lunedì 10 febbraio 2020

Lo specchio nero. A caccia di neofascisti sugli schermi d’Italia

Lo specchio nero. A caccia di neofascisti sugli schermi d’Italia

(intervista di WuMing2 a Dikotomiko, qui il loro sito))


[WM2: Poco prima dell’estate, la casa editrice Dots ha pubblicato Lo specchio nero, un saggio del collettivo Dikotomiko* dedicato alla presenza/assenza dei neofascisti sugli schermi italiani e planetari. L’analisi dei due autori ha svariati punti in comune con articoli e riflessioni che abbiamo pubblicato su Giap, a proposito delle amnesie del cinema nostrano, della riluttanza a pronunciare «la parola con la F», dei format giornalistici e televisivi utilizzati per raccontare (e ignorare) la violenza fascista. Letto e apprezzato il libro, abbiamo contattato Massimiliano Martiradonna e Mirco Moretti per sviscerare con loro le questioni che più ci stavano a cuore. Ecco la chiacchierata telematica che ne è venuta fuori.]
Il vostro libro è un viaggio molto approfondito nella rappresentazione in video di neofascisti e neonazisti. Prima di discutere i risultati  della vostra ricerca, vorrei porre una domanda di metodo. Anzi due, che però riguardano la stessa questione, quella di come avete circoscritto il terreno da esplorare. E quindi: che periodo avete considerato? E perché, invece di limitarvi al cinema, avete deciso di spaziare dai videoclip musicali ai documentari, dalle serie TV ai lungometraggi?
Nell’accelerazione compulsiva impressa dalle nuove tecnologie, il cinema ha dovuto adeguarsi a nuove forme di fruizione. Altro che falso movimento, tutto il cinema di oggi è una corsa verso nuovi linguaggi, nuovi formati. Non ha più senso parlare, solo, di film in quanto lungometraggi: se si parla di rappresentazione, occorre parlare, anche, di documentari, videoclip musicali, video disponibili per lo streaming su piattaforme planetarie. Un insieme non omogeneo di schegge impazzite. Una cluster bomb.
Per ovvie ragioni di analisi e di sintesi, abbiamo dovuto circoscrivere il nostro periodo di interesse, individuando una fondamentale discontinuità storica, il nostro “da quel momento nulla è stato più come prima”. Parliamo dell’anno 2001, che ha deviato in modo traumatico e definitivo una traiettoria di futuro possibile – e plausibile.
Con amarezza, nelle presentazioni pubbliche del nostro saggio, ci siamo accorti che il 2001 è percepito dai più giovani in modo vago, un anno come i tanti di un presente liquido, male o non ancora storicizzato. Invece è tra le rovine del 2001 che nasce il verme di ogni sovranismo.
All’alba del nuovo millennio, il mondo pare pervaso di autentico fervore sociale, solidale, internazionale. Si protesta, si balla, si sfila. Genie di giovani non allineati, ribelli con una causa. I nemici del movimento “no global” sono i grandi della terra, quelli con la G maiuscola: i governi dei Paesi occidentali, le principali economie mondiali, che allora come oggi si riuniscono in assetto variabile: a sette, a otto, a enne. Quel che accadde nei giorni del G8 di Genova, a luglio 2001, è presente nel nostro saggio, direttamente con Diaz – Don’t Clean Up This Blood, di D. Vicari, e di rimando con ACAB, di S.Sollima.
Due mesi dopo Genova, ecco un altro colpo di Storia, il colpo di grazia: l’attentato alle Torri Gemelle. Un avvenimento che da allora non vuole smettere di finire, ripreso e scansionato e reso virale e tramandato in pixel nei secoli dei secoli. Altro che il tramonto della Camelot dei Kennedy, altro che il filmato Zapruder sull’attentato di Dallas a JFK.
