domenica 9 gennaio 2022

Detroit – Kathryn Bigelow

una terribile giornata del luglio del 1967, a Detroit.

la settimana nella quale una rivolta tiene in scacco la città, e la tranquilla gioventù di alcuni ragazzi viene ferita da alcuni nazisti (razzisti e assassini) in divisa, nazisti del Michigan, per la precisione.

Kathryn Bigelow mostra una notte di terrore in un motel, alcuni poliziotti (assolti, naturalmente) ammazzano senza motivo dei ragazzi, e tu che vedi senti la paura, insieme all'impotenza, di Larry e di tutti, per la fine così vicina.

gran film.

buona (dolorosa e necessaria) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, su Raiplay

 

 

…Tutta la parte dei sorprusi nell’hotel è esemplare. Perfetto esempio di tempi, raccordi di montaggio, sintesi nel modo in cui accumula la follia. Partita dall’imitazione dei metodi degli agenti. Proseguita con lo sparo di una pistola-giocattolo. Infine con l’irruzione della polizia. Spalle al muro. Un incubo che sembra non finire mai. Con le simulazioni delle morti. Dove ogni azione qui resta impressa. Per la sua incredibile forza ed efficacia. In un cinema che trascina lì dentro. Dove le foto in b/n degli scontri sono come lo squid di Strange Days. E poi gli occhi. Di pazzia, di terrore. Basta un dettaglio per immortalarsi. Dove non c’è più bisogno di nessun dialogo. Con attori così realistici che sembrano i personaggi veri usciti di nuovo fuori per comparire nel film. Ed è così che divampa il razzismo e la sopraffazione dei diritti umani. E tutta questa parte sembra avere anche quell’indignazione dei migliori film sulla Shoah. SS contro cittadini ebrei. Con lo sguardo del giovane agente che inquina le prove come quello di Ralph Fiennes in Schindler’s List.

Troppo potente il cinema della Bigelow. Negli anni ’80 come oggi. Qui il tempo non si è (davvero) fermato. Che si sposta, mantenendo sempre altissima la tensione, anche nelle zone del cinema processuale. Detroit è il film diretto da una cineasta migliore anche del ‘migliore’ Spike Lee. Con anche le accensioni musical, con la storia di Larry e il gruppo dei The Dramatics. Dove le prove nella sala di incisione lo deviano, anche solo per un attimo, dalle parti di un film concerto o di un biopic musicale che speriamo, di cuore, di vedere presto, nell’opera della regista. Un film troppo bello, troppo importante, troppo necessario, per essere vero. Inutile dire che parla dell’America di oggi. Dall’elezione di Trump. Troppo ovvio. E il parallelismo è così immediato che la Bigelow neanche ci si spreca a sottolinearlo. Perché Detroit non ha bisogno davvero di spiegare niente. Parla e dice tutto con uno slancio visivo, visionario dove c’è già tutto. Con 142 minuti che volano via alla velocità del tempo. Uno dei film più importanti realizzati dopo il 2010.

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L’assoluta evidenza della violenza fine a sé stessa che lo spettatore pare sentire persino dentro alla propria pelle viene ribaltata nell’opacità del racconto. Come se quel reale che sembrava confuso proprio perché visto “troppo da vicino” finisse per perdere i contorni e farsi silenzio. Il vero trauma d’altra parte non è solo un evento d’intensità inaudita che rimane chiuso nel proprio passato, ma anche l’influenza che questo ha nella capacità di poterne fare parola. E così il problema della violenza razziale raggiunge la sua forma cinematografica più adatta: quella di non potersi mai fare immagine di sé stessa. E in questo sì, Detroit, è davvero un film politico.

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…La Bigelow trasforma ogni corpo attoriale ferito, piegato e martoriato in cinema. La resa cinematografica passa attraverso le percosse, il sangue tra i denti e l’abuso di potere. Detroit finisce per dividersi in tre atti distinti ma necessari: i tumulti iniziali e conseguente degenerazione dello stato civile nella cittadina, l’assedio serrato e claustrofobico nel motel e infine le ripercussioni successive, con annesso processo al libero abuso di potere della polizia. Non c’è un vero e proprio protagonista con cui assorbire tutta la storia, ognuno vivrà una propria situazione paradossale dove vedrà negarsi o capovolgersi i propri diritti. La polizia spara ma forse non doveva sparare, la giovane guardia giurata nera (John Boyega) non ha sparato, ma serve un capro espiatorio (preferibilmente nero) a cui imputare la paternità di quei bossoli dentro e fuori il motel.

