lunedì 15 maggio 2017

Banat Il Viaggio - Adriano Valerio

nel (gran) libro La badante di Bucarest, di Gianni Caria, nel quale un'insegnante precaria va in Romania a fare la badante, 
nel film è un agronomo a prendere il largo, verso la Romania, dopo anni di precario della vita, per un lavoro che non si capisce bene come andrà a finire.
Clara, la compagna, anche lei precaria della vita, lo seguirà.
bravi e convincenti i due protagonisti.
cosa succederà guardatelo da voi, non vogliate riassunti di un film che merita di essere visto, un'opera prima che vale - Ismaele




…Se poi il film lo vai a vedere, ti rendi conto invece che il tragitto Bari-Banato (o Banat*) del giovane uomo Ivo è più un pretesto per la messa in scena per immagini e suggestioni d’ambiente di Adriano Valerio che un vero binario narrativo. In Banat il racconto latita clamorosamente, (non) procedendo per silenzi, non detti, allusioni, ellissi, volute omissioni, come in moltissimo giovane cinema da festival in cui fatichiamo a intravedere il tessuto connettivo. Film anoressico che mostra, e mostra benissimo con grande eleganza, senza riuscire mai a renderci interessanti i suoi personaggi e le loro vaghe trame esistenziali, e i loro tormenti e dilemmi. Valerio traduce in lingua contemporanea la lontana lezione di Antonioni, piazza la macchina da presa perlopiù frontalmente, immergendo cose e figure all’interno di paesaggi che sembrano il suo vero oggetto d’attenzione (e per diluire ancora di più le figure adotta il grande schermo). Con scarsi movimenti di macchina, perlopiù lentissimi e con carrellate orizzontali destra-sinistra o sinistra-destra…
…Edoardo Gabbriellini è molto giusto, molto in parte, e asseconda bene l’approccio rigoroso e asettico del regista. Elena Radonicich è quasi una rivelazione, bella e brava davvero, pur senza smancerie. Incredibilmente credibile la lunga scena d’amore..

Banat – Il viaggio è il primo lungometraggio di Adriano Valerio. Il film non è di facilissima lettura essenzialmente per due motivi. Il primo motivo, voluto dal regista, perché i dialoghi sono ridotti all’osso e solo una grande Piera degli Esposti consente allo spettatore di uscire di tanto in tanto da una sorta di apnea visiva. Il secondo motivo, presumibilmente non voluto, è un disorientamento narrativo che rende la storia troppo fragile. Eppure nella struttura dello script c’erano tutti gli ingredienti per poter approfondire la natura dei protagonisti, i flussi sociali ed economici che regolano il racconto e i personaggi con cui le figure principali vengono a contatto. Soltanto la solita Piera degli Esposti emerge nonostante questi limiti, ma la sua bravura interpretativa e la sua presenza scenica sono sempre una garanzia.
Ivo e Clara sono due trentenni che vivono a Bari. Le loro vite si incrociano per una notte ma da allora saranno destinate a non perdersi di vista. Ivo è un agronomo disoccupato che sta partendo per seguire un progetto in Romania in una sorta di ‘emigrazione al contrario‘, precisamente nella regione del Banat, dove ha trovato un’opportunità per la sua professione. Clara invece è una restauratrice di barche che il giorno seguente il loro incontro sarà licenziata…

…Il regista, che ha lasciato l’Italia da molti anni per vivere e lavorare in diversi paesi, conosce bene – probabilmente –  il senso di disorientamento conseguente al distacco dalle proprie radici. Già nel corto pluripremiato 37°4S aveva raccontato il rapporto conflittuale che si ha con la propria terra, realizzando, più o meno consapevolmente, una specie di prologo di Banat. Straniamento e spaesamento sono, dunque, gli stati d’animo che Valerio intende indagare, attraverso l’incontro di due esseri umani soli e in cerca di identità.
I modelli dichiarati del regista sono autori nord europei come Kaurismaki e Dagur Kari, capaci di far emergere, tra le trame del dramma, anche momenti di humour e di comicità surreale. In verità, il discorso sulla condizione esistenziale di chi è sospeso tra due mondi resta, a tratti, in superficie e anche l’ironia stenta a decollare. Ad un certo punto, prevale il versante “sentimentale” e il film si trasforma in una comune storia d’amore, con tanto di canzone “Se t’amo t’amo” di Rosanna Fratello...

…Ma chi se ne frega della storia, del progetto, delle tematiche che servono a riempire i giornali con i “contenuti sociali” di un film. Per fortuna Valerio, che pure ha sperimentato sulla sua pelle queste andate (e ritorno?) della generazione Erasmus, sa affrancarsi immediatamente dalle gabbie contenutistiche del cinema nostrano, lasciando libero il suo cinema di raccontarci una deliziosa e goffa storia d’amore, come non ne vedevamo dai tempi di Corso Salani, il cui cinema sembra ogni tanto trasparire, forse involontariamente, dalle pieghe del film.
Ed ecco i paesaggi gelidi e ghiacciati della Romania, e lo spaesamento visivo, culturale ed emozionale che prende il sopravvento. Ivo finalmente può fare il “lavoro della sua vita” (è un agronomo), ma presto dovrà fare i conti con una realtà piuttosto complicata, dove la crisi e la Storia (il vecchio regime di Ceausescu) hanno determinato regole sociali non sono quelle alle quali era abituato.  Ma tra un ballo con i contadini nel sabato del villaggio, una bevuta con i nuovi amici con i quali lavora, il tempo sembra volare, anche se ogni tanto, guardando il paesaggio invernale desolato Ivo si domanda “ma che ci faccio qui?”.  Non fa in tempo a perdersi nel vuoto dello spaesamento in terra straniera che, a sorpresa, Clara lo raggiunge, riempendogli improvvisamente quel buco nero in cui sembra essersi perduto. E qui il film esplode, come in un melodramma al contrario, dove è la felicità e non il dolore il cuore della storia, che si riempie di giochi del corpo e del cuore, fino a quella canzone (“Ma t’amo, t’amo”) che Clara canta con passione e che il regista rispettosamente sceglie di mostrare fino alla fine. Sono attimi di gelo e di calore che Valerio riesce a raccontare con una delicatezza di sguardo, riuscendo sempre a far vivere il paesaggio dentro i corpi (o viceversa?) dei suoi personaggi….

Ivo e Clara sono alla ricerca di un nuovo orizzonte che però si rivela illusorio perché non è possibile sfidare regole distorte che si sono ormai incistate in un microcosmo rurale in cui ogni novità rappresenta una minaccia. Gabbriellini e Radonicich sanno incarnare bene gli entusiasmi e i timori di chi non ha rinunciato alla speranza neppure quando si trova di fronte a un mare piatto come la vita che avrebbe potuto essere 'nova' ed invece rischia di non essere tale. Ma sperare costa fatica e il rischio del cedimento davanti a un fuoco che divampa, distruggendo ciò che si cercava di costruire, rischia di far congelare non solo le piante ma anche quei germogli che sembrano non poter attecchire in una realtà in cui Valerio colloca i suoi personaggi anche in campi lunghi che sfidano la fruizione miniaturizzata della tecnologia dei nostri giorni. L'unico rischio non del tutto scongiurato è quello di una certa freddezza narrativa che la sensualità dei corpi in amore non sempre riesce a neutralizzare.


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