Il nuovo ordine mondiale come ordine del terrore. Terrore è diverso da orrore, terrore è il tremore, orrore sono i peli che si arricciano. Il tremore è timore ancestrale, si cerca conforto dove non ce n’è, si ripone la speranza nella religione. Nell’ordine del terrore, vediamo infatti tornare la guerra di religione. Rozza, brutale, ubiqua, visibile e visionabile on demand.
Vecchi fanatismi, nuovi linguaggi, nuove platee da sedurre, e nuovi strumenti per diffondere menzogne, perché il nuovo millennio è l’era dei social network, dei passaparola contagiosi e incontrollabili. Occorre essere seducenti, arrivare anche all’ultimo degli analfabeti funzionali, indurlo, con le cattive o con le false notizie a sentirsi in pericolo. Si trasformano i frustrati e gli emarginati in tanti potenziali kamikaze, da tastiera e non solo.
Un’altra scelta di metodo è quella di mettere a confronto l’Italia con il resto del mondo. A livello planetario, il vostro scandaglio rileva l’emergere di un genere piuttosto definito, che chiamate neonazi drama. Di che si tratta?
La produzione mondiale di rappresentazioni a tema è copiosa. A cominciare dai fondamentali Chez Nous (A Casa Nostra) e Un Français (French Blood) dei cugini d’Oltralpe, per proseguire con il serbo Skinning, con i tedeschi L’Onda e Kriegerin (Combat Girls).Queste opere sembrano seguire un canone, apparentemente semplicistico, ma basato sull’osservazione e sull’analisi della realtà: la caratterizzazione del neonazista, il suo aspetto fisico, i suoi rapporti con la famiglia o col quartiere dove abita sono spesso gli stessi. Il neonazi è un giovane arrabbiato, frustrato, si sente incompreso. Trova complicità e accettazione nel branco di skinhead, o nella sezione di movimenti e partiti di estrema destra che frequenta. Odia e aggredisce gli immigrati, fa sua la difesa dell’identità nazionale. Vede la polizia come un nemico, anche se – con le dovute differenze tra Stato e Stato – spesso la polizia è corrotta e cerca di utilizzare gli estremisti di destra per il proprio tornaconto. La fasci-nazione per l’estrema destra, inoltre, non è esclusiva di classe o sesso: chiunque è vulnerabile, dal genio della matematica alla figlia di ricchi borghesi. Le parabole del male raccontate ad ogni latitudine sottolineano anche la facilità con la quale si può passare dalla partecipazione a un corteo di benpensanti, benvestiti, cattolici, nazionalisti alla militanza estremista e violenta. Le sirene della propaganda sono sempre in agguato, insomma, e suonano sempre le stesse note.
Ancora, un altro topos ricorrente è il rapporto tra il cattivo maestro (uomo di mezza età, cultura medio-alta, oratore carismatico, look borghese più o meno raffinato ma sempre distinto dalla truppa) e il giovane discepolo, un luogo comune potentissimo e immortale, che al cinema funziona sempre: è sicuramente una degenerazione del legame padre/figlio, anche se alla base c’è sempre la stessa volontà, ovvero lo sfruttamento della manovalanza da parte del dirigente di partito senza scrupoli, che appare in tv al mattino per uno spot elettorale dai toni rassicuranti e patriottici (i cui contenuti sono anch’essi sempre uguali) e a tarda sera interviene in una riunione clandestina, aizzando la gang di naziskin e incitandoli a “ripulire le strade”. Il passo successivo può essere l’utilizzo della stessa gang nel servizio d’ordine durante comizi e manifestazioni, ma questo è un percorso segnato, che sbocca sempre nell’allontanamento o nell’espulsione dal partito, accompagnato da commenti classisti molto interessanti e rivelatori. Sono teppisti. Non possono essere educati. Con questi ci vuole il guinzaglio. Il muro di classe è invalicabile, insomma, come si vede chiaramente in una scena del film Un Français: il giovane, proletario, protagonista neonazi, entra nella casa di un ricco sostenitore del Front National, piena di fascisti d’alto bordo, con i quali non ha proprio niente in comune. Dovrebbe essere lotta di classe, diventa invece un improbabile gemellaggio. Che come abbiamo detto non dura, non può durare. Un Français è anche il primo film francese a entrare nella galassia neonazista; è uscito nel 2015, scatenando fin dal trailer una campagna d’odio su internet che portò anche a minacce per i gestori delle sale cinematografiche. Era prevedibile, perché mette in scena in maniera chiarissima l’impatto del Front National sulle classi popolari, partendo dai primi anni Ottanta fino all’anno d’uscita del film, quando è ormai diventato il terzo partito francese.
