martedì 9 gennaio 2018

Morto Stalin, se ne fa un altro (The Death of Stalin) - Armando Iannucci

sono andato al cinema con tutte le migliori intenzioni, i primi 5 minuti fanno ridere, poi poco o niente.
sceneggiatura a incastri, attori bravi, ma alla fine non ti resta molto, parlo per me, naturalmente.
se voleva far ridere, un film nel quale i primi 5 minuti sono i più divertenti ha qualche problema.
forse voleva fare altro, magari pensare, chissà.
o magari era un gioco di battute e per sceneggiatori.
la storia di Maria Yudina è abbastanza vera, la figlia di Stalin sembra Alba Rohrwacher, alla fine scopro che è Andrea Riseborough, una somiglianza impressionante.
magari vi piacerà, a me ha lasciato l'amaro in bocca - Ismaele







Siamo solo ai primi di gennaio, ma già Morto Stalin, se ne fa un altro si candida a titolo peggiore, e più triviale, del 2018. Perché mai non La morte di Stalin, come da originale? Anche ben piazzato, se è per questo, come film più sopravvalutato del 2018. Eppure stando al tam-tam e al can-can scatenatosi in Inghilterra, The Death of Stalin sembrava un film fondamentale. Di quelli che non ti puoi perdere. La dimostrazione definitiva, secondo i suoi estimatori, della superiorità dell’umorismo british, e dello spirito british, sul resto del mondo. Insomma, ci si aspettava il capolavoro, anche sulla scia di chi a Londra era stato e tornato e ne diceva mirabilie. Macché. Delusione quando un mese o poco più fa lo si è visto in concorso al Torino Film Festival. In questo film apparentememente sofisticato e alto, e invece nel suo profondo di vera volgarità, si scherza pesante su cose maledettamente serie al fine di cavarne una black comedy ridereccia neanche così riuscita…
…In fondo, a risultare interessante in questo The Death of Stalin non è tanto l’operazione satirica, quanto la ricostruzione degli eventi. Come un RaiStoria, però con gran dispiegamento di mezzi e un più alto tasso di spettacolarità e narrativizzazione. Potrei sbagliarmi, ma l’impressione è che i fatti siano ripercorsi con fedeltà, solo osservati attraverso la lente deformante del grottesco. Come in una lotta darwiniana, nella partita di successione sopravvivono, e vincono, i più furbi e più forti. In testa l’apparentemente modesto e qualunque Krushev, che riesce a ordire il complotto che porterà alla defenestrazione (e alla morte ) dell’abominevole Beria, il vero villain di questo film, e di quel pezzo di storia noventesca. Il clima di sospetto e paura generalizzati, la delazione diffusa, la sensazione di morte incombente di quei terribili, ferrigni anni di tenebra sono la lezione vera che The Death of Stalin ci consegna. Ed è anche quello che resta del film. L’ironia, quella no, quella non passa ed è del tutto superflua. Non solo per quanto detto sopra, ma anche perché Iannucci si ferma a metà. Almeno avesse spinto a fondo e impudicamente sulla farsaccia, magari nell’eccesso il film avrebbe trovato un suo senso, una sua direzione e una qualche giustificazione. Così è solo un prodotto anfibio, irrisolto, paraculo e indeciso a tutto. Pure con un ritmo sonnolento. E noi che ci aspettavamo un crepitio di battute, quel velocissimo ping-pong dei migliori dialoghi da black british comedy. Occasione mancata.


funziona come un congegno ad orologeria, fa della sceneggiatura dello stesso regista Armando Iannucci (con Peter Fellows, Ian Martin e David Schneider) il punto di forza intorno al quale far girare la rappresentazione, secondo uno schema non nuovo, quello della pochade, che però bisogna essere bravissimi a maneggiare affinché non finisca tutto in farsa. L’operazione è interessante per due motivi. Il primo, immediato, riguarda l’incastro tra i vari personaggi, i tempi comici del racconto e i luoghi (quasi tutti interni). Dalla drammaturgia, dalla prova degli attori e dai dialoghi scaturisce la forza comica del film. Il secondo motivo riguarda invece il potere nel suo farsi e soprattutto nel suo disfarsi. Ci si può interrogare se sia lecito ridere di una figura come Berija, che ha ucciso o mandato a morire centinaia di migliaia di persone, ma qui la vera domanda è un’altra: riesce The Death of Stalin a conservare la tragicità di queste figure, dei loro misfatti, pur raccontandole secondo i codici del comico? Credo di sì. Anzi, si tratteggia con intelligenza un’autopsia del potere, rappresentato da un tiranno ubiquo e assoluto, per rivelarne le umanissime miserie.

