sabato 22 febbraio 2020

Gli anni più belli - Gabriele Muccino

una storia del tipo "come eravamo e come siamo diventati".
tre amici (Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, i migliori attori italiani) crescono insieme e non si perdono mai di vista.
addirittura due stanno con la stessa ragazza (Micaela Ramazzotti), quasi sempre in tempi diversi.
c'è chi ha fatto carriera, chi arriva al posto fisso, chi, ancora, fatica ad avere un reddito decente, quasi tre storie emblematiche di tre categorie sociali.
non sarà un capolavoro, ma si vede bene, Muccino sa bene come si fa questo tipo di film, e gli attori sono un valore aggiunto - Ismaele






dopo l'entrata in scena di Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria, il film comincia a prendere quota e a trovare un'identità che si smarca gradualmente dai cliché, rivelando un'onestà artistica credibile. Il merito è certamente degli attori, che trovano la loro misura anche all'interno dello stile dominante, ma anche di una regia che riesce a contenere i propri "difetti fatali", anche facendo leva su professionalità ben definite come Eloi Mori alla fotografia, Patrizia Chericoni ai costumi o Tonino Zera alle scenografie. Particolarmente notevole è il lavoro di montaggio di Claudio Di Mauro, specialmente nella scena del ristorante vicina alla conclusione, che destruttura magnificamente il meccanismo del campo e controcampo, e in quella dove Gemma, nelle sue varie incarnazioni, sale di corsa le scale, una delle più belle del film.

Gemma è invece il tasto dolente, non per via delle belle interpretazioni della già citata Noce e di Micaela Ramazzotti, ma per lo scarso lavoro di scrittura del suo personaggio, del quale si faticano a capire le motivazioni, e dal quale traspare la consueta visione del mondo mucciniana in cui le donne "la danno via con la fionda", di solito per ragioni di sicurezza economica.
Molto ben scritti invece (dallo stesso regista e dal cosceneggiatore Paolo Costella) i tre personaggi maschili che corrispondono ad altrettante identità degli autori, e soprattutto delineano insieme il profilo di una generazione.

È proprio il ritratto di chi oggi è arrivato ai cinquant'anni il punto di forza e il cavallo di Troia che si insinua nella coscienza degli spettatori, de Gli anni più belli: un ritratto che finora nessuno aveva portato al cinema con altrettanta compiutezza, mettendo a fuoco una generazione sfocata, travolta da una "metamorfosi socioculturale", umiliata dal precariato e schiacciata dai padri. In questo senso il modello di riferimento dichiarato del film, C'eravamo tanto amati, fa da efficace pietra di paragone, perché i protagonisti di Gli anni più belli, smarriti e spaesati, sono l'ombra di quelli del capolavoro di Ettore Scola, ed è giusto così, perché non possono avere lo spessore e la definizione di chi ha vissuto un'Italia molto diversa dalla nostra…

il vero spirito del film di Ettore Scola era profondamente politico (difatti iniziava con la Resistenza), mentre Muccino è più interessato al tradimento degli affetti, uno dei punti cardine della sua filmografia e snodo centrale delle vite dei suoi personaggi.
Dunque perché far parlare i protagonisti in macchina se poi si abbandona per strada questo (trito) escamotage? Perché utilizzare precisi momenti storici di raccordo in maniera grossolana ed elementare (Favino diventa praticamente un berlusconiano, Santamaria un grillino in quella che è una fiera di banalità assolutamente non necessaria allo spettatore), per poi dimenticarsi delle colpe e assolvere tutti dall’alto? Si dirà che il perdono è un’arma efficace contro l’oscurantismo contemporaneo, ma in questo caso risulta completamente incoerente con le azioni dei personaggi, impedendo tra l’altro il raggiungimento di quella catarsi definitiva inseguita per tutta la narrazione.

benché non sia di certo privo di difetti o eccessi di sentimentalismo, alla fine il grande vortice di Gli anni più belli schiaccia ogni difetto a colpi di immagini e cinema. Non tutto quel che viene detto o come viene detto è memorabile e la scrittura non può di certo essere considerata inattaccabile. Gli anni più belli però la sua partita la gioca su un altro campo, nel trascinare il pubblico dentro un’epopea personale e privata, usando il comparto visivo, spiegandosi con i colori, i costumi, il montaggio e la fotografia, usando le immagini come pallottole. Un arrivo in vespa disperato in una Roma deserta durante i mondiali per trovare il proprio amore, una visita nella vecchia casa povera e una corsa su per le scale che sembra un viaggio nel tempo e nei costumi del film (la trovata migliore di tutte, quella che riassume il senso di quello stile furioso e sentimentale e forse racchiude un’intera carriera) sono solo alcuni esempi della capacità di Gli Anni Più Belli di lavorare sulle immagini e sull’efficacia visiva a livelli che il cinema italiano commerciale non conosce.

Gli anni più belli vorrebbe essere un‘analisi del fallimento di una generazione, ma è soprattutto l’immagine del fallimento del cinema di Gabriele Muccino.