C’è un altro punto fondamentale, in questo codice immaginario e condiviso: l’estremista di destra violento, esaltato, criminale, con la testa rasata e la svastica (o le parole White Power) tatuata sul corpo, viene etichettato indifferentemente come nazista o fascista. Fascista o nazista. Come del resto succede negli articoli di giornali o libri pubblicati fuori dal territorio italiano. Evidentemente la favola mistificatoria, tutta italiana, sulle presunte differenze tra le due “ideologie” (che nelle sue infinite varianti prosegue dal secondo dopoguerra), su un fascismo buono che viene corrotto da un nazismo cattivo, non convince autori e platee internazionali.

In Italia, invece, vi imbattete in una voragine nell’immaginario visivo, in qualche modo parallela alla reticenza dei media nel pronunciare o scrivere «la parola con la F». In maniera piuttosto netta scrivete che «ad oggi non esiste, in Italia, un film di fiction che abbia per protagonista un giovane neofascista. O anche uno vecchio». Al punto che gli stessi neofascisti, in cerca di autorappresentazione, si rivolgerebbero a un cinema di tutt’altro genere. Questo almeno per quanto riguarda il cinema, e si tratta già di un’assenza pesantissima. Ma visto che la vostra scorribanda riguarda anche i documentari, come siamo messi in quel campo? Penso a lavori come  Nazirock, di Claudio Lazzaro, o allo speciale della trasmissione Primo Piano, intitolato Nero è bello, a cura di Giampiero Mughini (!), mandato in onda nel dicembre 1980, quattro mesi dopo la strage del 2 agosto alla stazione di Bologna. 
Il caso di Nazirock è esemplare, ci ricorda il famoso giornalismo embedded, quello dei reporter in prima linea. Claudio Lazzaro viaggia nella galassia umana orbitante intorno a Forza Nuova. L’occasione è l’adunata del centrodestra del 2006, due milioni di persone convenute a Roma a tributare l’ennesimo saluto a Berlusconi, nell’ansia veemente della defenestrazione di Prodi. E tra loro, non pochi per «saluto» intendevano quello romano.  Nazirock coglie il momento di trasformazione, la transizione del pensiero e del linguaggio neofascista. Il documentario è del 2008: focalizzandoci sugli slogan utilizzati dai camerati musicanti, notiamo un florilegio di «Prima gli Italiani», «L’Italia agli Italiani», «Dio patria e famiglia». Non più, o non solo, i «Credere, obbedire, combattere», o i «Vincere, e vinceremo!». Una sloganistica chiaramente orientata a interpretare – manipolare – quel presente, scegliendo la leva su cui impostare il proselitismo del futuro.
Guardare Nazirock significa, a tutti gli effetti, guardare la nascita della Lega 4.0, quella che ha riproposto gli slogan di cui sopra, sdoganandoli presso l’opinione pubblica. Si potrebbe a proposito guardare Camicie Verdi – Bruciare il Tricolore, il documentario girato dallo stesso Lazzaro prima di Nazirock, che rappresentava la Lega secessionista nella campagna per il referendum sul federalismo amministrativo (la cosiddetta “Devolution”), del 2006. In quei tempi, i leghisti volevano marciare su Roma per marciare contro Roma, volevano, appunto, bruciare il tricolore o gettarlo nel cesso. Per i leghisti del 2006, Mussolini era stato «un grande statista padano»: queste le parole dell’onorevole Borghezio, il Caronte scelto da Lazzaro per guadare il fiume leghista. Borghezio, uno che si dichiara contiguo – “nel senso che mi stavano simpatici” – ai neofascisti di Ordine Nuovo, frequentatore dei comizi di Roberto Fiore di Forza Nuova, nel documentario dimostra di essere in piena transizione linguistica e politica, passando, senza soluzione di continuità, dal tradizionale odio verso i meridionali al furore razzista verso gli immigrati e verso l’Islam tutto.
