Marlon Brando ha girato in quegli anni (cfr. i due seduttori, a sud ovest di sonora, i morituri etc.). 
Non è tanto per l'interpretazione di Brando che "la caccia" verrà ricordato, ma per la maestria di Penn di evocare con sordida crudeltà quella ritualistica collettività di provincia del film. 
Per certi versi, un film che lo ricorda potrebbe essere "boys don't cry", recente e durissimo film che rivelo' al grosso pubblico l'androgina Hillary Swank: ho reso l'idea? 
Un film agghiacciante sulla follia di un paese in preda all'esaltazione e al linciaggio del "martire di turno", sulla brutalità generazionale (da brividi l'immagine di tanti giovani traviati da un bisogno estremo di sostituire la legge), il razzismo, la difficoltà di un ordine messo a dura prova da un senso di protervia condanna popolare. 
E' nel finale che noi intuiamo (spoiler) tutta l'impotenza della legge e dell'ordine davanti a un "potere" (se così vogliamo chiamarlo) che rimanda alla memoria la peggior legge del west. 
Un film da rivedere e rivalutare, per nulla eccessivo e inverosimile come vorrebbero farci credere certi critici

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