In questa forma e messa in scena, Detroit è un film necessariamente violento e doloroso, con relativi pesi e misure sul valore della vita umana, ma è proprio questa ambiguità che regala un’opera raffinatissima e dal forte impatto sia emozionale che intellettuale. La visione di Detroit è pari a una fredda lama che entra nella nuca e si fa strada all’interno del corpo fino a esplodere nel petto, colpisce lo stomaco, non risparmia nessun organo vitale, risultando volontariamente disgustoso ma necessario, per restituire al meglio il marciume raffinato di una vicenda che ancora tiene banco tra media e lotte razziali, e che per quanto se ne ometta, è un ostacolo che sembra ostruire ancora oggi come cinquant’anni fa, la strada verso l’uguaglianza. Sembra questo il messaggio della Bigelow: narrarci la storia rendendo retroattivo un evento più attuale che mai.

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La più classica delle costruzioni drammatiche: tre atti. Il primo introduce il contesto e innesca la miccia; il secondo va al cuore del racconto, isolando i personaggi principali e le loro dinamiche; il terzo tira le fila della storia. Si sviluppano così, con rigore potente, le due ore e 23 minuti di Detroit, il film che Kathryn Bigelow ha diretto su una sceneggiatura di Mark Boal (già autore di The Hurt Locker e Zero Dark Thirty) e con la fotografia di Barry Ackroyd (già direttore della fotografia di The Hurt Locker e dei film di Paul Greengrass). Dalla loro collaborazione paiono sprigionare pura energia e un deciso approccio alla Storia. Parlare del passato con la consapevolezza che questo si rispecchia nel presente; isolare segmenti minori e, come in questo caso, misconosciuti, per dare un senso al quadro generale. Aperto da una breve sequenza animata che, attraverso i dipinti di Jacob Lawrence, ricostruisce i passaggi dell’emigrazione interna, da sud a nord, degli afroamericani, Detroit racconta di quella notte del 23 luglio 1967 in cui la polizia fece irruzione in un club senza licenza nel quartiere nero, causando, durante gli arresti per strada, l’esplosione di uno dei tanti disordini che infuocarono quell’estate le metropoli americane. Durò cinque giorni e fu uno dei più violenti della storia degli Stati Uniti. Dal prologo quasi documentaristico (dove le nervose riprese di Ackroyd si fondono con i newsreel d’epoca che la Bigelow ha utilizzato), emerge Larry, giovane afroamericano del gruppo dei Dramatics, la cui esibizione pubblica viene interrotta dai moti, che con l’amico Fred si rifugia in un hotel dove tutto pare tranquillo e dove alcuni ragazzi neri e due ragazze bianche stanno facendo festa, bevendo, scherzando…

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Detroit rimane senza dubbio un film di rara potenza, talmente rigoroso nella propria durezza da non essersi conquistato troppa popolarità in patria (dove la reazione del pubblico è stata piuttosto tiepida), ma da ascrivere fra i migliori titoli della produzione di Kathryn Bigelow. E all'interno di un cast formidabile, a lasciare sbalorditi è il ventiquattrenne inglese Will Poulter, già visto in Revenant - Redivivo e a dir poco sensazionale nei panni del poliziotto sadico e razzista: da parte del potenziale Pennywise (un ruolo poi sfumato), una delle performance più inquietanti viste al cinema negli ultimi anni.