Facciamo adesso un salto lungo dieci anni. E’ il 18 novembre 2018, Sky Atlantic manda in onda una puntata della serie «Il racconto del reale». La puntata si intitola: Crescere neofascisti – Viaggio all’interno dell’universo Lealtà Azione. Le telecamere, dirette dal regista Andrea Bettinetti, entrano per quattro mesi nella vita quotidiana di Lealtà Azione, sede di via Pareto, a Milano. Lealtà Azione è un’organizzazione della galassia neofascista italiana, nata proprio a Milano, nel 2010, con una mission tanto ambiziosa quanto pericolosa, quella di (de)formare le nuove generazioni.
Le immagini della sede di via Pareto – nude e crude, secondo la velleità di Sky –, mostrano busti e bustini del duce, aneddoti e massime vergate un po’ ovunque, profluvi di icone da repertorio dell’estrema destra mondiale, con prevalenza dei simboli naziskin, in ossequio alla provenienza dei fondatori del gruppo. Per circa 50 minuti le telecamere mostrano l’organizzazione e la vita di militanza al suo interno, dalle collette alimentari alle commemorazioni di vittime degli Anni di piombo, dal proselitismo alla pulizia del cimitero dei repubblichini. Il simbolo di Lealtà Azione è un lupo che ulula, e i suoi militanti sembrano, a prima vista, non aggressivi come lupi, ma altrettanto astuti e famelici. Intervistati, ripetono il mantra del mondo allo sfascio, del degrado dei valori e dei costumi, degli Italiani discriminati sul loro stesso suolo patrio. Intervistati più a fondo, si dichiarano sovranisti, perché il fascismo è roba antica, da ripetere nelle cose buone che ha fatto ma non negli errori. Ascoltati ai comizi, si dichiarano razzisti, antiabortisti, omofobi.
Ascoltati in adunanza e ai pubblici concerti, urlano che vedono «solo una bandiera nera, sventolare sull’Italia intera». La minaccia, il terrore sapientemente illustrato da Bettinetti non sta tanto nei contenuti, quanto nella logica: Lealtà Azione è una realtà che appare operativa, articolata, efficientissima. Ha pochezza d’argomenti ma chiarezza di intenti, spande fumo sulla propria natura vendendo il fumo della demagogia, delle nuove paure, cavalcando un disagio che tuttavia sembra rabbia e invidia sociale, più che indigenza. Quando i militanti di Lealtà Azione, divisione CooperAzione, consegnano i pacchi della raccolta alimentare, entrano in case ben arredate, comunque più che decorose, in stabili popolari ma non cadenti. Inquietante, allora, è anche la rappresentazione di un nascente legame tra una piccola borghesia arraffona, spiazzata dalla crisi economica, e una piccola orda di gente disposta a strumentalizzarne la cupidigia per fare politica, o «meta politica», come dice uno dei capataz leali e attivi.
A seguito della prima messa in onda sono esplose le polemiche. Parte della stampa ha accusato Bettinetti e Sky di essersi resi complici della divulgazione, di aver fatto propaganda. Polemiche che hanno avuto come ovvio effetto la rimozione. Dopo sette giorni dalla prima messa in onda, il documentario è sparito dai palinsesti Sky, neppure le repliche già programmate sono andate in onda. Sky non ha risposto alle nostre richieste di visionare il documentario per inserirne un’analisi ne Lo Specchio Nero. Una reticenza simile l’ha dimostrata Bettinetti, il quale ci ha detto di non essere idoneo a rilasciare interviste, in quanto non titolare dei diritti di fruizione dell’opera. Nessuna traccia del titolo nell’elenco di produzioni della Good Day Films, di Michele Bongiorno, su Vimeo. Crescere Neofascisti è stato così relegato nell’ombra, sul portale di Sky è un link che rimanda a una pagina di errore.
