lunedì 9 dicembre 2019

Il paradiso probabilmente - Elia Suleiman

Elia Suleiman fa sempre lo stesso film, dice qualcuno per criticarlo, ma è una follia, come se qualcuno dicesse che Jacques Tati, o Stanlio e Ollio, hanno sempre fatto lo stesso film.
ES fa un viaggio, a Parigi e New York, per motivi legati alla produzione di un film, ES non parla, guarda e ci fa vedere cosa vede lui (il film è dedicato, tra l'altro, a John Berger, autore di Modi di vedere, ancora l'importanza del vedere, che scrisse in quel libro anche della Palestina). 
e quello che vede non è un bel mondo, sicurezza, militari e burocrazia comandano, tutto pulitino, a modino, noioso, neanche un vicino che ti innaffia l'albero di limone (riempendosi qualche busta, en passant), e anche gli ulivi hanno un ruolo importante.
la Palestina ci sarà, o tutto sta diventando Palestina?
non c'è bisogno di parole, le immagini parlano da sole, così è il cinema.
meno di 20 sale ospitano questo film, non privatevene - Ismaele





Tutto il pianeta è paese, o meglio Palestina, sembra dirci Suleiman. Lasciandoci in preda al sentimento di essere stranieri o estranei a noi stessi come il personaggio del film, pur avendo una patria, contrariamente a lui. Dedicato alla Palestina, ai suoi familiari e al critico John Berger, questo film dall’umorismo delicato e caustico insieme, ha certamente un fondo molto amaro per chi è fuggito all’estero da “Nazareth perché era un ghetto” senza però riuscire a trovare un’altra grande città a sostituire la sua (non) patria.
Ma com’è riuscito il regista a far sì che questa sensazione di spaesamento esistenziale espressa nel film equivalesse anche alla nostra? L’uso del suono è fondamentale…

«Stavo solo cercando di dire che il conflitto ha esteso i suoi tentacoli a qualsiasi altra parte del mondo e che c’è una “palestinizzazione” globale dello stato delle cose. È in pratica ciò che questo film cerca di indicare, in realtà. Voglio dire, lo stato di eccezione, lo stato di polizia e la violenza sono ora come un terreno comune ovunque andiamo. La tensione e l’ansia sono praticamente ovunque, e non è più solo un conflitto locale». Così Elia Suleiman, in una recentissima intervista a Cannes (qui la versione completa in italiano), continua a interrogarsi sull’estraneità di un’identità da portare magari, come in questo caso, in giro per il mondo…
…Tra Jerry Lewis e Monsieur Hulot, o forse tra Beckett e Keaton, Elia Suleiman – o forse la sua maschera, con gli occhiali che spuntano sotto l’inconfondibile panama – riscrive il paesaggio che abita, mentre il suo sguardo crea un’altra realtà constatando che quella “palestinizzazione” – o forse mediorientalizzazione, verrebbe da dire – ha coinvolto ogni frammento della quotidianità occidentale. Lo fa con leggerezza (mai superficiale) attraverso incastri di questa società regolata solo dall’apparenza nelle sue direttive dell’assurdo. E poi c’è l’anima di quello sguardo che reinventa il mondo. Dalla straordinaria ed esemplificativa scena di apertura in cui il Re (un prete ortodosso, ovvero il potere tutto) viene messo a nudo, alla sedia a rotelle rimasta malinconicamente vuota tra le ombre di casa (la stessa che dieci anni prima ospitava la madre, che lui stesso accudiva al suo ritorno). Un’anima nella flagranza della sua libertà, che scruta il grottesco della strutture del mondo, nella paralisi della logica, nell’ossessività del controllo, e le mette in crisi costantemente coi suoi passi; l’essenza di questa realtà frontale, mediata e riscritta ellitticamente con continue reiterazioni, sta nel mezzo tra lo sguardo in macchina e il fuori-campo, in quell’infinito spazio di memoria tra il tragico e il ridicolo che il mondo pare essersi scordato. Perché solo i palestinesi bevono per ricordare, tutti gli altri per dimenticare. Tutto scorre, prima di ritrovarsi davanti a quell’albero di limoni nel sole del giorno, davanti a un palazzo solitario nella notte silenziosa. Fino a una sagoma, un altro albero di limoni, controluce e quasi stilizzato in un sentiero di campagna. Schermo nero, «alla Palestina». It Must Be Heaven è un piccolo/grande film, al di là delle trovate di straordinaria limpidezza comica, delle derive verso l’assurdo, della decomposizione di uno sguardo attraverso tempi e spazi costantemente modulati. Lo è perché ci interroga attraverso il suo volto astratto e imperturbabile, ci invita a pensare a quale possa essere la nostra identità e a come oggi possiamo pensare al concetto di radici. Ci chiede di guardare nei suoi occhi, a quello che loro hanno visto, a quello che noi potremmo vedere. Sempre ammesso che sia possibile riuscire a tenerli del tutto asciutti.

It Must Be Heaven è il richiamo pieno di ironia a un paradiso che è diventato quantomeno un purgatorio, a un mondo che vive in una situazione geopolitica quotidiana che sembra proprio quella della Palestina. Non cambia molto a New York, dove il tassista non ha mai visto un vero palestinese, ma la vita quotidiana non prevede meno armi da fuoco, anzi, per non parlare dell’alienazione dovuta alle immagini pubblicitarie che promettono un paradiso sempre lontano e inafferrabile.
I checkpoint sono diffusi ormai ovunque, in aeroporto come all’ingresso di un centro commerciale, i militari in divisa si vedono passare per strada e le sirene e gli allarmi sono presenze così comuni che non ci facciamo proprio caso. Palestina, mondo, insomma. Allora come e dove può trovarsi a casa sua il povero spaesato Elia regista in cerca di asilo?
It Must Be Heaven è cinema puro, sequela di visioni poetiche piene di originalità che spiazzano, divertono e scatenano una risata che presto in gola si contorce in amara visione, non poi così astratta, della realtà che viviamo in questi anni. Suleiman riesce a applicare con la solita efficacia il suo stile anche abbandonando casa, o meglio è casa che ormai è indistinguibile da quanto accade nelle città di tutto l’occidente.
"Come nei miei precedenti film ci sono pochi dialoghi; quello che viene detto assomiglia a monologhi per infondere ritmo e musicalità.". Purtroppo nel momento in cui, in un lungometraggio, il regista di Nazareth esce dalla sua terra il pregio dell'astrazione che contraddistingueva un film come Il tempo che ci rimane si trasforma in un boomerang.
Perché il modello per eccellenza di Suleyman, il grande Buster Keaton, finisce con l'ibridarsi con un Jacques Tati immobile e del tutto straniato in un improbabile Play Time del nuovo millennio.
Suleyman vorrebbe farci riflettere su un mondo ormai divenuto surreale anche nella sua quotidianità e per farlo inanella una serie di sketch che vorrebbe far ridere o almeno sorridere e ci riescono purtroppo molto raramente (in uno di essi il successo è attribuibile in gran parte a uno speciale passerotto)…

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