mi ha ricordato Le trou di Jacques Becker, che è di quattro anni posteriore.
il dovere della fuga, per riacquistare libertà e dignità.
e quando i due riescono a fuggire è un sollievo e una gioia, vorresti essere affianco a loro per sostenerli e accompagnarli.
un piccolo capolavoro, non adatto a chi soffre di claustrofobia, ma perfetto per tutti gli altri - Ismaele
il dovere della fuga, per riacquistare libertà e dignità.
e quando i due riescono a fuggire è un sollievo e una gioia, vorresti essere affianco a loro per sostenerli e accompagnarli.
un piccolo capolavoro, non adatto a chi soffre di claustrofobia, ma perfetto per tutti gli altri - Ismaele
…Dalla cella Bresson fa partire un prison-movie dell'anima: seguendo il piano del
detenuto che lentamente scardina la porta della cella, il regista va a
frantumare il dècoupage:
teoria e prassi filmica coincidono. Le inquadrature si susseguono scomposte con
un montaggio fatto di primi, primissimi piani e dettagli, la crescente frenesia
del protagonista diventa la nostra frenesia, che viviamo e scaviamo a fianco
del protagonista. A completamento della sua sinfonia, Bresson tesse un
tappeto sonoro fatto di rumori duri, graffianti, metallici, che rende la realtà
della cella ancor più cupa e claustrofobica.
Senza nessuna forzatura o sbavatura espressiva, l'autore francese costruisce così un nucleo esasperato di tensione emotiva, di suspense: solo la certezza che il condannato a morte ritorni libero, che la fuga riesca potrà estinguerla. Ciò avviene tramite la lunga sequenza finale, silenziosa come l'espletazione di una liturgia, dove la regia di Bresson libra fluida verso l'alto: Fontaine (insieme al suo compare di fuga) raggiunge l'agognato obiettivo e, svincolato dalle pareti del carcere, si fa risucchiare dall'esterno e i personaggi si dissolvono nella nebbia che addensa lo schermo, mentre nel sottofondo depurato dai rumori cresce potente la "Messa in Do Minore" di Mozart…
Senza nessuna forzatura o sbavatura espressiva, l'autore francese costruisce così un nucleo esasperato di tensione emotiva, di suspense: solo la certezza che il condannato a morte ritorni libero, che la fuga riesca potrà estinguerla. Ciò avviene tramite la lunga sequenza finale, silenziosa come l'espletazione di una liturgia, dove la regia di Bresson libra fluida verso l'alto: Fontaine (insieme al suo compare di fuga) raggiunge l'agognato obiettivo e, svincolato dalle pareti del carcere, si fa risucchiare dall'esterno e i personaggi si dissolvono nella nebbia che addensa lo schermo, mentre nel sottofondo depurato dai rumori cresce potente la "Messa in Do Minore" di Mozart…
Troppo spesso Robert Bresson è stato
dimenticato e lasciato da parte dai cinefili. Ciò a torto, in quanto è stato un
genio che ha saputo coniugare espressività della cinepresa con lo sviluppo di
profonde tematiche morali e anche religiose. “Un condannato a morte è fuggito”,
insieme al bellissimo “Diario di un curato di campagna”, rappresenta di certo
il manifesto artistico Bergsoniano. Chi conosce i film di questo severo e
isolato regista francese, sa che egli non fu mai amante degli scenari elaborati
e dei virtuosismi tecnici, restava sempre di uno stile fortemente rigoroso e
sobrio, ma per questo di una grande forza visiva perchè sapeva bene che nel
cinema sono le immagini a parlare, anche nella loro essenzialità e crudezza…
inizia così:
Nessun commento:
Posta un commento