Il fatto preoccupante è che la stessa Lealtà Azione si fregi del documentario, con un link sul proprio sito ufficiale. Il link rimanda a un video su Youtube, dove, con sorpresa grandissima, si può guardare il prodotto Sky sic et simpliciter, per intero! A parte questo, Lealtà e Azione evidentemente lo propone perché in esso si rispecchia, si mira e si rimira, agevolata dalla mancanza di contraddittorio. La rappresentazione infatti lambisce, pur non volendo, il terreno della propaganda: mettere in primo piano, senza filtro, protagonisti giovanissimi, può indurre gli spettatori a sviluppare empatia e immedesimazione. Occorre, insomma, un sufficiente grado di consapevolezza per giudicare le immagini in modo corretto, e non è detto che il target cui si rivolge Sky Atlantic lo possegga.
Al di là di queste perplessità, Crescere Neofascisti ha comunque il merito di aver illuminato, pur se in maniera maldestra, un’altra zona d’ombra, quella dell’associazionismo neofascista al di fuori della comfort zone di Roma Capitale e delle sue Casa Pound.
Se lo sguardo dei cineasti italiani sui neofascisti è quantomeno riluttante, trovo molto interessante la vostra lettura del film “Piazza Vittorio”, dove lo statunitense Abel Ferrara mette davanti alla macchina da presa i fascisti di Casapound. L’occhio di un regista straniero riesce a cogliere dettagli “mai visti”?
Piazza Vittorio è uno strambo oggetto visuale non identificato, che parla di periferie nel pieno centro di una capitale, di multiculturalità ineluttabile e necessaria. Abel Ferrara, che è un migrante e un regista, non certo un giornalista, non deve spiegare o giustificare alcunché, non deve seguire regole dettate dagli altri. E così fa la cosa giusta, schiacciando la famigerata intervista tra i festeggiamenti con i quali gli ecuadoriani omaggiano il sole, e i canti senza tempo dei griots, i cantastorie africani. Scelte di montaggio che sono sufficienti a ridimensionare tutto il movimento di Casapound e la sua presunta modernità: Piazza Vittorio è il futuro, inevitabile e stimolante, una sfida continua ed eccitante; Casapound è il passato, tetro e fuori tempo massimo, che non ha spazio nell’avvenire.
Sono piovute addosso a Ferrara una marea di critiche e accuse e polemiche: hai fatto uno spot elettorale per i fascisti, con la tua ignoranza e incompetenza nel trattare la materia hai dipinto la sede di Casapound come unico presidio culturale del quartiere Esquilino. Nessuna obiezione, nessun contraddittorio. Al contrario, i dieci minuti “inside Casapound” sono illuminanti e rivelatori, e crediamo valga la pena riportarne un paio di estratti:
«In Italia non ci sono lavori che gli italiani non vogliono fare. Ci sono salari e tipologie di contratto che gli italiani non possono più accettare. Cioè, noi abbiamo fatto delle rivoluzioni qui per avere un certo salario minimo, per avere le vacanze, la maternità, la malattia, la pensione, per avere tutta una serie di benefit per i quali i nostri padri hanno lottato. Mentre invece questa manodopera a basso costo che l’Europa sta importando è una manodopera che abbassa le condizioni minime, sociali, sindacali e di stipendio poi di tutti i lavoratori. Come è stato teorizzato anche da Marx, tra l’altro.»
E ancora:
«Ci troviamo di fronte ad un fenomeno globale di flussi migratori, che noi chiamiamo grande sostituzione. E’ il nuovo capitalismo: si continua a colonizzare, anche se non con gli eserciti. […] In realtà, il popolo italiano e quelli europei hanno lo stesso nemico dei popoli africani e asiatici. Gli stessi che tengono sotto scacco i popoli italiani ed europei sono quelli che non permettono lo sviluppo in Africa. Quindi riappropriarsi della sovranità per noi europei e per gli africani in Africa garantirebbe uno sviluppo diverso. […] Se non c’è un cambiamento radicale, questo processo si accentuerà sempre di più. Le statistiche dicono che verremo completamente sostituiti nel giro di cinquant’anni: il popolo italiano non esisterà più.»