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Lo stile è quello caratteristico della regista americana: energico, adrenalinico, nervoso, qui reso ancora più ruvido e sporco da una mano quasi documentaristica, che vuole forzatamente catapultare lo spettatore dentro, al fianco dei personaggi, fargli sentire fisicamente, epidermicamente, le lacrime, il sudore e il sangue, e con loro la rabbia, la paura, l'umiliazione provate da quei ragazzi, quella notte, in quel motel. In quella situazione che ne distillava velenosamente una più grande, più ampia, più diffusa.
Se da un lato la regista ha gioco facile nel raccontare il volto sadico, laido e porcino della violenza, perfettamente incarnato da 
Will Poulter (ma anche Ben O'Toole non scherza), se con una storia così hai anche dalla tua l'inevitabile molla dell'indignazione, è vero però che, a dispetto di quella lunga e violenta parentesi all'Algiers - che non può per temi e stile non far pensare al Diaz di Vicari, nel bene come nel male - Detroit non è un film sulla violenza inflitta ai corpi neri dei protagonisti.
La Bigelow, infatti, è molto più interessata a qualcosa di altro, qualcosa che, paradossalmente, rema contro alla riuscita del suo film.

Quello che la regista vuole studiare è la psicologia della vittima, il risultato invisibile della violenza nell'animo di chi subisce, le trasformazioni che comporta.
Trasformazioni che, collettivamente, possono portare alle rivolte, come bene spiegano le didascalie iniziali, ma che sul piano individuale si manifestano diversamente, come raccontato dalle storie dell'aspirante soul singer di Algee Smith, che dopo i fatti dell'Algiers ha abdicato ai suoi sogni, per non far musica che avrebbe fatto ballare i bianchi, o della guardia giurata di 
John Boyega, fin dall'inizio troppo "zio Tom", troppo ansioso di compromessi, per tutelare come giusto i diritti suoi e dei suoi fratelli.

Sarà però per come le vicende finiscono per implodere con quell'espirazione finale, sarà perché rappresentare la violenza è facile e quello che accade dentro la testa di chi la subisce meno, sarà per via del modo un po' schematico, superficiale, facilmente giornalistico e manicheo col quale vengono trattate le questioni razziale, ma Detroit è un film che finisce con vivere di una contraddizione profonda e un po' inquietante.
Quella per cui sotto quella superficie così dinamica, caotica, vorticosa e coinvolgente, batte un cuore narrativo freddo, quasi algido, che non riesce a riempire di un calore vero, persistente e duraturo le storie singole e collettive che racconta. E che, in fondo, della questione razziale oggi, dice pochissimo.

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…Bigelow assorbe decenni di cinema civile per farlo esplodere in una spirale di rabbia, rancore e pietà: l’albergo dove la polizia uccide barbaramente tre esseri umani è l’incubo finale del suo cinema, il luogo dove la Storia deve fare i conti con le sue colpe, dove l’umano si disgrega nell’oscena immoralità del corpo di giustizia. La violenza non è mai ostentata nel cinema della Bigelow, ma è la terribile necessità da mettere in scena, la via crucis verso una resurrezione che non avverrà mai.

E’ un film buio, Detroit, oscuro come i tempi in cui viviamo. Non conosce l’happy end dei grandi racconti ma comprende la trasparenza di un’emozione: fa della rabbia e del furore uno strumento di battaglia. Non dimentica mai cosa rende un uomo uomo: l’indignazione diventa allora l’arma più potente. Detroit coltiva il rancore, protegge il dolore, ci lascia liberi di odiare (e di amare). Fino ad arrivare a quel processo brevissimo, in termini di struttura narratologica: appena dieci, quindici minuti, che ci fanno vivere la stessa frustrazione, lo stesso senso di ingiustizia universale, che provano le vittime in quell’aula. La Bigelow lavora come pochi altri sull’identificazione, utilizza sapientemente gli strumenti del cinema per fare un discorso sulla necessità, oggi, di urlare a squarciagola il proprio dissenso. E poi, un attimo dopo, ci spezza il cuore con la voce di quel cantante che intona canzoni in chiesa, con gli occhi ancora lucidi e l’idea di essere già morto quella notte a Detroit.

Il cinema, oggi, deve interrogarsi su quello che resta. O meglio, per utilizzare la formula tanto cara a Giorgio Agamben, il cinema è il tempo che resta. Deve essere la voce dei sopravvissuti, degli sconfitti, dei dimenticati. Ombre, testimoni dolenti di una Storia che si ripete.

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