lunedì 8 ottobre 2018

Il bene mio - Pippo Mezzapesa

Sergio Rubini, che è Elia, abita, solo, a Provvidenza, non ha mai voluto lasciarlo per andare nella new town.
è l'ultimo che vuole ricordare quello che era, che continua ad esserci, a Provvidenza.
ricorda, immagina, sogna.
un giorno appare Noor, senza niente. come lui, solo che per lei  quel paese deserto è una tappa, per arrivare in Francia.
Provvidenza resterà per sempre un simbolo di morte e deserto, come i film western che appaiono nel film.
Elia deve riuscire a scappare alle guardie, a non essere omologato.
se ci riuscirà lo vedrete al cinema.
buona visione - Ismaele





Grazie a una prova d'attore misurata e sopraffina, Sergio Rubini dà anima e corpo a un uomo dolente, che fa della memoria un viatico per restare più umano. Il suo Elia non fugge dalla prospettiva del dolore, ma lo abbraccia con estrema consapevolezza pur di ritrovare una forza autentica per costruire un futuro nuovo. Il tocco delicato e mai ricattatorio di Pippo Mezzapesa riesce a creare una storia statica che, senza che il pubblico se ne accorga, fa passi da gigante nell'anima del suo protagonista. Perché la vita è più forte del lutto, della nostalgia e del passato. La vita trova il modo, ti scuote, va avanti. Per capirlo non bisogna voltare le spalle ai propri demoni e far finta di dimenticare. Una morale che Il bene mio fa rimanere bloccata in gola allo spettatore come un urlo strozzato. Tra riferimenti a Verga e temi cari Pavese, il film di Mezzapesa ha la pazienza di un bel romanzo. Sfogliandolo si ritrova il cinema italiano più viscerale e attuale. Quello che insegna che, a volte, rimanere è come andarsene due volte. A volte bisogna avere semplicemente il coraggio di restare.
da qui

…Assolato e metaforico paesello, Provvidenza ci ricorda anche le fragilità che segnano il nostro territorio, la necessità di un impegno quotidiano per conservarlo e trasmetterlo a chi viene da fuori o al mondo. Elia è interpretato con la consueta precisione stralunata da Sergio Rubini, fiero di quella che il sindaco e gli altri leggono come ostinata cocciutaggine, ma che per lui non è altro che bisogno di rimanere, incapacità di capire il perché non dovrebbe farlo.
Nell’era dell’obsolescenza programmata e delle new town, Il bene mio è anche un inno nostalgico e sincero alla durata degli oggetti, delle case e con esse dei ricordi. Elia e Noor ci ricordano come la vita va avanti, le cose si aggiustano, ma buttare e via e dimenticarle è l’atto più vile che si possa compiere verso chi se n’è andato.

Struggente e malinconico come una blues ballad, ma anche pieno di speranza e di fiducia nel futuro, rigorosamente illuminato dalla luce del passato, come accade per la regia di Mezzapesa che si muove delicatamente tra le macerie, lontana dalla speculazione tipica della “tv del dolore”, vicina, piuttosto, all’incanto meraviglioso del realismo magico, dell’eccezionale che irrompe nel reale, ridefinendone tanto i contorni, quanto gli spazi e i confini.

 La struttura del racconto, nonostante il realismo apparente, è quella della fiaba: una fiaba ricca di soffitte nascoste, presenze misteriose e segreti da scoprire. Se Pinuccio Lovero, protagonista dei due mockumentary girati da Mezzapesa (e presente ne Il bene mio con un cammeo), voleva fare il becchino in un luogo dove non moriva più nessuno, Elia si autoelegge custode della memoria di una comunità dove i morti sono stati fin troppi: perché "ricordare bisogna", e si deve ricostruire ciò che è crollato, invece di inventarsi un paese nuovo e senza storia…
da qui

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