Come avete scritto più volte qui su Giap, la retorica e lo stile comunicativo delle neodestre si sono evoluti, si appropriano – almeno a parole – delle battaglie che sono alla base dello Statuto dei lavoratori. La ricerca del consenso popolare è l’unico obiettivo; e allora va bene citare Marx, Che Guevara, l’antimperialismo. Le case occupate, i manifesti nei quali Equitalia è rappresentata come un vampiro, il sostegno materiale alle famiglie in difficoltà – purché italianissime. Pescano dal menu del fascismo storico con attenta strategia, camuffando violenza e razzismo.
E quindi sì, ci voleva un regista statunitense e migrante per rappresentare l’identità più reale e profonda di Casapound. Forse è arrivato il momento di smettere di preoccuparci dell’impatto che possono avere determinate immagini o parole sulla “gente”: l’antifascismo è una cosa, il catechismo è un’altra.
Per un regista straniero che guarda ai neofascismi di casa nostra, c’è un cantante di casa nostra che inquadra – forse senza vederlo – il nostro fascismo a casa degli altri. Mi riferisco al videoclip della canzone Chiaro di Luna di Jovanotti, girato per le vie di Asmara. Voi lo definite un esempio di «neofascismo neomelodico». Il testo parla d’amore, senza riferimenti al luogo, ovvero la capitale della prima colonia italiana in Africa. In che senso anche questo lavoro ha a che fare con l’assenza di neofascisti sugli schermi italiani?
Abbiamo dibattuto a lungo se includere Chiaro di Luna nel nostro saggio, e alla fine ne abbiamo fatto una menzione piuttosto fugace. E’ successo poi che parlandone, nel corso di numerosi incontri con i lettori, guardandolo e riguardandolo, abbiamo capito che faceva al caso nostro, eccome!
E’ forse l’avanguardia delle rappresentazioni post-neofasciste, un’inaspettata piega del pensiero nazional popolare, che si rifugia – a sua insaputa? – in simboli e vestigia di un passato inglorioso.
Il videoclip: Jovanotti, improvvisato chansonnier bianco, canta e suona e dà a ballare ad una coppia di giovani belli, neri di pelle. Sono nel foyer di un cinema-teatro, Roma si chiama, Roma è scritto cubitale, in font littorio, sul frontone. Il luogo è l’Asmara di oggi, brulicante di vita, frenetica eppure placida. Nel fluire delle immagini, spicca la carrellata riservata ai luoghi più suggestivi. Fiat Tagliero, la stazione di benzina costruita nel 1938. Una sala da barba, risalente allo stesso periodo coloniale, come da insegna. E il cinema Roma, appunto. Guardiamo Asmara e sembra Roma, la Roma del Ventennio. Per contrasto, Chiaro di Luna è una canzone d’amore senza riferimenti al luogo, all’ideologia, all’architettura che è intrinsecamente politica, e che nella fattispecie è memento di schiavitù e morte. Jovanotti non fa accenni all’Eritrea reale. In Eritrea vige la dittatura di Afewerki, dal 1993. Nessun riferimento.

Il piano regolatore del 1908 divideva Asmara in 4 zone separate: europea, indigena, mista e industriale.
Nelle interviste rilasciate per il lancio del videoclip, Jovanotti ha enfatizzato la collaborazione con Yonas Tesfamichael, videomaker eritreo con un passato professionale a Milano, poi tornato in patria: “I ragazzi non scappano se trovano opportunità e maggiori spazi di lavoro, sono orgogliosi di starci o di tornarci. Proprio come Yonas, un giovane eritreo esperto di video che ci ha fatto il backstage e che ha deciso di recente di tornare dall’Italia ad Asmara con sua moglie e sua figlia”(virgolettato di Jovanotti pubblicato su diversi siti di musica e informazione nel novembre 2018).