Armando Iannucci (nome italiano ma nazionalità britannica con curriculum invidiabile nella commedia radiofonica e televisiva) evita ogni sudditanza e si permette di scherzare con le stragi di massa, di mostrare un disprezzo per la vita a tratti realmente esilarante e una strana atmosfera a metà tra la rilassatezza della compagnia di amici e la violenza della scalata al potere. Come se complottare, tramare e condannare quelli che fino a 5 minuti prima erano amici, fosse un atteggiamento talmente radicato da non essere più faticoso o “grave”, ma molto naturale e di routine.
Iannucci è magistrale nell’usare tutte le parti dell’inquadratura per giustificare una battuta, sa costruire situazioni puramente lubitschane (quella iniziale del concerto di classica ne è un esempio perfetto) ed è bravissimo ad istruire il suo cast di attori, creare i presupposti comici e lasciare che i personaggi si scannino a partire da questi, sapendo che non si potrà che finire in una situazione esilarante anche grazie alla presenza di Jeffrey Tambor, Steve Buscemi, Jason Isaacs, Michael Palin Simon Russell Beale.
In questo modo, buttando in farsa la vera storia, Morto Stalin Se Ne Fa Un Altro è il primo film a rendere con concreta impressione di realismo il clima paradossale della burocrazia violenta del comitato centrale del partito comunista sovietico, gli scambi di parole pensati per non essere accusati di tradimento, i termini da non usare, l’ossessione delle cimici, la paradossale fatica nel tenere a mente chi è ancora vivo e chi è stato eliminato e una strana via di mezzo tra la bramosia di potere e l’esigenza di emergere per rimanere vivi.

Grazie ad un cast che racchiude commedianti di gran razza (da Buscemi a Tambor, a Palin), il film di Iannucci tuttavia scade nell'incongruo già dal punto di partenza: sentire recitare in inglese attori inglesi o americani è naturale, ma non lo è se si parla della storia di una nazione, anche in toni apertamente satirici come in questo caso. Sarà coerente nell'ambito della produzione dell'autore, ma preso singolarmente il film pare un giochino ben costruito, forte di un gran cast di attori di razza (tra le donne una splendida Kurylenko e la folle figlia dello statista, resa bene dalla Riseborough)
E la caricatura politico-dittatoriale, se vogliamo proprio dirla tutta, raggiungeva ben altre sfumature e finezze con Mel Brooks protagonista e pur non regista di quel folle To be or not to be, in pieni anni '80, incentrato su un altro despota, ma ugualmente indicativo, solo per citare un esempio.
Pertanto ritmo sostenuto, gags ben orchestrate, ma il retrogusto di farsa organizzata da lontano rimane a rovinare i presupposti di un divertimento arguto dato per scontato.

…non si può fare a meno di domandarsi cosa ne possa pensare un russo di un film del genere – e, non è un caso, i russi non sono in nessun modo coinvolti nella realizzazione di questo film (d’altronde, anche Olga Kurylenko, che interpreta una pianista, è ucraina) – e non si può fare a meno di chiedersi come reagirebbero gli americani se qualcuno decidesse di mettere in burletta l’undici settembre o come reagiremmo noi italiani se qualcuno facesse la stessa cosa con le Fosse Ardeatine. Lo stesso Guzzanti i fascisti li ha mandati su Marte. O, ancora, Lubitsch in Vogliamo vivere! mette in ridicolo il Führer, ma lo fa senza mai dimenticare il dramma. E poi, in più, quel dramma era il suodramma, di ebreo tedesco. E allora forse bisogna avere un po’ più di rispetto per le tragedie altrui.

The Death of Stalin is a masterpiece. Everybody involved in its making deserve applauding for creating such a funny, bold, thought provoking, alarming and unforgettable film. There is literally not a foot put wrong here and Iannucci once again shows us why he is a war hero on the satirical comedy battlefield.

Presenting… Monty Python’s production of George Orwell’s 1984. Or damn close to it. So The Death of Stalin is akin to Terry Gilliam’s Brazil, then? Well, sort of. (I definitely scribbled “Brazil” in my notes while watching.) But Brazil was fiction; clearly inspired by actual totalitarian regimes, but entirely fictional. Stalin, however, is based on terrible reality. Perhaps not since Charlie Chaplin’s 1940 satire The Great Dictator has a filmmaker taken on such awful personalities and events and attempted to make us laugh about it all. Except in 1940, the atrocious extent of Hitler’s crimes was not yet known. So has there ever been a film quite like this?
The audacity of writer-director Armando Iannucci is, therefore, astonishing. Even more miraculous is that Stalin works as a comedy. It’s outrageously funny in ways that sometimes make you feel like you shouldn’t be laughing, but you can’t stop.
Perhaps if anyone could pull this off, it’s Iannucci, who has previously given us the television comedy of Veep and The Thick of It (which spawned the uproarious film In the Loop), both of which send up contemporary political shenanigans in, respectively, Washington DC and Whitehall. But, again: those are fictional. And comparatively light next to the dark, bleak maneuverings of Cold War-era Soviet muckety-mucks, men responsible for, among other things, mass murder of their own citizens…

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