Muccino viene ad un certo punto meno anche alla fedeltà con se stesso, perché alla fine non se la sente di condannare tutti (il personaggio di Favino in primis) e decide in maniera improvvida di dirazzare verso il “volemose bene”, verso il “c’eravamo tanto amati ma in fin dei conti ci amiamo ancora”, che risulta ben poco coerente con premesse e svolgimento del racconto. E allora è qui che tornano alla memoria anche tutte le grossolanità su cui fino a quel punto si era chiuso un occhio, tutte quelle forzature narrative che avevano spinto i personaggi ora da una parte ora dall’altra, debolezze che per larga parte si era deciso di perdonare sia per l’istintiva foga con cui venivano messe in scena, sia per una recitazione decisamente convincente e tutt’altro che facile; infatti gli attori – dalla Ramazzotti a Favino, a Santamaria a Kim Rossi Stuart – danno tutto, giocando continuamente sui sovratoni e muovendosi in miracoloso equilibrio tra il sublime e il grottesco. Tutte queste perplessità finiscono allora per riemergere inevitabilmente di fronte alla raggiunta maturità dei personaggi, dove il racconto si fa più posato, più malinconico, più tenero, più affettuoso, più ciondolante e sussiegoso, e dunque meno convincente e meno adatto alla macchina-cinema mucciniana, che vuole per sua consustanziale necessità il sopra le righe, l’urlo lo schiamazzo e il pianto, e che senza questi elementi appare in fin dei conti poco interessante, e anche trascurabile.

Da grandi sono Pierfrancesco Favino, avvocato di successo. Ma nel frattempo ha perso l’anima, segnatevelo, ha cominciato difendendo d’ufficio i bisognosi e ora sta dalla parte dei corrotti (anche il regista più borghese di tutti, che proprio per questo e per la sua bravura tecnica si era fatto amare, disprezza la borghesia). Kim Rossi Stuart dopo anni di precariato ha finalmente un posto da insegnante (con quel sovrappiù di noia e di tristezza che sempre hanno al cinema i lettori di libri). Claudio Santamaria aveva ambizioni da critico cinematografico (comincia su una rivisita chiamata Zapruder) e dopo molta disoccupazione si fa grillino, perdendo le elezioni. Donne, una soltanto: Micaela Ramazzotti (già da piccola, quando l’attrice è Alma Noce, ha già tutti i birignao che svilupperà da grande). Dallo stereotipo “fragile, svampita, poco amata da piccola, sempre sull’orlo della crisi di nervi, pasticciona nelle relazioni e generosa delle proprie grazie” proprio non si esce. Sullo sfondo, il crollo del Muro di Berlino, Mani pulite, la discesa in campo di Berlusconi, le Torri gemelle. Per festeggiare i centenario di Federico Fellini, un bagno nella fontana di Trevi.

…Di trovate che non trovate siano una tranvata dritta nei denti? Sì, tipo i tipi che parlano in camera, così, a cazzo. Ma che cazzo, su. Ribrezzo.
Di performance attoriali che, ebbene, sì, ti scartavetrano le pareti neuronale e anale con chirurgica, gravida, perfida precisione: Santamaria il “sopravvissuto” (al parrucco da denuncia alla corte dei diritti dell’uomo), Rossi Stuart l’intellettuale sfigato e cornuto, Favino il berlusconiano che si è fatto da sé, Ramazzotti la zoccola coatta di buon cuore. Letali.
Ah, ve prego (luridi dei del cinema): l’accoppiata Muccino-Ramazzotti mai più. La xylella fa meno danni.
Di storie amicali lunghe quarant’anni che abbracciano il nostalgico letargico giovanilismo mucciniano, i trentenni in crisi, i quarantenni in crisi, i cinquantenni in crisi. Prossimo passo: i cimiteri in crisi.
Di randomici accenni bignamici sul Paese che cambia, così, per darsi un tono da intellettuale che ne sa e ne sa dire, eh, in filigrana. Solo che la valuta è fasulla.
Di canzonette urlate a squarciagola: l’orrore, l’orrore (che poi, è tutto sempre fintissimo da un chilometro e mezzo).

Di movimenti ariosi-stretti-fuffosi della mdp, carrelli, giravolte, svolazzi, primi piani, campi e controcampi e contropiedi telefonati: uè, so’ il regista, esisto, ho girato in America, fate caso alla forma! (di caciotta flaccida-rancida pure se è di plastica).
Di cose remakkose: da Scola a Risi che bell’omaggio al cinema italiano. Un omaggio di merda.
Di due ore e dieci di muggenti muccinismi che trovano (incredibile) riscontro positivo in (molti) critici esaltanti: esalato l’ultimo afflato di libero pensiero critico …

2 commenti:

  1. E' il primo film di Muccino (anzi, il secondo... anche "Sette anime" non mi era dispiaciuto) che riesce a piacermi, a comunicarmi qualcosa: pellicola adulta, finalmente meno isterica e nostalgica, che trasmette sentimenti veri. Non male, bisogna ammetterlo.

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    1. eh sì, quando un film merita, anche se è di Muccino, si può dire:)

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