Lo abbiamo cercato sui social: Yonas ha una produzione copiosa di post in cui parla dell’Eritrea come una sorta di best place to live in, gente che sorride, paesaggi, rinascita e varia amenità. Abbiamo provato a chiedergli, attraverso commenti ad alcuni post su Facebook, cosa ne pensa dell’assenza di democrazia, ma non ci ha risposto, o meglio, ci ha risposto insinuando che i rapporti di Amnesty International, sulla violazione dei diritti umani in Eritrea, siano, né più né meno, fake news. Al suo profilo personale era poi collegata una pagina, dal nome Yonas, in cui si insinuava che l’emigrazione di massa degli Africani in Italia avvenisse per colpa di Saviano e delle sinistre, ree di costruire un’immagine ingannevole dell’Occidente, a scapito del faticoso lavoro di ricostruzione posto in essere dai governi locali. Arrivava, Yonas, a definire “trafficanti” quelli delle ONG, e poi, spingendosi oltre l’estremo, attaccava John Lennon e la sua Imagine. “Chi sogna un mondo senza confini è sostanzialmente un colonialista in borghese, a volte consapevole, a volte inconsapevole!”.
Siamo palesemente davanti ad un linguaggio sovranista, nella fattispecie sovranista eritreo. E’ evidente il tentativo di propinare all’Occidente, all’Italia, l’immagine di un’Eritrea di cartapesta, dove i nostri sovranisti d’antan, i fascisti, hanno fatto anche cose buone, buone ancora oggi. Incalzato sul tema dai membri di Eritrea democratica, dissidenti del regime di Afewerki, Jovanotti non ha preso una posizione ufficiale. Risultano solo alcuni suoi virgolettati, riportati dal sito tpi.it, in risposta alle accuse che gli ha mosso Domenico Quirico su La Stampa. «Le ragioni che mi hanno spinto a girare in Eritrea sono di natura artistica, ma tengono conto anche del contesto sociale: non ci sono andato con leggerezza o peggio ancora con intenzioni negazioniste», si legge tra le altre cose. In occasione del lancio del videoclip, Jovanotti dichiarava, ripreso da numerosi media e siti web di voler ambientare ad Asmara «un racconto visivo in un luogo che evocasse suggestioni precise adatte alla mia canzone». Su Jova.tv, leggiamo ulteriormente la sua dichiarazione di intenti: «Asmara è un assurdo, stranissimo, bellissimo posto, che da noi è come un rimosso collettivo ma mi ha toccato il cuore. Come fece con mio nonno, che si chiamava come me, in un altro tempo, con altri desideri, in un mondo così diverso ma dal futuro altrettanto imprevedibile».
Nulla si crea, nulla si capisce, tutto si trasforma. Il fascismo e il colonialismo diventano parti integranti, accettate, benefiche di un presente che viene descritto come suggestivo, foriero di rosei futuri, anche grazie a nonni e bisnonni che volevano solo lavorare e vivere in pace, e pazienza se portavano pogrom e schiavitù e madamato. Revisionismo 4.0.
Se volessimo riassumere i vostri ritrovamenti in un concetto soltanto, potremmo dire che l’Italia sconta una mancata rappresentazione del neofascismo che invece non si ritrova negli altri paesi dove movimenti neofascisti e neonazisti sono presenti nella società. Più in generale, però, il cinema italiano è tutto sforacchiato da buchi simili, ogni volta che si toccano questioni del passato. Film sulla Resistenza? Mica tanti. Sul colonialismo? Pochini. Sul fascismo? Una manciata. D’accordo che il vostro soggetto d’indagine – il neofascismo – non appartiene per nulla al passato, anche se gli si lega fin dal nome. Tuttavia, non credete che l’assenza da voi rilevata sia parte di questo più generale silenzio su alcuni momenti controversi della storia patria? O invece avete scovato qualcosa di più peculiare, che la contraddistingue?
Certo, la censura e l’autocensura (ancora più odiosa) dei cineasti italiani sui conflitti interni – o sulle combustioni interne – non è solo scandalosa. E’ anche vecchia, datata, più antica dei primi tagli imposti per legge sulle pellicole (1913). Se i film sulla Resistenza sono pochi, ancora meno sono le opere come Achtung, Banditi!, nel quale è visibile, caso raro, l’unità tra i partigiani combattenti e gli operai delle fabbriche. Aggiungiamoci anche la stagione della lotta armata: i film che trattano l’argomento si dividono in due, o sono deprimenti e cimiteriali a prescindere, o raccontano storie parallele (lo splendido Arrivederci, Amore Ciao su tutti) e contigue, senza affondare il colpo. Sarebbe impensabile, da noi, un film come La Banda Baader Meinhof (basta pensare alle polemiche su La Prima Linea, cominciate prima ancora che Renato De Maria iniziasse le riprese). Perché?
Per la censura produttiva, sicuramente. Per le scorie del devastante ventennio berlusconiano, anche. Per le mosse allucinanti del PD, delle quali avete ampiamente parlato su Giap. Ma anche prima, prima addirittura del famigerato discorso di Violante del 1996, i film calati nelle pagine controverse della storia d’Italia sono stati pochissimi. Tornando agli ultimi vent’anni, la lacuna diventa ancora più evidente se consideriamo l’attenzione che è stata invece riservata alla periferia urbana, naturalmente culla dei neofascismi, ma che sullo schermo è stata rappresentata in chiave puramente criminale (con risultati splendidi e di genere) o attraverso storie di (de)formazione, di famiglie disfunzionali, di adolescenti disadattati. I fascisti non esistono. Sembra una fatwah autoimposta, e parecchio inquietante. Una limitazione al proprio e all’altrui sguardo.
Alcuni, quelli che hanno provato a buttare il neofascismo in farsa (Luca Miniero, Sono Tornato, 2018), o in commedia (Paolo Virzì, Caterina Va in Città, 2003), sono stati attaccati da una pletora di farisei, dileggiati nel metodo e nel merito. Altri, come pionieri, come cani sciolti, hanno provato a dare testimonianza in altre forme: Daniele Gaglianone (I nostri anni, 2000 ma anche Dove bisogna stare, 2019), Luca Guadagnino (Inconscio Italiano, 2011), Luna Gualano (Go Home, 2018). Guadagnino in particolare, come altri storici e documentaristi, ha cercato di far luce sulla radice del razzismo italiano: la colpa ereditaria incancellabile del colonialismo, e in particolare di quello fascista. Il colonialismo resta, ancora oggi, uno dei lati meno indagati del fascismo, i documenti sono pochi e mostrati con reticenza. È nelle piaghe suppuranti del colonialismo che si origina l’odio attuale, il razzismo trasversale verso gli immigrati. Spicca quindi ancora di più Go Home, di Luna Gualano: un oggetto filmico nato dal basso, nel quale ci sono i neofascisti protagonisti, e come se non bastasse ci sono gli zombi! Zombi latitanti nel cinema italiano da trent’anni. Il genere horror utilizzato in chiave politica, netta, dicotomica. Con tutti i suoi limiti, Go Home è un film pieno di senso, antifascista, di genere. Come piace a noi. Ma si tratta, purtroppo, di una splendida eccezione.

Dikotomiko è un micro-collettivo composto da Massimiliano Martiradonna e Mirco Moretti, ultraquarantenni, non più giovani, anzi, reduci. Dikotomiko, uno e bino, nasce come blog antagonista web e social, tra i vibrioni e la polvere di uno scaffale, nello spazio angusto e umido di un’edicola di giornali, prossima allo sbaracco. Mirco Moretti, l’edicolante, e Massimiliano Martiradonna, il cliente. In comune una certa idea di cinema, fiumi di parole e fiumi di visioni.

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